«it’s pretty boring to be in a shitty relationship», Nolan
Atti di sottomissione inaugura una nuova collana di NN editore, le fuggitive. La storia in effetti è, precisamente, una fuga: la ragazza che racconta inizia a raccontare del suo incontro con Ciaran a una mostra d’arte. Lui le sembra bello e intero: «Lui non cercava nulla di ciò che aveva intorno. […] E anche se non sembrava particolarmente felice, appariva senza dubbio integro, come se contenesse tutto il suo mondo dentro di sé». Si parlano, si rivedono, molto in fretta si innesca fra di loro un rapporto tossico, fatto di ritorsioni e controllo:
Mi raggomitolavo e mi nascondevo per dire che ero niente, ed ero felice di essere niente era ciò che più lo soddisfaceva. […] Sarei stata completamente vuota e immobile se era quello che voleva, o rumorosa quanto bastava per riempire i suoi silenzi. Sarei stata vigorosa e vitale se si annoiava, e quando si fosse stancato, sarei diventata prosaica e noiosamente utile come le posate.
A tratti al piano temporale marcato da Dublino 2012 (poi 2013) si alterna un cronotopo diverso, una voce, pure diversa, datata Atene 2019. La ragazza che racconta nuota da sola, un giorno d’inverno col sole. Uno con cui non aveva voglia di scopare la sera prima l’aspetta a riva, quando torna le dice che, non vedendola, si era preoccupato e lei risponde: non c’è proprio bisogno che ti preoccupi.
Una delle parti che ho sottolineato dice così: «Scendere a patti col proprio vittimismo fa solo parte dell’essere donna. […] Essere vittima è noioso per chiunque sia coinvolto. […] Se voglio raccontare qualcosa della mia sofferenza, sento la mia voce entrare nel canone delle Donne Che Sono State Ferite, diventando sconosciuta, non-mia». È la mia prima domanda, le chiedo se il punto fosse, in qualche modo, decostruire il vittimismo, tirarsi fuori da lì. Dice sì, che gran parte, o forse la parte più importante del libro sta nel tentare di “nuance this concept”, combatterlo o rinegoziarlo, complicarlo quasi.
“Ripensando, single per la prima volta da anni, alle relazioni passate, mi sono accorta di come a volte tentassi di mettermi in uno stampo, perché la mia selfnarrative risultasse più semplice, anche a me stessa. È disturbante percepire quanto siamo in grado di semplificarci, di tagliare fuori o di stare scomodi: volevo con questo libro, onesto in maniera brutale, riconnettermi con quella parte di violenza che non è aggressiva in maniera lampante. Penso che l’essere vittima o la vulnerabilità possano essere usate quasi come armi, diventare strumenti per alcune forme di violenza: mi interessava dissezionare, autopticamente, questo ingranaggio, il fatto che qualcuno, vittima sotto un frangente, tentasse o volesse entrare nel meccanismo usando la sua vulnerabilità come forma di potere”.
Le chiedo come abbia scritto, materialmente, e per quanto tempo abbia elaborato il tutto.
“Ho scritto a fasi molto frammentate: magari per tre settimane lavoravo in maniera molto intensa e poi non toccavo il manoscritto per mesi. E questo aiutava: quando trovavo troppo difficile ripercorrere qualcosa, mi staccavo, anche per non rovinare la mia vita che, nel frattempo, era serena, con una relazione stabile, sana. Il che creava una sorta di frizione, fra quella realtà rivissuta e quella quotidiana, ma credo che quella relativa sicurezza mi abbia aiutata a mettere in scena meccanismi anche peggiori di quelli che ricordavo. Ho lasciato che la protagonista agisse in maniera più aggressiva, più feroce di quanto non avessi agito, le ho concesso di fare cose cui ho pensato a lungo ma che non mi sono mai concessa di fare. È stato liberatorio. L’ho lasciata liberarsi, fuggire, capire come non dipendere dagli altri: imparare, anche in maniera terribile, una lezione che forse io sto ancora imparando”.
Le chiedo quanto, scrivendo, abbia pensato alle persone che le volevano bene, a come, o se, avesse tentato di proteggerle.
“Penso che abbia cambiato alcune cose, ma non in peggio. Sono fortunata, perché le persone che amo non sono, né sono mai state, giudicanti, anzi, sono piuttosto aperte, progressiste. Ma non ero preoccupata di quello, in realtà – che leggessero di sesso o pensassero male di me – quanto, sì, di proteggerli. È orribile mostrare che soffri alle persone che ami. Tanto più che spesso avevo nascosto parte di quella sofferenza, quindi, molto semplicemente, provavo dolore all’idea che avrebbero provato dolore, che avrei causato loro dolore. D’altra parte, ero molto grata che capissero, sapessero quali parti del racconto non ero io”.
