I faggi sono l’essenza della foresta di latifoglie europea. Rivestono come un mantello le fasce di alta collina e di montagna, anche nel cuore dell’Europa mediterranea. Il faggio è l’essenza dell’Appennino siciliano, la dorsale che, da est a ovest, attraversa la Sicilia come una nervatura fogliare.
Un viaggio tra questi luoghi deve iniziare in autunno, la stagione ideale per percorrere i sentieri, prima che la neve li nasconda per mesi. In autunno, le castagne e le noci ci fanno da guida, come le tracce lasciate nei boschi percorsi dai bambini nelle favole. Mi piace ricordare una delle straordinarie digressioni della Recherche: Proust, a proposito dei parigini, ci dice come attorno ai giorni dei morti, fossero presi da una sorta di febbre delle foglie morte, tanto era affascinante lo spettacolo dei colori autunnali al bois de Boulogne. E anche l’Appennino siciliano scopre scenari autunnali sferzanti, come appunto quelli descritti da Proust, o come quelli scoperti dal cinema (mi piace pensare a film come La congiura degli innocenti di Hitchcock, Un’altra donna di Woody Allen, Sinfonia d’autunno di Bergman).
Il viaggio nell’Appennino siciliano può assomigliare alla tessitura di una trama: si va da sud a nord e viceversa, da nord a sud, si tesse un ordito attraverso i valichi principali che segnano la dorsale.
Il Valico di Portella Mitta
Possiamo partire dalle acque dello Jonio, a ridosso di Fiumefreddo di Sicilia, per tracciare la nostra mappa dell’Appennino, lungo la SS 120 dell’Etna e delle Madonie, la strada che costeggia tutta la dorsale sino al Tirreno. La SS 120 inizia percorrendo l’intero versante nord dell’Etna. Tutto è silenzio tra vigne, cantine e le propaggini dei boschi sotto il vulcano. Poi si iniziano a percorrere i tanti tornanti verso il valico di Portella Mitta, da Randazzo, luogo ricco di testimonianze medievali.
L’ultima volta che l’ho visitata è stata anche l’ultima volta che andammo da quelle parti con mio padre e non lo vidi più così spensierato. Si fece pranzo in una vecchia casa dove avevano ancora una monumentale cucina a legna, maiolicata, che mi ricordò le tante della mia infanzia poi distrutte per più razionali, così si diceva, cucine prefabbricate. Dopo il pranzo, salimmo a Floresta. Prati di felci si alternano, lì, a colli e faggete. Le grandi foreste sono sui crinali, ma alcuni rivoli raggiungono il borgo.
Il valico di Portella Femmina Morta
Scendendo verso il Tirreno si raggiunge Capo d’Orlando. L’autostrada Messina-Palermo ci porta velocemente verso ovest, sino a Sant’Agata di Militello. È una Sicilia appartata ma misteriosa, dove prima Lucio Piccolo e poi Vincenzo Consolo hanno imparato ad ascoltare suoni enigmatici da cui hanno tratto la loro lingua vertiginosa.
Da Sant’Agata, si risale alla ricerca del valico più opulento dell’intero Appennino siciliano, quello di Portella Femmina Morta (1524 metri slm) sotto Monte Soro, un luogo di acque libere, aceri immortali e, soprattutto, sentieri annodati. Ci si può perdere, o ci si può ritrovare.
Quando ho scattato questa foto ho subito pensato che le contraddizioni di una terra tanto complessa qui sembrano sfumare in un sogno. Le difficoltà, il disincanto, la dissipazione delle terre del sud sono, comunque, evidenti pure quassù, nell’incapacità di coltivarli questi sogni, nella negazione che questa bellezza sia per tutti. Siamo stanchi di dover subire lo stigma della terra selvaggia, inesplorata, mitica. Abbiamo bisogno di storia, non di mito, di scoperte, non di nascondimenti. Per fortuna, mentre questi pensieri stavano per sfuggirmi di mano, vidi in una roccia il bianco e il rosso della segnaletica internazionale dei sentieri: ripresi il cammino ed entrai nel fitto del bosco.
