«Se voi, nati in questi tardi tempi» vorrete incamminarvi dentro le stagioni,
scopriremo i prossimi sentieri e le nuove deviazioni.
La notte ci inseguiva col suo buio proteiforme
Per un reale complesso, disarticolato e in progressivo disfacimento serve una scrittura altrettanto stratificata, multiforme, sfaccettata, prismatica come questa del nuovo libro di Gianluca D’Andrea Nella spirale (Stagioni di una catastrofe), Industria & Letteratura 2021, postfazione di Fabio Pusterla – che non teme le commistioni, gli invischiamenti, le metamorfosi, il sommarsi dell’agone linguistico a quello dominante le scene del mondo in cui sopra-viviamo.
Ho conosciuto per la prima volta Gianluca proprio nell’ottobre di dieci anni fa, giusto nei giorni precedenti la dipartita di un grande maestro come Zanzotto, che per il nostro ha rappresentato un continuo riferimento cui aggrapparsi nel consolidare uno stile personale, peraltro più sulla scorta pluri-poietica del polimorfismo di Sull’altopiano. Racconti e prose (1942-1954) o di Conglomerati. In questo nuovo libro il modello si rende ancor più manifesto, ma era felicemente già esibito in Forme del tempo (letture 2016-2018).
Più di un decennio fa la poesia di Gianluca si orientava già verso un trobar clus quale sostenuta e arcigna tempra stilistica, compensando la dichiarata mise en abîme di un sistema strutturato di contenuti con le possenti impalcature linguistiche, costruite per neologismi e solecismi, ma soprattutto per via di un’elasticità di varianze distorte e dilatate alle estreme possibilità consentite, alla maniera appunto di Zanzotto. Adesso diviene ancor più indulgente da un lato verso la memoria degli ‘ecosistemi’ natii (la sua, la nostra Sicilia è descritta come «terra di filari sparuti e boschi rigogliosi») attraverso meccanismi sinestetici corroborati da un linguaggio lirico di pronunciata ricercatezza, dall’altro a un dettato versificatorio tendente ad indagare in maniera certosina il dettaglio sfuggente, il particolare trascurato, anche con l’ausilio dell’accensione metaforica. In ragione di tale sforzo la lingua risulta meno orfica e più rarefatta, caratterizzata da un ordito non distante dalle matrici ermetiche di primo Novecento, dunque – come queste ultime – scaturente dalla crisi e, pertanto, in essa immersa.
Siamo di fronte – si diceva – ad un libro multi-prospettico e poli-centrico, un libro non soltanto di poesie, ma di vera e propria poetica filosofica che crea gemmazioni, polloni inusitati tra citazioni manifeste dagli autori amati e funzionali al contesto di scrittura – da Celan a Nancy, da Nietzsche a Jullien, da Thoreau a Bashō, ai maestri siciliani Ripellino, Consolo, D’Arrigo, Ballo – e prestiti dal linguaggio informatico/social o per via della presenza ‘respirante’ del dialetto siciliano, più precisamente messinese. Il tentativo – a mio avviso riuscito – è di indurre il lettore a sguardi da angolature molteplici, che costringano a vincere la comodità (leggasi timore) di una visione piatta, monodimensionale, in una parola rinunciataria.
Queste feconde ibridazioni giungono a divenire ‘corporale metaletteratura’ e fondersi direttamente con l’essere vitale e ‘critico’ che passo passo li genera; assistiamo così a vere e proprie ‘riflessioni camminate’ – di nietzschiana memoria («Tutti i più grandi pensieri sono concepiti mentre si cammina»), scritte in una prosa non saggistica ma ‘saggia’ rispetto ai tempi attuali, che lentamente s’apre a farsi poesia. Scrive non a caso l’autore: «Non credo che l’opera d’arte abbia altra coscienza se non quella del suo cammino», e ancora: «c’è bisogno di un’anima bambina, un’anima che si riconosca figlia del movimento». Gianluca, infatti, non disdegna all’occorrenza anche l’habitus lirico che, come un velario, si schiude sulla scenografia isolana a ripercorrere tempi più felici ma illusivi. Una soluzione adottata più marcatamente nei testi 11, 12, 13, 14, riferibili all’infanzia e adolescenza trascorse tra lo Stretto e le prime alture del Peloro – non a caso inclusi nella sezione Estate:
Eppure quella luce selvaggia era vera, nonostante incombesse la fine, eravamo fuori, sciolti nel paesaggio, impastati nella terra ascendente, in quelle radure che promettevano pascoli vaganti, ritrovamenti alieni, un mondo vecchio che si attorcigliava sotto i nostri passi. Pochi presagi, me scomparso nella terra […]
Ai giorni nostri, in cui si parla sempre più spesso – e talvolta a sproposito – di ecologia, declinata addirittura in riduttive e claustrofobiche categorie quali l’ecopoetry, la scrittura di Gianluca si pone ad un livello ulteriore di consapevolezza, rafforzata se possibile proprio dalla degenerazione pandemica: nell’istante in cui l’essere umano si trova spalle al muro – come direbbe un altro nume tutelare quale Bartolo Cattafi – si scoprono capacità insospettate, accentuate per esempio dall’acuirsi dei sensi in un contesto di improvvisa paura, che portano ad un diverso gradiente di chiarificazione tipico di quando si riesce a guardare l’abisso, la spirale in questo caso, con gli occhi di chi s’avverte senza scampo. Se infatti il “transito” (il precedente libro si intitolava proprio Transito all’ombra) presupponeva qualcosa di passeggero, aleatorio, sporadico, nascosto, qui tutto si compie nel tentativo estremo di illuminare l’unico cammino ammissibile, ovvero quello verso l’abisso (e vien subito da pensare alle discese della Commedia dantesca o alle ‘stagioni infernali’ rimbaudiane, non a caso ancora una volta due poemi narrativi): non ci sono dunque catarsi o catabasi possibili, ma solamente un viaggio esausto regolato da uno sguardo che punta dritto in direzione della sopravvivenza. Le energie (qui principalmente intellettive) si enfatizzano proprio in una situazione che pare, come questa, divenire strutturale, offrendo alla particolare morfologia ibrida di questa scrittura iper-potenzialità che la conducono a esiti davvero ‘brillanti’:
Scandivo i cerchi concentrici della scomparsa mentre mi abbracciava l’atmosfera mutevole del profondo.
