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Senza impegno/2: quattro domande intorno al pamphlet di Walter Siti

Come «Balena Bianca» nel corso dei mesi passati abbiamo osservato con attenzione e curiosità l’accoglienza riservata a Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli 2021), l’ultimo pamphlet di Walter Siti, capace, come pochi libri negli ultimi anni, di suscitare reazioni molto contrastanti e di imporsi velocemente come oggetto di animate discussioni. Il fatto che la qualità divisiva del libro, e forse proprio anche grazie a essa, non gli abbia impedito di raggiungere la vetta della sezione saggistica delle Classifiche di qualità a cura della rivista «L’Indiscreto» per il trimestre febbraio-maggio ha mostrato in modo chiaro che le questioni affrontate nei diversi capitoli del pamphlet siano percepite come urgenti dai lettori e che l’autore abbia trovato un modo efficace di articolare le sue posizioni.  

Interrogandoci sulla maniera più sensata di dare spazio al libro sulla nostra rivista, abbiamo pensato che, più che dedicargli una singola recensione o approfondimento, ci sarebbe piaciuto raccogliere nel nostro piccolo l’appello lanciato nelle ultime righe di Contro l’impegno, che si chiude sotto l’auspicio di una discussione sulle tematiche affrontate. Abbiamo quindi deciso di elaborare un breve questionario di quattro domande, abbastanza composite e stratificate, che riprendessero alcuni punti a nostro avviso cruciali nell’economia del libro: il pubblico di Contro l’impegno; il legame tra letteratura e moralità; la questione del canone; la cornice teorica delle riflessioni dell’autore.

In seguito, abbiamo sottoposto il questionario a un gruppo di collaboratrici e collaboratori legati alla rivista – tra i quali anche alcuni redattori –, con l’intenzione di continuare un dibattito che, a partire dal libro di Siti, vorremmo si allargasse a questioni di portata più ampia e proseguisse anche in futuro in forme, tempi e luoghi differenti. Le risposte al questionario saranno pubblicate sulla «Balena Bianca» in una rassegna di cinque puntate nelle prossime settimane. Dalla sua uscita in aprile diverse recensioni intelligenti sono state dedicate al libro: fra le altre, ci fa piacere segnalare quelle di Mario BarenghiJonathan BazziRomano LuperiniCarlo Mazza GalantiGilda Policastro e Chiara Portesine. Rimandiamo a questi scritti, oltre che a un interessante colloquio radiofonico (01:01:51-01:33:20) fra Walter Siti e Loredana Lipperini a “Fahrenheit-Radio3”, per un inquadramento del libro che non abbiamo spazio di effettuare a nostra volta in questa sede.

Questa settimana pubblichiamo le risposte di Eloisa Morra (EM), Marco Malvestio (MM) e Silvia Cucchi (SC), che ringraziamo per la disponibilità a partecipare. Qui invece si possono trovare le risposte della prima uscita della rassegna.


1. Ogni volta che esce un libro di critica letteraria militante, nato per stimolare un dibattito intorno ai fatti letterari e alle loro relazioni con il sistema culturale e con la società si pone il problema del pubblico. A chi si rivolge Contro l’impegno? A quali lettori Walter Siti indirizza le proprie stilettate? Pur nella dichiarata disorganicità del libro, costante è da parte dell’autore il riferimento a un orizzonte che comprende l’intero campo della letteratura; Siti chiama in causa i grandi classici, cita studi accademici, salvo poi riservare i suoi “carotaggi” per lo più a opere di consumo e autori capaci di costruire una propria riconoscibilità mediatica nella cultura mainstream (Saviano, Murgia, Carofiglio, D’Avenia…): una scelta parziale che non sfugge al lettore avveduto, ma che magari confonde chi non è esperto di questioni letterarie. Una scelta che peraltro consente a Siti di rendere trasversale il proprio discorso, di non fare troppe distinzioni. Come valuti l’equilibrio trovato da Siti tra le ambizioni del pamphlet e la sua effettiva articolazione, anche alla luce del suo pubblico potenziale? Può la critica rompere il muro di gomma che la separa dal grande pubblico e offrire un’interpretazione della cultura a uso di tanti?

