Come «Balena Bianca» nel corso dei mesi passati abbiamo osservato con attenzione e curiosità l’accoglienza riservata a Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli 2021), l’ultimo pamphlet di Walter Siti, capace, come pochi libri negli ultimi anni, di suscitare reazioni molto contrastanti e di imporsi velocemente come oggetto di animate discussioni. Il fatto che la qualità divisiva del libro, e forse proprio anche grazie a essa, non gli abbia impedito di raggiungere la vetta della sezione saggistica delle Classifiche di qualità a cura della rivista «L’Indiscreto» per il trimestre febbraio-maggio ha mostrato in modo chiaro che le questioni affrontate nei diversi capitoli del pamphlet siano percepite come urgenti dai lettori e che l’autore abbia trovato un modo efficace di articolare le sue posizioni.
Interrogandoci sulla maniera più sensata di dare spazio al libro sulla nostra rivista, abbiamo pensato che, più che dedicargli una singola recensione o approfondimento, ci sarebbe piaciuto raccogliere nel nostro piccolo l’appello lanciato nelle ultime righe di Contro l’impegno, che si chiude sotto l’auspicio di una discussione sulle tematiche affrontate. Abbiamo quindi deciso di elaborare un breve questionario di quattro domande, abbastanza composite e stratificate, che riprendessero alcuni punti a nostro avviso cruciali nell’economia del libro: il pubblico di Contro l’impegno; il legame tra letteratura e moralità; la questione del canone; la cornice teorica delle riflessioni dell’autore.
In seguito, abbiamo sottoposto il questionario a un gruppo di collaboratrici e collaboratori legati alla rivista – tra i quali anche alcuni redattori –, con l’intenzione di continuare un dibattito che, a partire dal libro di Siti, vorremmo si allargasse a questioni di portata più ampia e proseguisse anche in futuro in forme, tempi e luoghi differenti. Le risposte al questionario saranno pubblicate sulla «Balena Bianca» in una rassegna di cinque puntate nelle prossime settimane. Dalla sua uscita in aprile diverse recensioni intelligenti sono state dedicate al libro: fra le altre, ci fa piacere segnalare quelle di Mario Barenghi, Jonathan Bazzi, Romano Luperini, Carlo Mazza Galanti, Gilda Policastro e Chiara Portesine. Rimandiamo a questi scritti, oltre che a un interessante colloquio radiofonico (01:01:51-01:33:20) fra Walter Siti e Loredana Lipperini a “Fahrenheit-Radio3”, per un inquadramento del libro che non abbiamo spazio di effettuare a nostra volta in questa sede.
Questa settimana pubblichiamo le risposte di Olga Campofreda (OC), Filippo Pennacchio (FP) e Valentina Sturli (VS), che ringraziamo per la disponibilità a partecipare.
1. Ogni volta che esce un libro di critica letteraria militante, nato per stimolare un dibattito intorno ai fatti letterari e alle loro relazioni con il sistema culturale e con la società si pone il problema del pubblico. A chi si rivolge Contro l’impegno? A quali lettori Walter Siti indirizza le proprie stilettate? Pur nella dichiarata disorganicità del libro, costante è da parte dell’autore il riferimento a un orizzonte che comprende l’intero campo della letteratura; Siti chiama in causa i grandi classici, cita studi accademici, salvo poi riservare i suoi “carotaggi” per lo più a opere di consumo e autori capaci di costruire una propria riconoscibilità mediatica nella cultura mainstream (Saviano, Murgia, Carofiglio, D’Avenia…): una scelta parziale che non sfugge al lettore avveduto, ma che magari confonde chi non è esperto di questioni letterarie. Una scelta che peraltro consente a Siti di rendere trasversale il proprio discorso, di non fare troppe distinzioni. Come valuti l’equilibrio trovato da Siti tra le ambizioni del pamphlet e la sua effettiva articolazione, anche alla luce del suo pubblico potenziale? Può la critica rompere il muro di gomma che la separa dal grande pubblico e offrire un’interpretazione della cultura a uso di tanti?
