In Taci, anzi parla, il diario che Carla Lonzi ha tenuto fra 1972 e 1977 e che ripercorre alcune delle principali tappe della sua esperienza in Rivolta femminile, l’autrice inserisce una breve frase che interroga chiunque si affacci agli studi sull’autorialità femminile nel Novecento, anche considerando i rapporti fecondi che alcune autrici stabiliscono con il movimento femminista. Dichiara infatti Lonzi:

Mi ha fatto comprare un libro, di Sylvia Plath, una poetessa suicida, La campana di vetro. L’ho appena scorso e ho pensato che non sarebbe morta se, invece di fare la scrittrice, avesse semplicemente scritto di sé per liberarsi (p. 187).

Scrivere di sé “per liberarsi”, giungere a identificare la scrittura come un momento di autocoscienza e auto-affermazione sono in realtà due delle direttrici fondamentali della scrittura di Plath e Sexton e delle loro rispettive poetiche, che pure giungono a esiti diversi – e talora opposti – fra loro.

Escludendo la prova narrativa di Plath, The Bell Jar, ridimensionando l’interpretazione deformante proposta da Lonzi, le due poete sembrano invero annunciare ciò che si produrrà poi negli anni Settanta, quando l’autocoscienza entrerà nella scrittura, dando ancora più spazio, ad esempio, al racconto di esperienze omoaffettive, delle mestruazioni (si veda la celebre “Menstruation at forty”) o di maternità non normative o conflittuali. In Anne Sexton ciò appare ancora più nitidamente; e nondimeno diviene più problematico, stratificato, espressione di una poetica per sua natura sempre soggetta al dispendio e al mutamento.

Il primo gesto da compiere per avvicinarsi alla poesia di Sexton sembra allora essere la dismissione sistematica di tutte le categorie fossili o fossilizzate che a questa poeta sono state attribuite dalla critica.

Inizio dalle parole di Joanna Russ, che in How to suppress women’s writing si riferisce proprio a Sexton, come prototipo – da decostruire, aggiungiamo – di una persona, in questo caso la Crazy Lady, “moderna versione della Zitella Infelice” (p. 69) cucitale addosso dai suoi contemporanei.

Altro elemento da tenere a mente è il necessario offuscamento della definizione di confessional: stretta perché non permette di contenere l’immensità, umana e poetica, di Sexton; larghissima perché, oggi, sarebbe riferibile a un’ampia schiera di poeti e poete, molto più estesa dell’originario manipolo – oltre a Plath e Sexton, ovviamente, Lowell e Berryman. E poi, ancora: l’amica della Plath (e su questa obliqua, complicata sorellanza molto già si è scritto), la “femminista”, la paladina della libertà sessuale; oppure, più banalmente la suicida. Perché è molto difficile non leggere Sexton alla luce del suo gesto definitivo, preparato anche nei testi (ricordiamo gli affilatissimi versi che chiudono la sua poesia “Wanting to die”: leaving the page of the book carelessly open | something unsaid, the phone off the hook | and the love, whatever it was, an infection) e poi oggetto di romanticizzazioni e frequenti esaltazioni.

Poeta, suicida: lo ricorda anche Adrienne Rich in un suo breve saggio contenuto nella raccolta On Lies, Secrets and Silence e scritto proprio in occasione della morte di Sexton, avvenuta nel 1974. Ne ho tradotto un estratto:

Anne Sexton era una poeta e una suicida. Non era una femminista, non in un senso cosciente o autodefinito, ma ha fatto alcune cose che anticipavano la nascita del movimento femminista. Ha scritto poesie che alludono all’aborto, alla masturbazione, alla menopausa, e all’amore disperato di una madre impotente verso le sue figlie, molto prima che queste tematiche venissero accettate da una coscienza femminile collettiva, e scrivendo e pubblicando sotto il giudizio di un apparato letterario maschile (p. 122-123)

Non stupisce che l’analisi di Rich vada in questa direzione; del resto, in Diving into the wreck, suo libro uscito appena l’anno precedente, la presenza opaca di Sexton è un elemento che caratterizza alcuni testi – si noti, in particolare, la sezione “Fenomenologia della rabbia” (pp. 102-116 dell’edizione italiana curata da Maria Luisa Vezzali).