EM: Siti, è chiaro, si sta rivolgendo a un pubblico di adepti — critici, accademici, professionisti dell’editoria — anziché di neofiti. Più che contro il neoimpegno (o finto impegno, perché abbracciato da una condizione di privilegio mai volta a una messa in discussione delle storture del proprio settore, la cosiddetta industria culturale: il che ne rivela immediatamente la falsa coscienza) credo il pamphlet si scagli contro il midcult e l’editoria pop, ma senza intaccare di fatto lo status quo. Mi pare gli si possa imputare quanto viene rimproverato — mancando il bersaglio — ad Harvey di Emma Cline: prendersela col ‘nemico’ quando è nel punto più basso, troppo semplice.

Concordo (anzi, le ho trovate nel complesso accomodanti) sulle analisi su Saviano, Murgia & co, ma il rischio è che ci si autocongratuli per aver scoperto l’acqua calda: l’operazione di Siti è intelligente e al contempo furba, come certi dialoghi nei suoi romanzi. Ha affilato le unghie su bersagli facili, affidandosi alla complicità del lettore avvertito; si è ben guardato però dal punzecchiare nomi riconosciuti nell’ambiente, ed è proprio questa mancanza di onestà intellettuale ad avermi infastidita. Cosa pensa Siti dei lavori di Veronesi, Ferrante, Albinati o dell’ultimo Calasso? Sarebbero state analisi più interessanti perché problematiche, magari meno passibili di likes e recensioni polarizzate. Altro problema: Siti non solo non colpisce chi ha un effettivo potere nell’ambiente editoriale, ma rischia di legittimare certi libroidi. Quanto alla critica ad uso di tanti ho i miei dubbi: raramente si riesce ad arrivare a persone che operano al di fuori della consueta ‘bolla’. Ci sono (poche) riviste cartacee e (parecchie) testate online dove si possono leggere analisi di valore, ma fatico a trovare analoghi in contesti mainstream. Il neoimpegno ha invaso anche le pagine culturali dei quotidiani nazionali, dove pare di leggere un’eterna ode allo stesso brutto libro.

MM: Siti ha due pubblici di riferimento, che in parte coincidono: gli accademici e una frazione del ceto medio riflessivo, come si diceva una volta. Siti è uno scrittore accademico, sia nel senso che quello era il suo mestiere prima della scrittura che in quello, più tradizionale, di scrittore “ufficiale”: si guarda a Siti come a un grande vecchio delle lettere, come a qualcuno che sa e che dunque è titolato a oracoleggiare sui giornali. Non è un caso che il pamphlet sia intriso di un certo burionismo, malattia endemica dei media italiani… Dunque il pamphlet è pensato per essere letto da chi lavora in università e difende naturalmente le ragioni della letteratura contro il contenutismo dell’impegno (e il discorso di Siti è abbastanza generico perché questa difesa non risulti problematica), ma anche da una certa fascia di lettori colti che si sentono a disagio con la faciloneria televisiva degli obbiettivi polemici dell’autore – Murgia, Saviano, e così via. Quello di Siti non è un libro per il grande pubblico, nessun libro di critica letteraria (che è per sua natura un sapere specialistico) può esserlo; è però un libro per fette di lettori più ampie dei soli addetti ai lavori, che si possono sentire confermate nei loro pregiudizi: la letteratura di oggi è scadente, noi invece siamo una happy few di intenditori a cui piacciono le cose veramente belle.

SC: Penso che Contro l’impegno sia un libro importante e necessario, la cui parzialità e non-esaustività sia intenzionale e faccia parte della forma-pamphlet adottata da Siti. Mi pare che il suo intento sia quello di proporre un discorso duplice, che tenti di arrivare a un pubblico più ampio dei soliti “addetti ai lavori” (molti dei saggi presenti erano già stati pubblicati precedentemente su riviste e giornali), ma che nella sostanza teorica e provocatoria si rivolga a una schiera di critici e scrittori.