OC: Presentando subito un attacco a effetto con le affermazioni di Leopardi sull’inferiorità delle donne, citando la nuova policy della Disney sugli stereotipi culturali in lungometraggi come Aristogatti e Dumbo e ancora chiamando in causa le polemiche intorno alla rappresentazione degli afroamericani in Via col Vento, il pamphlet di Siti a mio avviso cavalca la scia della complessa questione della cancel culture. Benché di cancel culture nel testo non si parli mai direttamente, gli attacchi contro un certo moralismo della letteratura contemporanea hanno principalmente come obiettivo la nuova forma di impegno che tende all’analisi e alla decomposizione del privilegio. Il titolo stesso del saggio sembra strizzare l’occhio a quei lettori che nell’ambito di questo dibattito hanno guardato criticamente alle voci del nuovo engagement provenienti dal #metoo e dall’esperienza di Black Lives Matter. Criticando esponenti precisi della letteratura mainstream senza fornire un’idea del contesto ben più complesso e vivace dell’editoria italiana (e quindi della letteratura che essa produce), Siti scrive un pamphlet che in certi punti fa lo stesso gioco dei testi criticati: mira a convincere chi è già d’accordo in partenza con le sue posizioni. L’interpretazione del panorama letterario contemporaneo qui fornita, benché impeccabile, resta parziale e arbitraria per le modalità con cui i testi analizzati sono stati scelti. Di fatto, leggendo Contro l’impegno, il lettore non è invitato a espandere le proprie letture a meno che non si tratti di classici (che nell’argomentazione di Siti rappresentano il contraltare positivo). Fa eccezione il capitolo sui talk show, che ha la potenzialità di costituirsi quale utile strumento per agevolare un approccio più consapevole al mezzo televisivo.
FP: Credo che Contro l’impegno si rivolga a un pubblico più ampio di quello dei soli critici di professione o degli esperti di letteratura. Questi ultimi, del resto, potrebbero obiettare che certi passaggi sono fin troppo sbrigativi, o che nel libro non si dà conto dell’opinione di questo o quell’altro studioso. In parte avrebbero ragione: sarebbe stato interessante se Siti avesse dialogato con altri che hanno ragionato sulle questioni al centro del pamphlet. Ma in fondo non si può chiedere al libro di essere ciò che non è, vale a dire un saggio scientifico, il prodotto di una ricerca sistematica. Il punto, a mio modo di vedere, è che Siti restituisce al suo lettore un’immagine del campo letterario non del tutto equilibrata. A leggere Contro l’impegno si ricava l’idea che al suo centro ci siano romanzi e saggi che non fanno ciò che la letteratura con la maiuscola dovrebbe fare, cioè puntare alla profondità, lavorare sulle contraddizioni, incrinare le certezze del lettore. Non ho letto tutti i testi di cui Siti scrive, ma credo di poter dire che ce ne sono altrettanti che vanno in una direzione diversa. Siti lo sa, e infatti cita anche Houellebecq, Ellis, Carrère ecc. Ma l’impressione è che le loro opere siano viste come delle eccezioni, sempre più a rischio di scomparire a fronte dell’avanzata di quell’altra letteratura. Non so. Immagino che a livello mondiale Houellebecq, Ellis e Carrère siano più tradotti, venduti, letti di Saviano, Murgia e D’Avenia. Restando in Italia, un libro come Due vite di Emanuele Trevi, vincitore dello Strega, molto discusso e molto letto, non è allineato ai testi di cui parla Siti. E un best-seller come L’amica geniale non restituisce al lettore morali prive di contraddizioni. Ma si potrebbero fare altri esempi. Insomma, se oggi esiste una letteratura che sbandiera il proprio engagement, non credo che stia colonizzando il campo letterario. Peraltro, non escludo che un lettore possa apprezzare per motivi diversi un testo ‘neoimpegnato’ e un altro disimpegnato, uno più sperimentale e un altro che punta all’intrattenimento. Ma forse il mio è solo un wishful thinking postmoderno fuori tempo massimo, o una forma di antipatia verso qualsiasi visione ‘essenzialista’ e gerarchica dei fatti estetici.
