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La Balena consiglia: undici libri sotto l’albero

Anche quest’anno tornano gli imperdibili consigli natalizi a cura della ciurma della “Balena Bianca”. Tra romanzi, saggi e fumetti, nella nostra lista troverete titoli di Neri Pozza, Adelphi, Sellerio, Bompiani, Einaudi, La Nave di Teseo, TerraRossa, Bao Publishing, Rizzoli, Constrasto e Capovolte.


Benjamin Labatut, La pietra della follia, trad. L. Topi, Adelphi (Ambrogio Arienti)

Per rendere un’idea dello spirito che anima questo Microgramma, quasi uno spin-off in due racconti di Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2021), vorrei provare a ripercorrere un passo che reputo esemplare. Labatut, che prende le mosse dalla descrizione di un celebre quadro di Bosch, si sta concentrando sul concetto di «irruzione del nuovo»: più l’uomo s’impegna a conoscere la realtà che lo circonda, abbandonando credenze inesatte, e più ciò che scopre lo terrorizza, gettando ombra sul mondo. Per semplificare, indugia su quella che in gergo scacchistico viene definita una situazione «off book»: se nel gioco della dama, più semplice e compassato, si è ideato un repertorio di tutte le mosse attuabili, negli scacchi, invece, in alcune partite si vengono a creare delle situazioni così complesse da essere totalmente nuove, inedite – perciò nessun giocatore può sapere quale sia la mossa giusta da fare. Ciò che ossessiona Labatut, ecco, e a mio avviso ciò che anima la sua prosa magnetica, quasi incantatoria, è l’esperienza del confine della conoscenza. Lì, nel punto in cui il velo del sapere umano si squarcia, si torna all’«off book»; e lì s’infervora la penna di questo magnifico scrittore – che qui ci dona una piccola perla di narrative non fiction.


Abraham Yehoshua, La figlia unica, trad. A. Shomroni, Einaudi (Marzia Beltrami)

Lo stile di Yehoshua è talmente inconfondibile che, aprendo ogni suo nuovo libro, si è immancabilmente colti da un senso avvolgente di familiarità. Con La figlia unica, la sensazione è accresciuta dall’inedita ambientazione italiana, in parte omaggio al largo successo di pubblico di cui gode l’opera di Yehoshua in Italia, in parte sorta di malinconico e affezionato commiato. Rachele Luzzatto, giovane protagonista di questo romanzo breve, è la figlia undicenne di una benestante famiglia mista, per metà ebrea e per metà cristiana, in una non meglio precisata cittadina del Nord. Cosa vuol dire essere ebrei in un Paese in cui la maggior parte della popolazione professa un’altra religione? E cosa comporta affrontare questo discorso fuori da Israele e lontano dal contesto e dal conflitto arabo-israeliano? Essere circondati dalla diversità diluisce o, al contrario, rafforza la propria identità culturale? L’unicità di Rachele la distingue e la isola rispetto alle compagne di classe, ma si manifesta anche nel suo essere bacino di raccolta della doppia eredità famigliare, in un contaminarsi non sempre pacifico di tradizioni contrastanti; o si carica di una sfumatura di solitudine di fronte alla potenziale tragedia della malattia. Ma prima ancora che una storia sull’identità ebraica, quella de La figlia unica è una storia umana in cui ciò che spicca maggiormente sono i testardi personaggi tipicamente “yehoshuani”. Quello che ritorna e incanta ogni volta nelle storie di Yehoshua è l’amore per la corposità del racconto, per il dettaglio mai superfluo: i conflitti non sono mai generici, e i pretesti narrativi (qui, il rifiuto del padre di Rachele a farle recitare la parte della Madonna in una messinscena scolastica, o il desiderio della professoressa che Rachele selezioni il suo episodio preferito del libro Cuore) vengono sviluppati fino in fondo, assurgendo a orizzonti ineludibili il cui senso più ampio nasce, paradossalmente, proprio dal rifiuto di farsi metafora e dalla rivendicazione del proprio essere storia circoscritta ma non per questo di minor valore.


Edoardo Albinati, Velo pietoso: una stagione di retorica, Rizzoli (Andrea Brondino)

Un breve dizionario di idee chic e luoghi comuni di questo tempo. Al contrario di quelli flaubertiani, il catalogo di Albinati è tutt’altro che ironico o indiretto, ma questa assenza di obliquità non pare qui un difetto imperdonabile. La forma frammentaria di Velo pietoso restituisce perfettamente la goffaggine dei nostri tic verbali, l’imprecisione obnubilante di mille, trite metafore che infestano televisioni, giornali e letteratura; colonizzando infine il nostro immaginario più di quanto non ci piaccia ammettere. Se è vero che per parlarsi occorre capirsi, una critica della grammatica inceppata e del luogocomunismo imperante nell’era pandemica può tornarci utile.    


Mauro Maraschi, Rogozov, Terrarossa Edizioni (Olga Campofreda)

Per il suo tema così drammaticamente attuale, il romanzo d’esordio di Mauro Maraschi sembra essere stato scritto negli ultimi due anni di pandemia, mentre invece nasce da una lunghissima gestazione, che mai avrebbe potuto prevedere le derive storiche e sociali di questi mesi. Il titolo vuole rievocare la vicenda di Leopold Rogozov, medico di una spedizione artica passato alla storia per essersi asportato da solo l’appendice. Benché di questo personaggio non si parlerà mai apertamente nel corso del romanzo, il tema della medicina, della cura alternativa e dell’avventura paradossale sono i colori primari di una narrazione in cui anche l’attante piú marginale risulta a suo modo unico e difficile da dimenticare. Ruggero Gargano è un protagonista detestabile, che rifiuta le cure della medicina moderna per sua figlia e si decide a trattarla con metodi naturalistici in una comune, mettendo a rischio la vita della ragazza. Nel corso del romanzo l’uomo fornisce in modo chiaro e razionale le ragioni della propria follia, fondata principalmente sull’idea che il capitalismo stia alla base dei più gravi malesseri del genere umano. Maraschi costruisce un personaggio complesso, lucido e folle al tempo stesso, giocando in equilibrio sulle ambiguità e le contraddizioni degli estremismi ideologici. Il libro omaggia il postmoderno col suo universo popoloso di figure paradossali, nelle citazioni a piè di pagina, nei rimandi alle appendici. La storia riesce a intrattenere e a turbare allo stesso tempo con una scrittura ironica che non condanna ma che si interroga, più di tutto, su cosa spinga le persone a procedere spedite verso l’assurdo (o lontano da esso).