Sicuramente la critica deve cercare di “rompere il muro di gomma” che la divide dal grande pubblico per comprendere i molteplici fenomeni culturali che abitano la nostra società. La sua funzione fondamentale è proprio quella di cogliere i mutamenti del presente e le connessioni tra un testo letterario e il mondo. Non penso però che la critica degli ultimi anni abbia rinunciato a questa operazione né tantomeno alla comprensione di fenomeni mainstream e di consumo, inquadrandoli anzi all’interno di un discorso critico coerente (La letteratura circostante di Simonetti ne è un esempio). Il punto semmai è che la letteratura oggi occupa una posizione sociale sempre più marginale (nonostante paradossalmente la qualifica di “scrittore” sia ancora percepita da molti come prestigiosa e di rilievo): la si scrive sempre più e la si legge sempre meno, perché si prediligono altre forme artistiche più rapide e immediate (le serie tv, per esempio). E, quando la si legge, le si richiedono qualità specifiche che si adattino ai tempi veloci della nostra esistenza. Di conseguenza, se già la letteratura è adombrata da altre forme artistiche, a maggior ragione il discorso critico ad essa connesso interessa sempre meno il grande pubblico. Non per questo però bisogna rinunciare a portarlo avanti, anzi: compito della critica – e mi pare che il libro di Siti ci riesca – è anche quello di mostrare come la letteratura sia, nonostante tutto, ancora una presenza parlante all’interno del nostro sistema culturale, capace, grazie alla sua adattabilità, di cogliere fenomeni e mutazioni sociali meglio di altre forme espressive.

2. Uno dei nodi concettuali intorno al quale Siti dà battaglia agli araldi di ciò che egli definisce “neoimpegno” (riconoscendone sempre i meriti laddove presenti) riguarda i rapporti che le opere letterarie intrattengono con i valori morali. Qual è la natura del legame esistente tra la dimensione estetica e la dimensione morale di un’opera letteraria, ad esempio di un romanzo? Tale annosa questione è al cuore di Contro l’impegno, le cui analisi mirano a demistificare e rivelare la bidimensionalità morale, innocua e risarcente, di molti dei libri presi in esame. Siti difende strenuamente il diritto di chi scrive a trattare contenuti e trasmettere valori apertamente immorali, a patto che questi siano per così dire garantiti da una complessità tecnico-stilistica latrice di una più profonda visione del reale, sia essa definita o ambigua. Come valuti le prese di posizione di Siti su questo spinoso ordine di problemi?  Qual è la tua posizione in merito?

EM: Non leggiamo Hard Times per riconoscerci nelle posizioni di Dickens — per fare un esempio di grande autore impegnato, e casi del genere sono purtroppo assenti nel libro — ma per come si intrecciano gli ingranaggi della macchina narrativa, per la caratterizzazione dei personaggi: quello che oggi ci risulta meno interessante è proprio la componente ‘a tesi’. Condivido l’assunto per cui la letteratura non si fa coi buoni sentimenti, ma affrontando l’ambiguità, ovvero aderendo al proprio oggetto (che si tratti di gatti, di porno o di una stanza vuota non cambia molto: Proust ci ha insegnato che si può scrivere di qualsiasi cosa…). Il problema sta tutto nello sguardo promanato dallo stile, che, scrive giustamente Siti, “non si preoccupa dei likes”. Eppure al vituperato neoimpegno mi pare si affianchi un’estetica del cattivismo da parte di autori ormai diventati ‘di culto’, ergo non più passibili di discussione critica, almeno in Italia. Diffido dei romanzi zuccherini quanto di chi si autodefinisce costantemente in lotta coi propri demoni, insistendo su quel paio di nuclei narrativi ormai non più attivi, cioè traumatici, e in mancanza di coraggio di farsi attraversare da istanze diverse si irrigidisce in posture egoiche. È purtroppo la direzione intrapresa negli ultimi anni da diversi autori, tra cui Siti stesso (mi riferisco ai libri pubblicati in anni recenti). E a ben vedere l’‘eccentrico snob’ o lo ‘scrittore sedotto dal male’ non sono che etichette utili a ritagliarsi una fetta di pubblico nel mercato editoriale italiano e consenso accademico (che infatti non è mai mancato). Negli ultimi anni ho letto con ammirazione le opere in versi e in prosa di Patrizia Cavalli e Antonella Anedda: affrontano temi complessi, mettendo a sistema il personale con un discorso di ricchissime implicazioni  — riflessioni sulla malattia, il desiderio, il nostro rapporto con le tragedie collettive, il mutamento climatico, la pandemia —, ma con un’economia di sguardo in grado di evitare facili cinismi e al contempo tenere alta la tensione stilistica.