VS: È difficile capire a chi si rivolga il pamphlet di Siti, Contro l’impegno; personalmente l’ho trovato un libro intelligente, forse fin troppo intelligente, come succede a volte con Siti. È indubitabile che ci sia un nodo di fondo che l’autore non esplicita, e che la domanda qui sopra mette bene in evidenza: c’è uno sfasamento piuttosto evidente tra la grande portata delle questioni teoriche affrontate, cioè il piano degli strumenti critici, e la qualità dei testi analizzati. L’impianto teorico, il grimaldello analitico che Siti usa per articolare la sua idea di letteratura è fortemente debitore della teoria di Francesco Orlando (e dispiace che Siti non sia stato così esplicito, come avrebbe dovuto e potuto, nel riconoscere questo debito… Orlando è appena citato in una noterella, a illustrazione – se ce ne fosse bisogno – di che cos’è una negazione freudiana). Secondo questa prospettiva, la letteratura è concepita come sede privilegiata di un ritorno del represso, costitutivamente ambivalente, aperta alla modulazione – più o meno esplicita, più o meno diretta – di istanze conflittuali che nella società possono faticare a trovare spazio, e alle quali il testo letterario si incarica – più o meno consapevolmente – di dare voce. Questi strumenti sono stati concepiti e validati da Orlando su testi appartenenti alla cultura tutt’altro che mainstream: Marie de France, Racine, Calderón, Molière, Goethe, Baudelaire, Mallarmé, Wagner, Mérimée, Tomasi di Lampedusa, Cortázar, Bulgakov, Kafka, Dostoevskij, Virginia Woolf – solo per citarne alcuni. Sono tutti testi con un altissimo tasso di figuralità, ovvero con una vertiginosa capacità di aprirsi alle contraddizioni, di articolare a più livelli ambivalenze, affermazioni e negazioni di istanze in conflitto sia dal punto di vista formale che stilistico. Intendiamoci, il ritorno del represso e la figuralità, secondo Orlando, caratterizzano virtualmente qualsiasi tipo di discorso, anche il più corrivo e umile, per esempio pubblicità, battute tra amici, vignette della Settimana Enigmistica. Ma dire che tutte queste manifestazioni possono essere letteratura (secondo Orlando è letteratura qualsiasi forma di espressione scritta o orale in cui si manifesti ritorno del represso) non significa che poi tutto sia buona letteratura. Siti applica strumenti raffinati a testi mainstream, dimostrando – come se ce ne fosse bisogno – che questi ultimi non reggono tanto bene all’analisi stilistico-formale e tematica. Scopre che la prosa di Saviano è spesso stilisticamente imbarazzante, che l’assiologia di Murgia è manichea, che le situazioni messe in piedi da D’Avenia sono stucchevoli. Benissimo. E allora? Murgia, D’Avenia, ma anche Mazzantini, De Cataldo, Carofiglio e tanti altri, sanno benissimo fare il loro lavoro, quello per cui sono pagati e hanno successo, che è poi quello di scrivere testi di un certo tipo per un pubblico che domanda di essere confermato nelle proprie certezze, intrattenuto, rassicurato, non eccessivamente turbato. Oppure, come nel caso di Saviano, scosso e mobilitato su temi sociali importanti, senza tanto stare a interessarsi dei mezzi stilistici impiegati per raggiungere quell’obiettivo. Il problema non è l’impegno o il non impegno di questi scrittori, il problema non sono le buone o le cattive cause con cui i loro testi si schierano. Il problema è che la letteratura, come quasi tutto, è fatta di livelli molteplici, e ci sono tipi di testo in cui la complessità e l’ambivalenza possono trovare più o meno spazio. Il recente libro di Giulio Mozzi, Le ripetizioni, che personalmente trovo uno dei più bei romanzi usciti in Italia negli ultimi vent’anni, tocca questioni talmente complesse e lo fa con un tale livello di anodina, indecidibile, siderale e deliberata raffinatezza che difficilmente sarà compreso da tutti. Sono anzi certa che urterà la sensibilità di moltissimi (e questo è quello che, secondo me, un grande libro deve anche saper fare). Molti si scandalizzeranno perché il romanzo di Mozzi parla di pedofilia, di violenza, di abusi, senza condannarli esplicitamente, ma anzi esplorandone le dimensioni inquietanti come pochi altri hanno saputo fare. Non è un libro più o meno impegnato di D’Avenia o di Murgia; è un libro diverso, che appartiene a un altro strato della letteratura. Sta – per quanto mi riguarda – a Murgia o D’Avenia come il caviale al Big Mac. Il Big Mac, nel suo, è anche buono: solo è diverso dal caviale. C’è chi mangia solo Big Mac e chi (come me e tanti altri) ama alternare e sa riconoscere le differenze. Non è questione di impegno. È questione di papille gustative e di quanto ci si è esercitati a farle funzionare. Se leggo un altro straordinario libro degli ultimi anni, che fortunatamente adesso comincia ad uscire dall’incomprensibile silenzio critico di cui era stato oggetto, Mille esempi di cani smarriti di Daniela Ranieri, ho la stessa impressione: non è tanto un problema di impegno (che pure a suo modo c’è) o meno, è una questione di quanto un libro possa o non possa contenere e rappresentare l’eterna, mutevole, estrema complessità del mondo. Ranieri e Mozzi ci riescono, D’Avenia e Murgia – ahimé – molto meno. Secondo me oggi non abbiano tanto bisogno di una critica che ci dimostri che Murgia o Saviano scrivono male; serve invece – nel dialogo col grande pubblico – provare a spiegare perché e come si può imparare a educare le papille. Perché gli chef che invadono le nostre TV ci sono riusciti, a spiegarci che non di soli tortellini panna e prosciutto vive l’uomo, e noi critici non ci stiamo riuscendo? Sarebbe da chiedersi questo, invece di ribadire l’ovvio: che il caviale non è il Big Mac.