Odore di cadavere e pino marittimo, merda di cane e appropriazione. Un senso di abbandono nella vita pulsante. Bastava attraversare un sentiero collaterale, un bivio imprevisto, per entrare nel mistero.
[…] I primi passi vivono nell’estinzione, la scoperta ci bloccò fino a farci indietreggiare, era tutto finito, oltre, era già un ritorno tra ciuffi sparuti di muschio riarso e bulbi acquosi.
Scriveva acutamente qualche tempo fa Antonio Devicienti circa la poesia di Gianluca: «Percorrere la Sicilia e l’Italia, la cronaca, la storia, attraversare con la poesia le problematiche del lavoro, dell’abitare la città, coagulare nella lingua e nella scrittura in versi anche il supposto impoetico quotidiano significa porsi la questione dello scrivere in anni di caoticissimo carosello mediatico, di sfuggenti e insidiosi e insicuri strumenti d’analisi (sia essa politica, sociologica, psicologica, culturale o antropologica)».
Ecco le confraternite biancoitaliche a ciurme diradare e recludersi, a guardare aliene dalle torri schermate gli imbavagliati, le torme intorbidate in nuove miserie ammucchiate, scarti e deiezioni di immisurabili consumazioni.
Ecco l’occhio del ciclone, la calma nella distruzione per osservare l’impatto del male, i luoghi della sglaciazione. Quando un tempo borea pesantemente armava i candidi ghiacci prima che squarci rigassero la foresta e la terra arata fosse spogliata di ogni biosistema.
Ecco il deserto freddo di bellezza spietata, annunciare un decreto infrenabile nei versi estremi del nibbio. L’ultima enfasi di un suono che sfuma «sulle rive del Nulla» [cit. da Lo splendido violino verde di A.M. Ripellino, ndr], sulla decadenza di città ridotte a spettri, smangiate da paludi e brughiere.
Crescono le acque sotto i tuoni d’autunno, sotto un clima violento e l’accensione improvvisa che rovina i colori, le forze nuove di nuovi dei fatali.
E, in effetti, quando anche gli strumenti che supponiamo ‘logici’, misurativi, analitici scemano la loro efficacia e consistenza (lo si è visto con maggiore evidenza nel caos di quest’ultimo anno e mezzo), si rende necessario che subentri persino il processo scrittorio a cercare di far luce, ri-flettere, porre dubbi, rimestare dentro l’accadimento critico, l’assedio – anche del sopradetto carosello mediatico – impastando le mani all’interno di rizomatici e talora schizoidi realia.
La colpa che avremmo espiato germogliava dalla nostra capacità di sentire il mondo, le stagioni, di non sopportare la grandezza di essere un sistema, di esserne difetto e motore, semplicemente e sempre la sua rovina incipiente.
L’articolato complesso de Nella spirale si traduce, alla fine dei conti, in un ennesimo transito all’ombra, ancora «in cammino» negli spazi odierni della crisi, stavolta totalmente immersi dentro il ‘mostruoso’ libro della natura, patendo «subissi di sofferenza», pur di ristabilire un contatto.
Il tentativo ultimo di questa scrittura così proteiforme è quello di rallentare o eludere un tempo non tiranno – poiché senza cognizione – ma più semplicemente scorrente con montaliana indifferenza verso una definitiva scomparsa (del genere umano? «Noi camminavamo barcollando sull’orlo dell’estinzione, come sempre», e ancora: «ci incamminammo ancora assediati dalle ombre»), se l’autore scrive, con un altro formidabile ‘innesto’ del dialetto:
La specie assente assiderata
che manca d’anima e d’amuri.
Senza caluri
‘namoranza disïosa è pidduta.