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(a)realismo minimo: “Pensa il risveglio” di Cinquegrani

Dopo l’esordio con Cacciatori di frodo (Miraggi 2012) – finalista al Premio Calvino, selezionato al Premio Strega 2013 e di prossima pubblicazione in Francia – Alessandro Cinquegrani era atteso a questa prova. Ora, a quasi dieci anni di distanza, questo scrittore del Nordest torna nelle terre della prosa con Pensa il risveglio (TerraRossa 2021); un libro che esprime benissimo la particolare consistenza della realtà come quel conglomerato di armoniosa e ossessa razionalità, rumori bianchi e pulsioni a un irrazionale puro che, del resto, si può sperimentare in prima persona attraversando il Veneto contemporaneo.

Si è parlato di Inception come precedente cinematografico per comprendere la qualità del reale del romanzo di Cinquegrani. Ma Pensa il risveglio è anche cromaticamente affine a certi fumetti di Frank Miller – dove il bianco e nero non faccia hard-boiled, e il colore puro non ne sospenda con violenza l’incanto essenziale. Questo romanzo luminoso e oscuro, lirico e prosastico, instilla sin dalle prime pagine l’aura «sanza tempo tinta» di un livido inferno; e insieme la «prosa» (per l’appunto) di una quotidianità ‘economica’ perché misurabile, minima perché ottimizzabile. Anzi: tanto più misurata e ottimizzata da risultare insostenibilmente simile all’incubo sovrano di un’eternità appiattita su se stessa, giorno dopo giorno.

La trama principale è incastonata tra due scritture di genere che Cinquegrani padroneggia con maestria per vocazione e per mestiere. La prima è quella della sceneggiatura, e in particolare di un film che ormai il buon senso ci invita a non chiamare più distopico, non troppo lontano dal Leviatano climatico di cui parlano Geoff Mann e Joel Wainwright: dove l’acqua è scomparsa, cioè, e una sovranità politica mondiale contiene il disastro garantendo al contempo la sicurezza alla classe dirigente. La seconda è quella del saggio – più incline alle corde dello studioso Cinquegrani, comparatista a Ca’ Foscari –, e specificamente incentrato sullo statuto del regime di verità attivo nel Terzo Reich. 

Ma Pensa il risveglio, appunto, racconta entro questi interstizi di una sparizione e di uno scambio di persona. La vita di Lorenzo e della voce narrante – amici fraterni, impegnati quali regista e attore in un film dal titolo bifronte (diffuso come La nostalgia dell’acqua secondo un’intuizione del secondo, ma voluto dal primo come Albert Speer è morto) – cambia per sempre quando il primo scompare nel nulla; e il secondo, dopo timide ricerche, si ritrova quasi inconsapevolmente (e come naturalmente) a «mangiare, bere, vestir panni» del suo migliore amico. Con più di un sospetto di albergare in una sorta di personale e incomunicabile antinferno. È proprio la naturalezza di questa transizione e questo scambio a turbare il narratore più profondamente:

Come se fosse assolutamente normale che io indossi il pigiama di Lorenzo, come se fosse normale che io dorma nel letto di sua moglie, oggi, a un giorno dalla sua scomparsa e dopo la nostra inutile ricerca. Eppure io non mi oppongo, non mostro offesa o disagio, non rispondo che no, non è possibile, non invoco il trattamento sanitario obbligatorio per questa situazione. Guardo lei che non piange, lei che si limita a dire È lì, sotto il cuscino, come se nulla fosse, che gioca a ingannarsi, a mentirsi, per sopravvivere forse. E io mi presto a questa pantomima, senza rispetto per un amico, per un mio carissimo amico: indosso il pigiama di Lorenzo, entro nel letto di Lorenzo, uso perfino lo spazzolino di Lorenzo, come niente fosse, incapace di dire a Cate alcunché. E se almeno facessimo l’amore, se potessi dire a me stesso che lo faccio per bassi motivi di sesso e avidità, sarebbe meglio, per giustificarmi, per limitare il nonsenso di tutto quel che sta accadendo. (46-47)

È in effetti il sospetto più che l’amore, la conoscenza più del coraggio – il «pensare», insomma – a spingere il protagonista alla ricerca di ulteriori indizi sulla situazione, convinto com’è che «questa storia è truccata». Il nonsenso quotidiano si tinge di banalità; questo Bloom di razza Piave salva distrattamente un uomo dalla morte per ustione, nutre piccoli sospetti sulle attività sadomasochistiche della vicina di casa, apprende distrattamente alla tv dei cataclismi che coinvolgono zone remote della Terra. La vita sul fronte occidentale è, ancora e sempre, con Adorno, l’ideologia della propria assenza.