2. Uno dei nodi concettuali intorno al quale Siti dà battaglia agli araldi di ciò che egli definisce “neoimpegno” (riconoscendone sempre i meriti laddove presenti) riguarda i rapporti che le opere letterarie intrattengono con i valori morali. Qual è la natura del legame esistente tra la dimensione estetica e la dimensione morale di un’opera letteraria, ad esempio di un romanzo? Tale annosa questione è al cuore di Contro l’impegno, le cui analisi mirano a demistificare e rivelare la bidimensionalità morale, innocua e risarcente, di molti dei libri presi in esame. Siti difende strenuamente il diritto di chi scrive a trattare contenuti e trasmettere valori apertamente immorali, a patto che questi siano per così dire garantiti da una complessità tecnico-stilistica latrice di una più profonda visione del reale, sia essa definita o ambigua. Come valuti le prese di posizione di Siti su questo spinoso ordine di problemi? Qual è la tua posizione in merito?
OC: Il fatto che la letteratura più commerciale restituisca una rappresentazione bidimensionale della realtà è una delle tesi di Siti e costituisce un dato di fatto difficilmente contestabile. Come per tanti film di Hollywood, anche la letteratura del resto, quando mira ai grandi numeri, diventa kitsch nel senso kunderiano del termine: processando cioè la complessità dei sentimenti perché questi possano essere condivisibili dai grandi numeri. Il rischio di trattare questioni come migranti, diritti delle donne, rappresentazione di culture di minoranza in un contesto letterario commerciale effettivamente rischia di semplificare i problemi. Non è che il neoimpegno sia di per sé privo di complessità, ma nel momento in cui questo entra il territorio del mainstream di fatto subisce una semplificazione. Credo che provocatoriamente Siti critichi il neoimpegno per attaccare il processo di raffinazione che certe posizioni subiscono nel momento in cui accedono al discorso generalista. Scrivere di cose “immorali” assume in questo contesto un significato diverso: significa non avere paura di andare contro le tendenze di mercato. Una grande, difficilissima prova letteraria sarebbe quella di approcciare le tematiche che Siti definisce “morali” in modo non semplicistico e retorico, ma con altrettanta complessità rispetto a ciò che lo scrittore e critico definisce “immorale”. Emmanuel Carrère per me rappresenta uno degli autori che è riuscito a sostenere questa prova, anche se Siti non mi pare essere d’accordo. Altro esempio italiano che invece non viene nominato è l’intera produzione di reportage letterari di Alessandro Leogrande, tutti lontanissimi dal moralismo bidimensionale, pur parlando di storie di migranti.