Il dispendio e il mutamento, si diceva: tratti, insieme all’ironia, della poetica di Sexton, ma pure della traduzione condotta da Rosaria Lo Russo per La Nave di Teseo, che ha scelto di pubblicare integralmente The Book of Folly, opera del 1972. Scrive Sexton, in una lettera “programmatica” del 1970 indirizzata a Claire S. Degener: “Vorrei far un libro di poesie molto surreali e inconsapevoli, chiamato The Book of Folly. Dopodiché vorrei fare un libro molto Sexton (…) chiamato The Death Notebooks”. Rosaria Lo Russo si è già misurata con la traduzione di quest’autrice (due volumi pubblicati presso Le Lettere, Poesie d’amore e Poesie su Dio), ma questo “misurarsi” è piuttosto un disegnare un corpo a corpo con il testo e pure una possibilità di dialogo nel segno della sorellanza (Io e Anne, confessional poems lo mostra) e dell’esperienza performativa. Come scrive la traduttrice nel saggio “Sexton/Dante. Queste voci vo comparando” in Figlia di solo padre:

Anne Sexton fu poeta-performer, non tanto o soltanto perché si faceva accompagnare nelle sue letture da un gruppo di musicisti rock, quanto perché concepiva la pratica poetica, il suo stile, come retorica dell’actio, unione inscindibile di gesto (di incarnazione del testo) e dizione, phonè, dove l’io lirico non è un soggetto ma una sua maschera, un personaggio che per rappresentarsi prende la parola, un io prosopopeico insomma (…). (p. 168)

Rosaria Lo Russo è stata attiva negli ultimi anni in numerosi progetti performativi che hanno riguardato Sexton, Patrizia Vicinelli, Teresa del Bambin Gesù, fra gli altri; anche la sua produzione poetica si è sempre più spinta sul terreno del performativo (da Comedia fino all’ultimo libro, Anatema, uscito nel 2021). Questo particolare rapporto con la parola poetica genera un’intersezione produttiva e vivificante con il libro di Sexton, non una traduzione tout court, ma un incontro fra due soggettività autoriali. È facile coglierne le risultanze:

E i piedi – oddìo al mercato i piedi –

I piedi loro, scarafaggi

verso un angolo sgusciati,

balzaron poi danzando baldanzosi.

La gente esclamò: di certo

c’è un congegno! Se no…

(And their feet – oh God, their feet in the market place – | their feet, those two beetles, ran for the corner | and then danced fort as if they were proud. | Surely, people exclaimed/surely they are mechanical. Otherwise…)

La traduzione realizzata da Lo Russo, la cui personalità emerge a più riprese, ci consegna la possibilità di leggere integralmente un libro di Sexton in italiano e dunque di poter osservare l’organizzazione complessiva di una sua raccolta, senza le omissioni e le deformazioni proprie di un’antologia (tematica ma pure cronologica come La zavorra dell’eterno, pubblicata da Crocetti nel 2016 con le buone traduzioni di Cristina Gamberi).

In questo caso, Il libro della follia è ordinato in tre sezioni: “Trenta poesie”, “Tre racconti” e una sezione poetica conclusiva, “Carte di Gesù”. Le tre sezioni si inseriscono pienamente nella costruzione, agita da Sexton, di una nuova immagine di sé, quella della “poetessa martire della società benpensante” cui fa riferimento Lo Russo nella presentazione del volume. In questa prospettiva, Il libro della follia rappresenta un punto di frattura significativo nell’evoluzione poetica e biografica di Sexton, sino al suicidio avvenuto nel 1974: si intensifica così una rappresentazione travolgente della propria soggettività unita al desiderio di rovesciare l’ordine precostituito. Lo spazio poetico, da intendersi qui come spazio dove agiscono tridimensionalmente il testo, la voce e il corpo, è allora lo spazio dove condurre più efficacemente questo scardinamento dell’ordine simbolico e fallogocentrico: non semplicemente l’ordine patriarcale, ma pure quello familiare, politico, religioso.

Non si può che pensare a un testo molto precedente e non incluso qui, Her kind (“Una come lei” nella versione italiana), dove Sexton – è il 1960 – rappresenta se stessa come una “strega posseduta” che attraversa l’aria scura, affacciandosi dall’alto sulle «case normali» di un sobborgo americano:

I have gone out, a possessed witch,
haunting the black air, braver at night;
dreaming evil, I have done my hitch
over the plain houses, light by light:
lonely thing, twelve-fingered, out of mind.
A woman like that is not a woman, quite.
I have been her kind.

Ne Il libro della follia, Sexton (e l’io poetico nel quale sceglie di trasfigurarsi) pare trovarsi nel medesimo assetto di volo, sopra i sobborghi, sopra gli interni di famiglia che ben conosce; e l’obiettivo del suo volo – folle o meno che sia – è quello di deformare l’ordine, rendersi protagonista una deviazione che conduce su sentieri mai battuti in precedenza dalla scrittura. La scrittura, appunto, gesto liberatorio e di auto-affermazione di cui si rilevano le tracce programmatiche sin dal primo testo della raccolta, “L’uccello ambizione”, dove viene chiarito come “trafficare le parole mi tiene sveglia” e la scatola nel quale vengono riposte le poesie:

È la mia scatola dell’immortalità

il mio piano rateale

la mia bara. (p. 15)

E ancora, sulla scrittura, nei versi conclusivi di “Anna che era matta” (p. 53), si invita Anna a continuare a scrivere, pur nell’oltretomba, brandendo la (borghese) stilografica come si trattasse di un’arma:

Sono stata io

a farti ammattire?