Ma i segnali restano, e sono da reperire proprio laddove la vita non arriva, in sprezzo dei pericoli e al rischio di una cripticità sempre più truccata (appunto) da paranoia. Dai materiali verbo-visivi lasciati o predisposti da Lorenzo (cartoline, appunti, bozze architettoniche, easter egg cinematografici) alle citazioni che ne fomentavano i discorsi – tratte dalle biografie di nazisti ‘illustri’ come Albert Speer o ‘infami’ come Josef Mengele; fino alle corrispondenze sempre più simboliche di situazioni, gesti, discorsi. Il protagonista si muove alla ricerca del punto che non tiene, delle «crepe» da cui filtra lo spiraglio di una storia svincolata da un «destino» (81); e cerca di minare, insomma, le fondamenta di quello che sempre più si precisa, più ancora che un limbo, quale vero e proprio Castello di Atlante. 

E proprio là, dove la finzione narrativa mostra i suoi lati più autonomi e autonomizzanti – dove ci si avvede, insomma, che «il cinema imita il cinema, non imita la realtà» (148) –, ecco che la letteratura comincia a farsi critica della vita. Quando il castello, a rivelazione avvenuta, crolla, ciò che conta è allora sopravviverle, tentare di garantirsi e garantire alcune vie di fuga e di transito tra inconscio e veglia, realtà e finzione, passato e presente. Dei ponti, insomma: come quelli che Albert Speer non fece detonare dopo gli ordini di Hitler, condannando il Reich ma salvando Berlino.

Si è parlato di sceneggiatura e di saggio, di conglomerato: e in effetti Pensa il risveglio vuole racchiudere tutto questo rifiutando ogni etichetta. I rapporti che i vari materiali scritturali intessono tra loro sono l’analogo dei rapporti intrattenuti dal protagonista con le diverse qualità del reale che abita o attraversa nella sua ricerca della verità. Ma che cos’è la verità? O meglio: cosa fa fa fare? La contraddizione meglio distillata del romanzo è proprio quella che ci mette di fronte, inesorabilmente, alla plausibilità estrema, all’aspetto più credibile di regimi di verità quanto mai folli, insensati, irrealistici. «Non è vero che il male è banale, non è vero che il male è solo banale […] è solo nello scandalo dell’estremo che l’uomo rivela se stesso» (pp. 79-80): dove liquidare Hannah Arendt significa abbandonare ogni affrettata analisi extrastorica e metapolitica; eppure, realizzando che il rapporto del male con la verità sembra in qualche oscuro modo avere a che fare con la sfera del sacro.

Perché dovremmo credere (perché ‘si crede’) a un discorso? Perché dovremmo fare quanto ci viene chiesto? È uno stretto legame, quello che stringe linguaggioretorica e persuasione: un’epoca intera (ogni epoca, a ben vedere) si potrebbe raccogliere e riassumere attorno a questa domanda. Forse anche per questo è difficile rispondere. 

Eppure, se c’è un aspetto che lega ogni discorso davvero persuasivo, politico o religioso che sia, è proprio la tendenza a promettere, “subito” o “in futuro”, un “di più” di vita. È a suo modo un atto di fede, che svela il carattere in ultima istanza religioso di ogni visione del mondo e quello politico di ogni credo. «“Se non mangiate la mia carne e non bevete il mio sangue, non avrete in voi la vita”. Cosa vuol dire avere in sé la vita? Non lo so, ma so che è ciò a cui aspiro», scrive Emmanuel Carrère in Il Regno (2015). Di qui si ingenera la lacerazione tra la parte di sé che accetta termini e condizioni di una visione della realtà – in questa inseguendo apparenze e desideri – e quella che invece la rifiuta integralmente, insieme al mondo che la incarna. E si decide a scomparire.

Il fulcro di Pensa il risveglio ruota proprio attorno alla scelta sempre da fare tra l’accettazione e il rifiuto di una realtà e di una vita, tra la resa più o meno incondizionata a un ordine di verità e la scomparsa fino in fondo coerente con sé stessi (con quanto di vittorioso e di sconfitto ciascuna di esse comporta). Ma anche a quanto siamo disposti a credere, o a dubitare. Questo dubbio e questa scelta si rifrangono secondo angolazioni differenti ma altrettanto persuasive sui tre macro-livelli diegetici della narrazione – tra un sopra- ed un sottomondo, cioè, e le loro trasfigurazioni artistico-saggistiche; i quali, al di là di ogni considerazione di merito, muovono a dare consistenza plastica a una teoria della mimesi e, a ben vedere, a una prassi «contenta di deserti».

La figura del poeta che rifiuta la propria naturale vocazione all’espressione di sé e della sua scissione per complicarla in una stoica sorte civile segnala di solito una crisi delle sovrastrutture ideologiche. All’epoca in cui questo mondo sembra non volerci garantire neanche più quel “più” di vita, ma impone termini e condizioni sempre più stringenti per la sopravvivenza minima del quotidiano, è forse proprio a queste figure che bisogna sapersi rivolgere: e alle loro forme dissimulatamente “ossesse”, sottratte all’astrattezza ma come scosse dall’interno, solidificate ma percosse da energie in tensione. 