FP: Sul fatto che la letteratura possa rappresentare storie non edificanti, o evitare di tracciare una linea netta fra bene e male, non posso che essere d’accordo. L’idea che romanzi, saggi, poesie debbano per forza di cose raddrizzare le storture del mondo suona terribilmente moralistica. Posto che non ci trovo niente di male se un lettore trae un messaggio positivo da ciò che legge, o se un libro contribuisce a ‘riparare’ qualcosa o qualcuno. Piuttosto, è un altro l’aspetto che mi colpisce. A più riprese, Siti sembra prendersela con il modo in cui gli autori ‘neoimpegnati’ espongono i loro ragionamenti. Con la loro postura, per usare un termine più elegante. Saviano and co. prendono la parola per non lasciarla mai, esprimendo il loro punto di vista in modi apodittici, incastonando la loro visione del mondo nella forma di massime. D’accordo. Però andrebbe detto che a fare questo oggi sono molti altri autori, ben lontani da quelli su cui Siti si sofferma. Aprendo i libri dello stesso Siti, per esempio, è difficile non imbattersi in affermazioni perentorie sul mondo in cui viviamo, o in riflessioni molto lucide circa le contraddizioni che lo attraversano. Certo, queste prese di posizione vanno sempre contro al luogo comune, inquietano le nostre certezze e offrono una visione tutt’altro che pacificata della realtà. Ma da lettore attento alla forma quale mi sforzo di essere a colpirmi è soprattutto il fatto che il dispositivo formale a cui Siti ricorre è lo stesso di Saviano; che le voci di entrambi sono sempre ben udibili, e le loro visioni del mondo espresse a chiare lettere. Come se le storie che raccontano non potessero fare a meno di incorporare il commento di chi le racconta, i suoi giudizi o la sua morale, buona o cattiva che sia. Ripeto: tutto questo mi colpisce più del fatto che i messaggi di Siti siano più stratificati, complessi e controversi di quelli di Saviano, o che a livello mediatico le parole dell’uno abbiano una risonanza minore di quelle dell’altro. Mi viene da pensare che oggi la letteratura che vuole davvero rischiare qualcosa, che ambisce a restituire, come auspica Siti, la complessità del mondo, sia quella che rinuncia a mettere in scena ‘io’ onnipresenti e autorevoli, o peggio presenzialisti e petulanti.
VS: La mia posizione in merito è che un testo letterario è tanto più godibile e illuminante, sia dal punto di vista cognitivo che emotivo, quanto più sfida e complica la visione del mondo di chi lo legge. Il che può essere raggiunto in molti modi: il pessimismo antropologico di Philip Roth, la disperazione urticante e monocorde di Houellebecq, l’immoralismo disorientante di Siti ci insegnano molte cose sul mondo. Quel che un romanzo deve fare – e se lo fa, già quello ha una portata morale – è allargare il nostro spettro di percezione; farci pensare pensieri che non abbiamo ancora pensato, catapultarci nella testa di qualcuno in modi che non avremmo mai creduto possibili (Littell nelle Benevole, per dirne una, fa questo); farci vivere l’incesto senza essere incestuosi davvero; farci capire cosa vuol dire avere le mani macchiate da un sangue che non si lava; farci provare lo smarrimento di uno che capita in mezzo a Waterloo e non ci capisce assolutamente niente; alterare e modificare le nostre consuete percezioni della realtà (come fa ha saputo fare, per esempio, la grande tradizione modernista). Se un’opera letteraria è capace di fare questo, per me è morale. Nel senso che rispetta quel fondamentale contratto non scritto per cui, quando un autore prende la penna, lo fa perché vuole dire qualcosa sul mondo, e lo vuol dire perché sente che quella cosa – anche inserendosi nella più nobile delle tradizioni – in qualche modo lui è il primo a dirla, e non esisterebbe senza di lui. Bellezza è verità, verità è bellezza… della morale non mi importa poi molto. Se un artista è autentico e onesto nel rappresentare una certa dimensione dell’esistenza, quel gesto artistico per me è morale.
3. Pur non essendo il principale oggetto delle riflessioni di Siti, più interessato a stigmatizzare la funzione terapeutica che oggi viene attribuita alla letteratura (la letteratura come «conforto per gli esseri fragili che siamo diventati di fronte alle crisi», 37), è evidente che la questione della costituzione di un canone permane all’orizzonte del discorso. Mentre ovunque nel mondo si rileggono i classici anche alla luce delle nuove istanze sociali e culturali, Siti fa sua la nozione di “lettore implicito” (Iser), che restituisce l’opera al suo contesto storico, ne giustifica eventuali carenze rispetto alle attese del pubblico contemporaneo e soprattutto consente di concentrarsi sugli aspetti formali, a suo avviso oggi trascurati. Come giudichi la posizione di Siti rispetto a tali questioni? Pensi che ci siano altri modi di affrontare, da un punto di vista specificamente letterario, la questione del canone e della sua “durata”?