MM: Non sono certo che il (neo)impegno riguardi il rapporto della letteratura coi valori morali: riguarda semmai l’idea che la letteratura possa o debba agire direttamente sul mondo a partire da una precisa matrice, prima ancora che ideologica, partitica. L’impegno di Saviano non è interrogare il nostro senso morale, ma andare in televisione a dire che Maroni è un mafioso. In Italia sono sempre state favorite opere letterarie che hanno come primo merito quello di parlare d’altro, o il cui impegno è diventato un utile alibi per il loro escapismo: la crime fiction ha cominciato a piacerci quando ha iniziato a parlare di mafia o dei misteri d’Italia, la fantascienza quando ha iniziato a parlare di cambiamento climatico (queste sono forme di impegno variamente definito come postmoderno, post-egemonico o a frammenti). Allo stesso tempo, non può valere nemmeno il contrario: non basta scrivere libri immoralistici per fare letteratura di livello. Tra lo scrittore che siede alla scrivania, scrocchia le dita e si mette a buttare giù un romanzo su un professore delle serali che raccoglie le storie della sua classe di studenti migranti, gongolando con soddisfazione per la rilevanza che questo racconto ha per il presente, e quello che invece scrive per il gusto di provocare il lettore, non c’è troppa differenza. Circa la “complessità tecnico-stilistica latrice di una più profonda visione del reale”, anche questa è facilmente contraffabile: ci sono esempi innumerevoli di opere ponderose e complicatissime che restano poi lettera morta (Wilde scrive da qualche parte: qualsiasi imbecille è in grado di scrivere un romanzo in tre volumi). Opere minute e apparentemente poco ambiziose come Crooked House o The ABC Murders di Agatha Christie hanno molto di più da dire sugli abissi dell’animo umano della mania massimalista, che da sola non è garanzia di nulla. Il fatto che gli editori preferiscano restare al riparo e pubblicare prevalentemente libri con la sicura non penso significhi che la complessità della letteratura sia in pericolo – al massimo che sono cambiate le tipologie dei lettori, ma nemmeno tanto. Il gioco di Siti in fondo è capzioso, perché confronta la mutevole magmaticità del presente con il panorama cristallizzato del passato, dunque il paragone sarà sempre tra un presente caotico e degradato e un passato mitico dove regnava invece la qualità, ma questo passato non è mai esistito. Se quella di Siti fosse un’opera di critica letteraria e non un pamphlet, si porrebbe il problema di andare a vedere non solo cosa sta in classifica adesso, ma anche di cosa ci stava cinquanta o cento anni fa. Gioverebbe anche interrogarsi su come vengono pubblicati e venduti i libri italiani: come si fa a parlare della qualità medio-bassa senza menzionare il sistema dei resi?

SC: Penso che la letteratura sia un atto conoscitivo fondato sulla complessità e sull’ambiguità, che mette il lettore di fronte a situazioni e interrogativi che stanno al di là della morale e dell’etica. La letteratura deve parlare di tutto, anche di questioni scomode e di argomenti tabù, perché ha come oggetto l’essere umano e le contraddizioni che lo abitano. Quando si presenta come strumento di cura, conforto e “redenzione”, la letteratura non fa altro che assecondare i meccanismi di potere della società, depotenziando il potenziale contestatario che le è proprio. Sono d’accordo con Siti quando afferma che la stratificazione di significati che sta alla base di un testo letterario è determinata non solo dal contenuto, ma anche e soprattutto dalla forma. Una forma che non è ornamento, ma veicolo di senso. Uno degli elementi centrali del saggio a mio avviso riguarda non tanto la riflessione sull’impegno dello scrittore, quanto più quella sulla funzione e sull’impegno del lettore. La mia impressione è che oggi il lettore medio sia sempre meno disposto ad attuare quello sforzo di lettura richiesto dalla letteratura, così come è sempre meno disposto a confrontarsi con le ambiguità che essa può contenere. Quando parlo di sforzo intendo sia uno sforzo cognitivo, sia uno sforzo di identificazione con gli interrogativi o le questioni sollevate dal testo. Mi sembra che tutti gli autori del neoimpegno presi in esame da Siti, conformandosi alle attese del lettore, mettano in atto una semplificazione vistosa sia nella forma che nel contenuto, presentando al pubblico un prodotto facilmente fruibile e in linea con le dinamiche di consumo.