Il valico di Portella dell’obolo
Da Portella Femmina Morta si scende sino a Cesarò dove si incrocia nuovamente la SS 120 che ci porta al bivio per Capizzi, poco prima di Nicosia. Nicosia è un luogo incantevole, una piccola città, anche abbastanza prospera. Eppure, a pochi chilometri, troviamo il luogo più oscuro ed enigmatico delle foreste siciliane, nel fitto dei boschi lungo la SP Capizzi-Caronia. Qui i faggi lasciano luogo ai tassi. La tassita di Caronia merita di essere visitata con rispetto: gli alberi di tasso descrivono dei segni, ed è come se narrassero la loro storia con gli incroci e le trame dei rami neri contro l’orizzonte, simili a lettere. In questi boschi, l’uomo ha fatto per millenni il carbonaio e ancora qualcuno lo fa, rendendo la terra più nera del cielo.
Il valico di Sella del Contrasto
L’ultimo valico dei Nebrodi si raggiunge tramite la SS 117 Centrale Sicula che tocca il Mar Tirreno dopo aver attraversato Nicosia e Mistretta. Il valico di Sella del Contrasto si trova a 1120 metri sul livello del mare. Sino a qualche decennio fa, era tra i luoghi più affascinanti dell’intera dorsale. Oggi, oltre alle incombenti pale eoliche, il luogo è funestato da uno degli eterni cantieri stradali siciliani. È il valico della mia memoria, però, il primo che ho visitato ancora bambino e per questo ne scrivo con più dolcezza. C’è, del resto, un altro contrasto che culmina in questa parte di Appennino siciliano: quello geologico e antropologico tra Nebrodi e Madonie, le due principali catene della dorsale. Se i Nebrodi sono caratterizzati da cime dolci e arrotondate, le Madonie sono invece fatte da picchi dolomitici rosati al tramonto.
La cima lambita dal valico è quella del Monte Campanito-Sambughetti. Una mattina, era inverno, vi salii perché volevo visitarne i laghetti ghiacciati. La neve mi superava le ginocchia, non avevo portato le ciaspole. Arrivato sotto la cresta, c’era questo spettacolo di vapori, suoni, vite nascoste. Pensai al verso di Quasimodo: la mia razza ha coltelli che ardono e lune e ferite che bruciano (Le morte chitarre). Bisogna guardare la Sicilia anche da queste forre, oltre che dal mare, e restare, sì, bisogna restare, fermarsi dove si è nati, imparando dagli alberi, perché c’è sempre un motivo per dove si nasce (o mio buon Pavese).
Il valico di Portella Colla
Il più rilevante valico delle Madonie è quello attraversato dalla SP 119 che sale da Polizzi Generosa. È il centro delle Alte Madonie, tra Piano Battaglia e Piano Cervi. E si attraversano anche i borghi della comunità madonita, come boschi di pietra di un’unica radice. C’è un luogo però che deve necessariamente porre il sigillo a questa mappa. Per trovarlo, dobbiamo tornare verso est, lungo la SS 120 e rientrare verso i Monti Erei, ramo secondario a contrafforte degli Appennini: il Monte Altesina, a 1182 metri slm, è la cima al centro dell’isola e si guarda con Enna, la città più centrale di tutte, anch’essa in cima ad un’alta rocca.
Da questi luoghi il mare è praticamente invisibile e tutto intorno è vita di montagna. Una montagna minore, probabilmente, come tutte le espressioni isolane, ma una montagna che ha bisogno di avere una voce. Sciascia pensava spesso a questo dilemma: come si fa a essere siciliani? È compromissorio, è molto triste esserlo. E come si fa a essere siciliani di montagna? È necessario continuare a vivere in questa parte così negata dell’isola? Ricordo le parole del proprietario di un vecchio palmento nella rocca di Enna. Parlava dei figli con orgoglio, a uno aveva lasciato la casa, all’altro l’attività, a un altro un fondo in campagna. Con amarezza soggiunse: “e io mi sono ammazzato la vita”.