OC: Sono d’accordo con Siti quando propone la lettura di un classico chiamando in causa il punto di vista del lettore implicito e riportandolo così al contesto storico di appartenenza evitando inappropriati anacronismi. Quando questo discorso si incrocia al discorso sul canone, tuttavia, diventa un discorso conservatore in difesa di una selezione di opere vista come immutabile nel tempo. Il canone letterario è di per sé un concetto elitario che salva determinate opere tenendone fuori altre in base a criteri arbitrari dettati da una classe di critici letterari con attributi sociali e culturali ben distinti. Sarebbe forse più giusto lavorare su più canoni (il canone della letteratura queer, per esempio, o il canone della letteratura migrante, il canone della letteratura maschile e femminile) o su aree tematiche che a loro volta possono stabilire canoni interni. In questo modo avremmo canoni mobili in continua formazione e in continuo confronto, più aperti alla ricerca e all’introduzione di nuovi punti di vista. È importante senza dubbio lavorare sugli aspetti formali di un’opera, ma quegli aspetti formali non devono essere usati come ragione per pietrificare un canone a rischio di oscurare la ricerca sul presente.
FP: La mia impressione è che per Siti siano i grandi classici della tradizione occidentale a farsi custodi della complessità della letteratura, del suo essere un’esperienza intimamente contraddittoria. Il libro termina con Dante, e prima vengono convocati Tolstoj, Flaubert, Dostoevskij ecc. per mostrare i limiti dei vari D’Avenia, Carofiglio, Vecchioni. Non so se sia sempre produttivo misurare ciò che è dato alle stampe oggi prendendo a riferimento capolavori pubblicati secoli fa. Ma la questione sulla quale credo che varrebbe la pena riflettere è la tenuta, e quindi la ‘spendibilità’, di un canone come quello a cui pensa Siti. Mi limito a buttare giù tre punti, che andrebbero sviluppati meglio. Primo, mi sembra che molti dei capolavori di cui parla Siti vengano letti sempre meno, e che siano sempre meno centrali a una formazione umanistica. Secondo, come nota lo stesso Siti, oggi il canone occidentale è contestato da più parti. Se si sfogliano le antologie di letteratura mondiale utilizzate nelle università statunitensi si resta spiazzati. In nome della pluralità sono esclusi autori da sempre ritenuti centrali, e inclusi altri per lo più sconosciuti. È giusto? Non so: ma che ogni tanto ci venga ricordato che la nostra idea di letteratura è quasi sempre frutto di scelte parziali o inique credo che male non faccia. Terzo, oggi che è tutto frammentario e che siamo perennemente distratti, dove trovare il tempo e le forze per confrontarsi con opere impegnative e lontane da noi, non soltanto in senso temporale? Di fronte a questi problemi, si può rispondere, come implicitamente suggerisce Siti, cercando di opporre resistenza; di educarsi a una lettura profonda dei testi, che prescinda da ogni sorta di scorciatoia. Ma forse si può anche rispondere in modo opposto, prendendo sul serio ciò che dice Baricco (che Siti cita): cioè che oggi l’‘orizzontalità’ fa premio sulla profondità, che i collegamenti trasversali sono più ovvi di quelli lineari, che i media digitali stanno diventando una specie di prolungamento dei nostri corpi. In un orizzonte del genere, è probabile che il corpo a corpo con i classici risulti sempre più difficile; ma ciò non significa che non ci si possa formare comunque un gusto e una sensibilità estetica. Una sensibilità e un gusto diversi, va da sé. Che oggi si legga meno e si guardino più serie tv o si passi più tempo in Rete è un’ovvietà; che tutto ciò possa avere anche dei risvolti positivi nessuno sembra invece crederlo. È probabile che in futuro chi continuerà a studiare letteratura non possa prescindere dal confronto con il canone a cui pensa Siti. Tutti gli altri probabilmente ne sentiranno sempre meno l’esigenza; ma non credo che per questo saranno necessariamente meno capaci di ragionare in modo intelligente su ciò che leggono, guardano o ascoltano. Cfr. lo wishful thinking di cui al punto 1.