Le chiedo se abbia mai pensato, anche per questo, di non scriverlo in prima persona.
“No, anche se ho staccato alcune parti di questa storia dalla mia storia, non ho mai pensato di poterla scrivere in terza persona. Ascoltavo, mentre scrivevo, un’amica che era in quel momento in una relazione abusiva da cui non riusciva a uscire e pensavo che, da fuori, è impossibile capire. Potevo solo raccontare lo stare dentro. È noioso – stare o sentire parlare – di abuso, è stando dentro che è tutto drammatico, volevo un solo punto di vista: quello, quello ossessivo, allucinato”.
Tace, poi sorride, poi ricomincia: “Chiedere aiuto è difficile, perché è difficile ammettere di soffrire così tanto. È come se ci fossero dolori confliggenti, quasi in competizione: provavo a non guardare il dolore, per schivare l’umiliazione, il fallimento. A lungo non riuscivo a chiedermi come spezzare il meccanismo, perché avrei dovuto ammettere che era reale. Scrivere forse è stata la chiave: se sei in grado di esprimere la vergogna più o meno artisticamente, hai l’impressione di fare qualcosa di costruttivo, invece di limitarti a piangere”.
“D’altronde, ho fatto fatica anche a capire che ci sono varie forme di abuso e alcune sono più raccontate o magari perseguibili penalmente, più semplici da riconoscere anche da chi è coinvolto. E speravo che, in qualche modo, raccontare questa zona grigia, aiutasse: violenze psicologiche o verbali cambiano radicalmente la tua fisiologia, perché costringono il sistema a un livello di tensione innaturale e non vorrei che venissero ignorate, silenziate dal paradigma dominante della tipica relazione violenta”.
Fra gli ultimi che ho letto Atti di sottomissione è uno di quelli che più mi è piaciuto, però lo guardo confezionato: ha una copertina fucsia, con una foto in primo piano di sottoveste, lei pure fucsia, che si alza sulla pelle nuda delle cosce. Se lo cerchi su Ibs, il tag è erotico-rosa. In inglese, s’intitola Acts of desperation (la copertina è pure rossa e la foto, in bianco e nero, è su due labbra schiuse).
Eugenia Dubini, editrice NN, prima che l’intervista iniziasse, spiega a proposito del cambio di titolo che disperazione entra nel campo semantico della depressione e che, quindi, pareva fuorviante rispetto al romanzo. Sottomissione invece rimanda a qualcosa di più complesso: a una dipendenza (in questo caso da una relazione, da un uomo), all’annientamento della propria persona per qualcosa, alla distruzione e negoziazione dell’identità.
Penso, ascoltandola, che manca almeno uno dei rimandi, forse il primo, che però è ovunque su quel paratesto. Sottomissione sa di sesso. Chiedo a Megan Nolan che cosa associa a disperazione e cosa a sottomissione.
“Disperazione, nel mio titolo, aveva, credo più significati, designava i comportamenti malati o disperati che la protagonista attuava per tenere legato a sé Ciaran, ma mi faceva pensare anche al fatto che talvolta una donna viene chiamata desperate come insulto, una delle cose più spaventose che puoi dire di una donna sola di questi tempi, mi pare. Il cambio di titolo credo c’entri con le diverse attivazioni dei due termini nelle diverse lingue. Sottomissione, nella mia idea, c’entra con il fatto che questa relazione la sommerge, la sopraffà. Credo che in inglese l’accezione sessuale di sottomissione sia molto forte e quindi non avrei mai pensato, in prima battuta, di metterlo in copertina, anche se c’entra senz’altro anche il sesso, nel libro”.
Mi viene in mente quella parola che ha usato prima, to cast, mettersi in uno stampo. Forse è sempre una questione di stampi.
Mi viene anche in mente un pezzetto di un articolo che Megan Nolan ha scritto per il “New York Times”, in pandemia. S’intitola The Joy of Frivolous Sex in cui scrive che, in lockdown «cercava di ricostruire il concetto di piacere come qualcosa che potesse accadere anche senza le persone. Non [le] riusciva». Aggiunge che il punto non erano gli orgasmi, più l’idea che lo scopo della nostra esistenza fosse, in definitiva, stare con gli altri, e che «l’ avidità di mondo e contatto e possibilità [fosse] genuina e sana, non alimentata da disperazione».
Forse, mi sono detta, se ne sei uscita, non ti stanno stretti più nemmeno certi stampi.
Megan Nolan, Atti di sottomissione, Milano, NN editore, 2021