Dalla tua sepoltura, Anna, scrivimi!

Non sei altro che ceneri ma, purnondimeno,

impugna la Parker che ti regalai!

E scrivimi.

Scrivi.

Si nota, qui, il tentativo di ragionare sulla propria esistenza come poeta, anche nella necessaria rinegoziazione della propria soggettività e della propria immagine rispetto alla comunità dei lettori. Questa rinegoziazione, pur esprimendosi attraverso un io poetico in continuo movimento, è agita e consapevole: scopriamo allora che l’immagine di Sexton non può certo limitarsi a quella dell’aspirante suicida, la vittima o la frequentatrice di cliniche psichiatriche. Lo dichiara lei stessa nel testo “Il dottore del cuore”, che parodicamente capovolge un’altra ben nota invocazione a “Herr Doktor”, ovvero quella presente in “Lady Lazarus” di Sylvia Plath:

Non sono più la suicida

con una zattera e un remo.

Herr Doktor, non morirò più

per fare dispetto a te. A te,

che sciaguatti nel mal di mare coi piedi per terra.

Non è nemmeno più – non soltanto – la poeta di estrazione borghese, che le testimonianze (ad esempio quella di Maxine Kumin) ricordano come bella e ingioiellata, ma che si presenta invece come un’eremita, quasi rinchiusa ed esitante come Dickinson (rinchiusa ed esitante, eppure con il “Vesuvio in casa”, sempre nutrita – Dickinson – dall’amore per Susan), all’apparenza lontana dal mondo degli altri:

Abito in una stanza di pietra. Lontana dal lusso di tende e transistor, lontana dai cinema e dai caffè, lontana dagli uomini d’affari con i loro completi, lontana dai bambini che giocano con il Lego. Ho soltanto giornali e lettere di Ruth. A dire il vero, sono un’eremita. Sono esitante come Emily Dickinson. Sono tutta vestita di bianco come una novizia. Un’eremita, sì. Eppure ogni giorno attraggo le folle.

E non è nemmeno solamente la “Poetessa martire” cui fa riferimento Lo Russo nel suo prologo: è, prima di tutto, una soggettività in rivolta. E la rivolta riluce nel tono argutamente ironico dei testi, espressione di uno sguardo che – riprendendo le parole di Rich – è intimamente politico. Questo mi pare il territorio più interessante e produttivo da esplorare, perché ci consente di inserire la poesia – e questo libro – di Sexton dentro la storia. Lo mostra un testo come “I bombaroli”, che riproduco integralmente (e che ricorda la litania del sesto salmo di “O ye tongues”):

Noi siamo l’America.

Siamo i riempitori di bare.

Siamo i bottegai della morte.

Noi li imballiamo come casse di cavolfiori.

La bomba si apre come una scatola da scarpe.

E il bambino?

Certamente il bambino non sbadiglia.

E la donna?

La donna fa il bagno al suo cuore.

Le è stato strappato

e siccome è bruciato

come atto estremo

lo risciacqua nel fiume.

Questo è il mercato della morte.

America,

dove sono le tue credenziali? 

Non vorrei che si considerasse la mia come una sovralettura, perché forse poco di nitidamente civile o di militante si può facilmente individuare in questo libro di Sexton, ma politica è la scelta di mostrarsi completamente, darsi completamente al lettore e tentare così di mettere in crisi un ordine già definito. Anche la terza parte della raccolta, “The Jesus Papers” va in questa direzione, abbastanza nitidamente; ne riporto la chiusa:

Quando la mucca dà sangue

e il Cristo nasce

noi tutti dobbiamo mangiare sacrifici.

Noi tutti dobbiamo mangiare belle donne.

E si ritorna, dunque, alla provocatoria frase iniziale di Carla Lonzi. Sexton si è uccisa, come Plath, anche se ha scritto di sé per liberarsi. Questa istanza di liberazione della propria soggettività è indubbiamente personale, non ascrivibile a una particolare temperie politica o militante, ma è sovversiva: plurima e debordante, attraversamento incandescente del corpo, della sessualità, fino a toccare i territori della “mistica” (ma è sufficiente dire “mistica”, in questo caso?), in ogni caso pienamente dentro la storia, con le armi o le stilografiche già affilate per deformarla. Riporto qui, per concludere, l’estratto di una lettera del maggio 1966 a Philip Legler:

Let’s see what my news of the moment is. Tonight I take part in a vast Anti-Vietnam read-in. I expect they will throw eggs, or my husband (the republican who hates my pink—he calls it—politics) says they may throw hand-grenades. Now, if I don’t die tonight there is always tomorrow when I have an apt. with my O.B. because Linda took the pamphlet from the cancer collecting lady this Sunday and immediately read my symptom at William and Mary and the month before, namely I almost bled to death.

Anne Sexton, Il libro della follia, traduzione di Rosaria Lo Russo, Milano, La nave di Teseo, 2021, pp. 224