3. Pur non essendo il principale oggetto delle riflessioni di Siti, più interessato a stigmatizzare la funzione terapeutica che oggi viene attribuita alla letteratura (la letteratura come «conforto per gli esseri fragili che siamo diventati di fronte alle crisi», 37), è evidente che la questione della costituzione di un canone permane all’orizzonte del discorso. Mentre ovunque nel mondo si rileggono i classici anche alla luce delle nuove istanze sociali e culturali, Siti fa sua la nozione di “lettore implicito” (Iser), che restituisce l’opera al suo contesto storico, ne giustifica eventuali carenze rispetto alle attese del pubblico contemporaneo e soprattutto consente di concentrarsi sugli aspetti formali, a suo avviso oggi trascurati. Come giudichi la posizione di Siti rispetto a tali questioni? Pensi che ci siano altri modi di affrontare, da un punto di vista specificamente letterario, la questione del canone e della sua “durata”?

EM: In ambito nordamericano si teme di leggere per paura di urtare la sensibilità d’un lettore ipotetico (a questo proposito rimando a Lynn Freed). È una sconfitta per la critica letteraria: un testo va analizzato, non silenziato. Trovandomi in un contesto dove la letteratura italiana non è parte dei primi anni di formazione degli studenti ritengo doppia la necessità di ricondurre gli autori alle trame di scambi intellettuali di cui erano parte, per non lasciar spazio a interpretazioni nate da un’ignoranza di dati di base. Condivido la necessità di tornare a concentrarsi sugli aspetti formali, sia per la prosa sia per la poesia, sempre più marginalizzata nei programmi. Difficilmente definiremmo musicista chi non sappia leggere uno spartito, dunque perché non discutere di metrica? Credo si debba tornare a ‘leggere lentamente’, ragionando su come pensiero e invenzione si traducano in forma. Ciò non implica che non si possa integrare un approccio storico-stilistico a uno che si occupi di storia culturale, ma sempre a partire da una concreta attenzione ai testi (diversamente Wide Sargasso Sea e Le Consentement starebbero sullo stesso piano, poiché danno voce alle vittime: invece il primo è un grande romanzo, il secondo un memoir rilevante nell’ottica del discorso collettivo su temi trascurati, ma che letterariamente parlando ha i suoi limiti). Credo sia più proficuo far acquisire la capacità di interpretare un verso (costruire una bibliografia, confutare la tesi d’una fonte secondaria) che non leggere per soddisfare esigenze altre. La letteratura ha un suo linguaggio specifico, quello della forma: non può essere messa a servizio d’un ideologia qual che sia. Quanto al canone, dissento proprio in virtù d’una lettura formalistica: alcune voci sono emerse nonostante l’opposizione dell’ambiente, non certo per quote rosa mai esistite (basti leggere le recensioni incluse in L’anno della Storia di Borghesi). Credo sia possibile dimostrare su basi stilistiche quanto nomi assenti dalle antologie (Ortese, Campo) siano più rilevanti di altri in virtù della complessità del loro sguardo, non per via del genere. Ed è evidente come penne in bilico tra più lingue stiano divenendo decisive nell’illuminare aspetti della realtà non ancora raccontati.

MM: Parliamo spesso di canone senza chiederci effettivamente che cos’è e a che cosa serve. Il canone non è un’idea platonica, una collezione di busti dei Grandi Scrittori conservata nell’empireo, ma è uno strumento. Una volta c’era l’idea che il canone servisse a formare la coscienza di un popolo (nella scuola italiana è ancora così: la storia della letteratura è la storia della lingua). Ma se cambiano i popoli, non è forse giusto che cambino i canoni? Queste sono preoccupazioni che vengono non dall’Italia, ma da paesi come gli Stati Uniti, il Canada o l’Inghilterra, in cui negli ultimi decenni hanno acquisito spazio sempre maggiore minoranze che prima non avevano alcuna voce. Perché in paesi intrinsecamente multiculturali e multipolari il canone letterario deve rimanere intoccabile? E perché dovrebbe rimanerlo se cambia la cultura, e se vengono meno le separazioni tra alto e basso?