Sono queste le premesse che dovrebbero illuminare un discorso a partire da Pensa il risveglio. Del resto, il libro sembra impartire, con la sua architettura formale ambiziosa e dimessa insieme, una precisa indicazione critica in merito; e rappresenta senza dubbio una “prova di maturità” per Cinquegrani. 

Che il poeta del Quarto tempo («Atelier» XI, 42, 2006) dovesse giungere alle terre della prosa con la violenza espressionistica del suo libro d’esordio poteva forse risultare al tempo l’esito inatteso ma in qualche modo complementare di una singolarità nutritasi di primo Novecento – tra le avanguardie, diciamo, e l’esistenzialismo storico – e smaniosa di pronunciare tutto ciò che in versi sentiva di dover tacere o invisibilizzare o sottintendere. Di appropriarsi, insomma, magmaticamente e senza alcuna mediazione, di quei gesti e quelle figure sospese tra simbolo e materia, tra «l’alfabeto e l’epidermide», che plasmavano il suo immaginario. 

Riletto alla luce di questo suo ultimo lavoro, il percorso di Cinquegrani rivela invece pressoché il contrario. È la storia di una crescente sfiducia per la parola assoluta, ormai privata di ogni presa (meglio: di ogni persuasione). E della necessità di attraversarne la palude della «voce» – espressioni, personaggi, trame – in cerca di un guado da cui renderne possibile un racconto. Farsi, insomma, scrittore (con quanto anche di negativo il termine comporta) lasciarsi «il fango alle spalle» e tentare, con la consapevolezza di quel fango, di accettare integralmente i nomi storici del suo senso della perdita.

È precisamente questo il punto di intersezione dell’afflato narrativo e quello saggistico, nonché (con solvente minimo tra autore e personaggio) delle incursioni (ancora) liriche. In questo senso, Cinquegrani sembra cristallizzare quanto mai coscientemente in una «funzione Lorenzo» tutto ciò che in sé «non media» (24), compresa la «retorica» di un’espressione distillata che è al contempo verità poetica – «La pelle è un confine labile, va difeso strenuamente» (68) ricalca, peraltro, alcune liriche del Quarto tempo – e insieme «iato», «enigma», «indecifrabilità» che lo separa dalle «persone vive» (188).

Il problema che si pone come ineludibile nell’opera di Cinquegrani è infatti quello della fine dei giorni del disordine, della nostalgia impronunciabile per un tempo in cui, a proprio rischio e pericolo, si poteva essere vivi e reali. Sostanzialmente proseguendo e rimasticando, nei suoi strascichi più quotidiani e singolari, la «dura e feroce notizia» di questo vivere sul fronte occidentale, questo non avere e non essere, questa recitazione infinita della vita che ci distrae dalla nostra morte. Ed è per questo che, a libro chiuso, ogni sorriso si rivolta in ghigno, ogni risoluzione in scacco. 

All’epoca dell’individualizzazione di ogni responsabilità senz’altra comunione che il presente e i suoi detriti, Cinquegrani chiede di pensare condizioni minime di un mutamento, gesti quotidiani, azioni percorribili dal singolo che intenda rinunciare all’«io» pur aderendo per forza o per amore a una realtà che ci atomizza. Qui, ancora, più dell’amore è la paternità, «inaugurazione alla vita», «accesso al tempo» (225) – quell’uscita dalla «condizione di figlio» di cui molta saggistica ed epigrammatica ha, da Franco Fortini a Guido Mazzoni, puntato l’indice. Non si è nemmeno colpevoli, ci dice Cinquegrani, laddove non si ha importanza (39). 

È questo il senso di alcune delle più belle pagine di questo libro (delle molte sublimazioni simboliche, notevole è il «dialogo sulle nutrie volanti» tra il protagonista e Il Bruciato, o «del punto oltre il quale si diventa cosa», 63), che riproduce perfettamente la condizione voyeuristica di tutta una contemporaneità. Ma anche la parte in apparenza più debole del romanzo – quella in cui l’autore si premura di far quadrare i conti, di garantire al suo protagonista un’etica della sopravvivenza; più debole, a ben vedere, proprio in questo sopravvivere al disordine – è una minuziosa prova di bravura, e una lama rivolta infine al lettore, un’intimazione a scegliere; e a scegliere che cosa è una vittoria e cosa una sconfitta. 

Cosa rimane a libro chiuso, a cose fatte, in questo «risveglio» dove nuovamente il doppio, il padre, l’infedele, l’avversario esistenziale e politico ritornano a incalzare e a motivare i temi dell’esordio narrativo? «I cacciatori non esistono» (225): il transito da una voce a un discorso, da un «romanzo naturale» a una prova narrativa. «Pensa i cacciatori di frodo, là fuori, con tutta quest’acqua»; «pensa il risveglio […] in tanto squallore». Non si tratta che di questo: dello scarto che separa un’esclamazione da un imperativo. 


Alessandro Cinquegrani, Pensa il risveglio, TerraRossa, 2021, €15,90