VS: La questione del canone è spinosa, e non so quanto sia facile impostarne i termini in così breve spazio. Per quel che mi riguarda, esistono tanti canoni quanti sono gli individui, le comunità interpretative, i gruppi sociali, i continenti, etc. Secondo me la caratteristica fondamentale di un canone è che dovrebbe essere aperto più in entrata che in uscita: è quasi sempre insensato espungere, soprattutto sulla base di qualche malinteso presupposto morale. Perché non dovremmo più leggere Nabokov solo perché c’è chi non capisce il livello di complessità del testo, lo prende per una réclame della pedofilia e da lì monta un caso? Non ci si accorge che da qualche parte il libro è anche una grandissima riflessione sulla violenza, sul desiderio che distrugge sia chi lo prova che chi ne è oggetto, sulla tendenziale reificazione dell’altro che sta alla base di ogni rapporto amoroso, ma in certuni diventa più pervasiva che in altri? Invece di parlare di esclusione dal canone (nella recente serie Netflix The Chair a un certo punto qualcuno si lamenta che sul Pequod non ci sono donne a bordo… ma guarda!), parliamo di inclusione. Ho l’impressione che oggi, in vaste zone del pianeta (Cina, India, Africa), si produca una quantità immensa di letteratura di cui non sappiamo quasi niente. Perché non provare a tradurla? Perché non provare a leggerla? Perché non trovare il modo di capire cosa stanno facendo in altri luoghi, in altri emisferi, e come? Per quanto riguarda l’aspetto formale dei testi, per me resta fondamentale. Un testo o è scritto bene o non lo è. Che ovviamente non vuol dire solo sapere usare bene la lingua, saper impiegare un certo stile o certe figure retoriche invece di altre: vuol dire saper articolare la propria materia, tanto sul piano inventivo che linguistico. Non cedere alla facilità e alla sciatteria. Chi non cede alla facilità e alla sciatteria è degno di grande rispetto: nelle straordinarie cattedrali sintattiche di Proust, così come nella perfetta gestione dei tempi romanzeschi di Stephen King, c’è perfezione, c’è attenzione alla forma; c’è il contrario della facilità e della sciatteria. Questo è bene.
4. Il lettore implicito di Iser, la funzione poetica di Jakobson, il ritorno del rimosso e la critica psicanalitica à la Orlando: Siti stesso definisce «un po’ arrugginiti» (67) gli strumenti d’indagine con cui intende asserire l’importanza della “forma come contenuto” e quindi la possibilità dell’opera di prescindere dagli impulsi eteronomi («Nel pendolo incessante tra autonomia ed eteronomia dell’arte, l’ora presente batte dalla parte dell’eteronomia», 32). Tuttavia la validità e possibile attualità di questi strumenti è rivendicata anche alla luce (e a scapito) delle correnti critiche che l’autore considera più in voga nell’attuale panorama degli studi letterari (biocritica, cognitivismo, darwinismo letterario…). A questi strumenti, infine, affida il compito di sostenere quella che appare come la “proposta critica”, la pars construens del pamphlet, ovvero l’idea della letteratura come «avventura conoscitiva», rilanciata fin dalla quarta di copertina e variamente ribadita nel testo. Trovi che la posizione espressa da Siti sia condivisibile? Quali sono a tuo avviso gli strumenti critici attraverso cui si può valorizzare oggi lo specifico della letteratura (anche in relazione alle richieste di cura, di testimonianza, di verità che vengono avanzate nei confronti dei romanzi)?
OC: Leggendo Contro l’impegno si ha l’impressione che la discussione si polarizzi troppo forzatamente su due blocchi: i moralisti e gli immoralisti, che corrispondono poi a letteratura commerciale e letteratura “effettiva”. Il punto in cui Siti riesce a superare questa settorialità è quando consegna al lettore la sua definizione di letteratura come “avventura conoscitiva”. È una definizione, questa, che prescinde a mio avviso dal contenuto morale o immorale del testo e pone l’attenzione sui modi della narrazione, contravvenendo proprio a quella polarizzazione su cui gran parte della discussione sembrava fondarsi. Si tratta di una definizione che ho amato molto, e forse il cuore più autentico di Contro l’impegno. Un altro punto dell’esposizione di Siti che mi trova molto d’accordo è nella separazione tra giornalismo e letteratura, quando attribuisce al giornalismo la sfera dei fatti e alla letteratura la sfera dell’ambiguità e del possibile. Proprio considerando quella semplificazione subita dalla fiction in ambito commerciale, credo che la questione dell’ambiguità sia fondamentale per distinguere narrazioni di spessore letterario da quelle di puro intrattenimento. La letteratura complessa non dovrebbe poter dare certezze ma sfumature: una cura, ma solo se non è definitiva e totale; una testimonianza, che tuttavia a tratti viene messa in dubbio; delle verità, che però si presentano come parziali.