Siti si preoccupa giustamente degli eccessi giacobini dell’accademia americana, che smette di insegnare Ovidio perché parla di stupro o che confonde frettolosamente la vita di un autore con la sua opera letteraria; ma la reazione dell’accademia italiana (peraltro davanti a pericoli inesistenti nel nostro paese) è spesso parossistica. È difficile prendere sul serio le lamentele degli accademici italiani, che lavorano in strutture ben diverse e con un diverso tipo di accountability rispetto alle loro controparti americane, circa i rischi di mischiare le carte, quando da noi nessuno mischia mai niente.

SC: Si possono considerare molti testi della tradizione letteraria occidentale misogini, omofobi e razzisti, ma mi sembra più interessante capire e spiegare perché queste stesse opere ancora oggi ci parlano e in che modo lo fanno, con quali strumenti. Penso che uno degli obbiettivi che la critica letteraria (insieme all’insegnamento) debba porsi sia un’azione pedagogica e di trasmissione di conoscenze, affinché le nuove generazioni imparino la complessità della realtà attraverso la complessità di un testo poetico, di un romanzo o un testo teatrale. Benché possa sembrare contradditorio associare un intento pedagogico a un’idea immorale della letteratura, questa mi sembra una via percorribile per non renderla un oggetto desueto o assimilabile ad altre forme di comunicazione. Per quanto riguarda la questione del canone, credo che, nonostante questa tendenza alla “scrittura del Bene”, negli anni a venire si continueranno ad accogliere e a leggere opere politicamente scorrette o immorali (tra cui, come credo, quelle dello stesso Siti), a cui si aggiungeranno testi provenienti da minoranze per tanto tempo escluse, purché veicolino complessità e ambiguità. Bisognerà vedere poi se, tra cinquanta o cento anni, i testi che oggi consideriamo conformi al nostro sistema di valori non verranno tacciati degli stessi difetti che noi vediamo in quelli dei secoli passati.

4. Il lettore implicito di Iser, la funzione poetica di Jakobson, il ritorno del rimosso e la critica psicanalitica à la Orlando: Siti stesso definisce «un po’ arrugginiti» (67) gli strumenti d’indagine con cui intende asserire l’importanza della “forma come contenuto” e quindi la possibilità dell’opera di prescindere dagli impulsi eteronomi («Nel pendolo incessante tra autonomia ed eteronomia dell’arte, l’ora presente batte dalla parte dell’eteronomia», 32). Tuttavia la validità e possibile attualità di questi strumenti è rivendicata anche alla luce (e a scapito) delle correnti critiche che l’autore considera più in voga nell’attuale panorama degli studi letterari (biocritica, cognitivismo, darwinismo letterario…). A questi strumenti, infine, affida il compito di sostenere quella che appare come la “proposta critica”, la pars construens del pamphlet, ovvero l’idea della letteratura come «avventura conoscitiva», rilanciata fin dalla quarta di copertina e variamente ribadita nel testo. Trovi che la posizione espressa da Siti sia condivisibile? Quali sono a tuo avviso gli strumenti critici attraverso cui si può valorizzare oggi lo specifico della letteratura (anche in relazione alle richieste di cura, di testimonianza, di verità che vengono avanzate nei confronti dei romanzi)?

EM: Mi trovo d’accordo nel criticare letture poco percettive, che ‘usano’ i testi a supporto di esigenze ideologiche (o per inserirli in una tassonomia di genere, senza fornire alcun giudizio di valore: quanti libri sull’ipercontemporaneo includono autori di qualità diversissime senza preoccuparsi di fare distinzioni?). Il miglior servizio alla letteratura intesa come ‘avventura conoscitiva’ sta nel tenere sempre un occhio puntato sul testo. Essendomi formata a Pisa il mio approccio è teso a valorizzarne gli aspetti formali ma pure la storia della ricezione, letteraria e figurativa: non credo che analizzare come lettori di secoli successivi abbiano letto un determinato romanzo (o come esso sia stato riposizionato nel contesto editoriale) ne infici il valore o la centralità. Riguardo alla perplessità verso certi metodi, mi pare pretestuosa se letta nel contesto italiano, dove darwinismo e cognitive poetics non vanno certo per la maggiore. Nel leggere ho poi notato un’attitudine iconofobica (nel saggio su Saviano si parla del rapporto testo/immagine come se la fotografia non fosse un linguaggio con una grammatica interna, oltre a ignorare la tradizione degli iconotesti), spia della chiusura che ha reso l’italianistica sempre più insulare: non rendersi conto di come certi testi siano stati concepiti anche ‘per gli occhi’ non mi pare si coniughi con l’esaltazione dell’‘esperienza conoscitiva’. Questa mancanza di scambi, favorita dalla rigidità dei settori disciplinari, è visibile anche all’interno degli studi letterari (basti pensare alla distanza che separa italianistica, romanistica, storia della lingua). Cruciale comunque è che ogni lettura avvenga against the grain, cercando di cogliere le singolarità dei testi senza xerografare i dogmi autoriali, e questo soprattutto per il contemporaneo: leggere Celati attraverso Celati, tanto per fare un esempio, può rivelarsi esercizio volto a confermare il già noto; far reagire i suoi testi con autori neoavanguardisti potrebbe invece dirci qualcosa che non sappiamo sulla lingua dei suoi primi romanzi.

MM: È bizzarro che Siti trovi in voga forme di critica che danno valore all’eteronomia dell’arte; io ho l’impressione opposta. Mi sembra che la critica italiana produca ancora principalmente commenti, edizioni, epistolari, studi di stilistica e metrica e guide alla letteratura del presente, mentre sono molto poco rappresentati i famigerati cultural studies. Io mi occupo di environmental humanities: quando ho spiegato a un collega cosa studio questi, a un certo punto, ha tirato un sospiro di sollievo e mi ha detto, “ah, ma allora in fondo è critica tematica!”. Difficile non capire, del resto, l’ansia di squalificare quello con cui si ha poca familiarità. In generale, però, quella di Siti mi sembra una posizione poco condivisibile, perché premette che vi sia un modo giusto di occuparsi di letteratura. Al contrario, ci sono molti modi di farlo, ciascuno in grado di far dire al testo cose differenti, e la ricchezza del dibattito critico viene dall’incontro e dallo scontro tra posizioni diverse.

SC: Mi sembra che il discorso di Siti sia in linea, oltre che con la sua attività romanzesca, anche con la sua precedente attività critica. Già negli anni Settanta con Il realismo dell’avanguardia, infatti, poneva al centro della sua riflessione la questione dell’autonomia e dell’eteronomia dell’arte, definendo realista un testo letterario che privilegia il momento dell’eteronomia su quello dell’autonomia, senza tuttavia che l’uno escluda l’altro. Da anni Siti porta avanti un discorso teorico coerente, servendosi degli strumenti critici con i quali si è formato e che a mio avviso non hanno esaurito la loro efficacia esegetica. Penso che, sempre nel tentativo di sfondare quel “muro di gomma” tra critica e pubblico, il momento dell’eteronomia non vada mai escluso dall’analisi, ma anzi sia necessario, senza che il testo e i suoi significati intrinsechi vengano snaturati. Per quanto riguarda le nuove categorie critiche diffusesi in questi ultimi anni: personalmente fatico a identificarmi in un filone critico specifico e mi sento un po’ a cavallo tra due mondi. Mi sono formata a Milano sui libri di stilistica e narratologia, che tutt’ora ritengo strumenti fondamentali per l’analisi di un testo, ma negli ultimi anni mi sono anche confrontata con nuovi filoni critici (in particolare i Cultural Studies) interessanti e utili per comprendere il presente e inserire il testo letterario all’interno di un sistema di rapporti più ampio. Penso siano degli strumenti efficaci, che forniscono a chi fa critica chiavi di lettura e piste esegetiche nuove da esplorare. Resto però dell’idea che di fronte a un’opera letteraria l’analisi testuale sia il primo punto da cui partire per formulare qualsiasi discorso critico sull’extratesto.


Walter SitiContro l’impegnoRiflessioni sul Bene in letteratura, Milano, Rizzoli, 2021, 272 pp., € 14.