FP: La parte meno convincente del libro mi sembra proprio quella in cui Siti polemizza con biocritica, cognitivismo darwinismo letterario. Per una ragione, sostanzialmente: e cioè che di queste discipline offre un ritratto semplicistico, a tratti quasi caricaturale. È ovvio che le ricostruzioni accurate e puntuali non vanno cercate in un pamphlet. Ma suggerire che gli studiosi cognitivisti non fanno altro che «chiamare blending la metafora» o «mind reading la dialogicità di Bachtin» è svilire il loro lavoro. È vero, ci sono saggi o interi volumi che girano a vuoto, e in cui non si fa altro che condire in salsa cognitivista concetti arcinoti. Ma quale disciplina è immune da questo vizio? Quanti volumi di critica ‘tradizionale’ offrono interpretazioni sedicenti nuove rimestando nel già detto? Oggi ci sono studi di cognitive poetics che suggeriscono modi nuovi di guardare i testi letterari, e che forniscono al lettore strumenti teorici sofisticati. E garantisco che non si tratta di lavori frutto di ricerche in laboratorio, in cui i lettori sono trattati a mo’ di cavie, con tanto di elettrodi e grafici delle onde cerebrali. Si tratta semmai di studi che provano a mettere fra parentesi le certezze di cui in molti sembrano non poter fare a meno: l’autore e ‘ciò che ha voluto dire’, i solidi ancoraggi storiografici, la centralità dei classici ecc. Non so se questo genere di approccio consenta di valorizzare davvero lo specifico della letteratura. Io stesso lo guardo con molta diffidenza. D’altra parte, immagino che slogan della serie ‘mettere al centro il lettore’ possano suonare naïf, se non proprio populisti. Ma sono altrettanto diffidente verso chi considera con sufficienza qualsiasi nuovo metodo o strumento, e si affida ciecamente a quelli ereditati dalla tradizione. Un’ultima osservazione. Contro l’impegno si chiude sulla rivendicazione di una critica «fatta di competenza tecnica e quindi elitaria», e sull’idea che «allontanare la letteratura dall’elitarismo significa sollevarla dalle sue responsabilità». Lo capisco, e in parte lo condivido. Ma mi piace pensare, forse fin troppo ottimisticamente, che anche un lettore non svezzato a classici e narratologicamente ipercompetente possa offrire letture nuove, o mettere in discussione ciò che altri hanno detto prima di lui.
VS: Secondo me la funzionalità di uno strumento critico non si decide dall’età che ha, ma dalla sua efficacia applicativa. In un mondo come il nostro in cui l’obsolescenza degli oggetti tecnologici è all’ordine del giorno, e strumenti pur raffinatissimi e costosi diventano inservibili nel giro di pochi anni o mesi, bisogna stare attenti a non finire per fare altrettanto con le teorie. Altrimenti anche quel che è nuovo oggi sarà già vecchio e stravecchio domani. È il destino di ogni maldestro, supponente e ciclico tentativo di “rottamazione” (e quanti esempi ne abbiamo davanti agli occhi in questi anni…). Detto questo, Iser, Auerbach, Genette, Jakobson, i formalisti russi, la grandissima stagione della stilistica italiana, la teoria freudiana di Orlando, il marxismo di Luperini non solo funzionano ancora, ma prima di parlare del nuovo bisognerebbe essere sicuri di averli ben attraversati. Personalmente nutro diffidenza per il cognitivismo applicato alla letteratura, e questo semplicemente perché ad oggi non ho ancora letto un articolo di stampo cognitivista che mi fornisca una chiave di lettura nuova, che mi dica qualcosa che non so, che mi dia una prospettiva originale su un testo letterario. Di solito sono sintesi molto dotte, molto impegnative, affascinanti, su come funziona il cervello durante i processi di composizione e ricezione del testo, che però poi – alla prova dei fatti – si rivelano vaghe e poco concludenti dal punto di vista interpretativo e analitico. Sono d’accordo sull’idea di letteratura come avventura conoscitiva; per me, soprattutto, la letteratura deve essere libera: se vuole essere amorale lo sia, se vuole essere morale benissimo, se vuole essere cura perché no, se vuole essere malattia… lo è stata per secoli, e speriamo continui ad esserlo. L’importante è che lo faccia onestamente; dopo di che, ognuno scelga i propri strumenti di analisi (io ho i miei, mi trovo bene con quelli che mi hanno insegnato ad usare, anche se alcuni li ho messi in discussione e abbandonati), e confrontiamoci su come e quanto riusciamo, con quelli che ciascuno possiede, a far parlare i testi e il mondo che rappresentano.
L’illustrazione originale nella copertina dell’articolo è stata realizzata dal nostro redattore Massimo Cotugno.
W. Siti, Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura, Milano, Rizzoli, 2021, 272 pp., € 14.