Luisa Adorno, L’ultima provincia, Sellerio (Michele Farina)

In concomitanza con la recente scomparsa dell’autrice, Sellerio ripropone L’ultima provincia di Luisa Adorno, romanzo breve pubblicato per la prima volta nel 1962. Attraverso il racconto di una famiglia di burocrati meridionali, la giovane narratrice interna offre uno spaccato credibile della gretta borghesia fascista nell’Italia del secondo dopoguerra. Il punto di vista della ragazza, comunista di origine toscana, si proietta sulle piccolezze e le contraddizioni di casa Adorno, abitata dai memorabili personaggi del prefetto e di sua moglie, la prefettessa, all’ombra dei quali si affolla una ridda di comparse (parenti, politici, prelati…) attratta dai mediocri conforti di un potere immutabile. Scritta con uno stile smilzo e incisivo, la sfilza di episodi che compongono il romanzo costituisce, come già notava Sciascia, un raro referto di letteratura italiana delle istituzioni e, vorrei aggiungere, un esempio notevole di umorismo al femminile.


Grada Kilomba, Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano, trad. M. Moïse e M. G. Tesfaù, Capovolte (Simona Menicocci)

Nel celebre incipit metatestuale di Se una notte d’inverno un viaggiatore Italo Calvino segnalava come fondamento della lettura la necessità di trovare prima di tutto una posizione comoda e confortevole. Ecco un libro che rende impossibile tutto ciò: non esiste alcuna posizione che possa far sentire a suo agio una persona bianca, o che ha interiorizzato uno sguardo bianco, mentre legge Memorie della piantagione dell’artista e psicoanalista portoghese Grada Kilomba, tradotto dall’inglese da Mackda Ghebremariam Tesfaù e Marie Moïse per la casa editrice Capovolte. Frutto della sua ricerca di dottorato, lo studio di Kilomba si configura come una fenomenologia del razzismo quotidiano che analizza il linguaggio, i discorsi, i gesti, le azioni e gli sguardi che in vario modo ogni giorno perpetrano i processi simbolici coloniali di infantilizzazione, primitivizzazione, decivilizzazione, animalizzazione ed eroticizzazione delle persone Nere. Incrociando la psicoanalisi freudiana, il pensiero decoloniale di Franz Fanon e le riflessioni afrofemministe di bell hooks, Kilomba concettualizza il razzismo quotidiano come l’esperienza di un trauma, quello coloniale, che provoca un collasso della temporalità per cui il passato si fa presente e viceversa. La metaforicità del titolo rivela perciò il suo portato conoscitivo esistenziale: la violenza della piantagione, che pur non si è vissuta, si fa atemporale e così torna attuale, si è costretti a ricordarla sotto forma di memoria, a riviverla sotto forma di trauma. A queste violenze strutturali Kilomba risponde attivando un processo di decolonizzazione del sapere e del sé che funge anche da manuale di educazione a vedere e pensare ciò che è stato naturalizzato e forcluso, in una slatentizzazione materialista, femminista e decoloniale, mai consolatoria, sempre scomoda.


Jean Cristophe Bailly, Il versante animale, trad. M. Martelli, Contrasto (Cecilia Monina)

Il versante animale di Jean Christophe Bailly ha inaugurato (insieme a Essere una quercia di Laurent Tillon) «Tracce», la nuova collana della casa editrice Contrasto che si propone di dare spazio alla voce di chi vuole raccontare quello che ci circonda interrogandosi sul regno animale, su quello vegetale, sui fenomeni «con cui facciamo mondo comune». Il testo di Bailly – pubblicato per la prima volta in Francia nel 2007 (e che ci arriva oggi grazie al lavoro di traduzione di Matteo Martelli) – indaga, a partire dall’incontro con lo sguardo, il rapporto di scambio continuo tra uomo e animale. Ogni animale è percepito dall’autore come «un inizio, un innesco, un punto di animazione e intensità, una resistenza», e la vicinanza con l’uomo rappresenta un momento di passaggio, l’esperienza di una soglia verso l’ignoto e il simbolico che ci attrae e che sentiamo di voler varcare. Bailly condivide col lettore i momenti epifanici, la coscienza politica, il lavoro sulle immagini e suggerisce così la necessità di un capovolgimento dello sguardo antropocentrico e di un’apertura verso «quello spazio senza nomi e senza progetto nel quale l’animale traccia liberamente il suo cammino».


Davide Orecchio, Storia aperta, Bompiani (Giacomo Raccis)

Leggere un libro di Davide Orecchio non è cosa per tutti. Richiede infatti un gesto molto coraggioso: abbandonare i propri, consumati occhiali, quelli con cui da sempre riconosciamo il mondo e la storia, per indossarne un paio nuovi, stranianti: occhiali che mostrano bivi laddove credevamo ci fossero lunghi rettilinei; occhiali che addirittura fanno sentire voci, come se un avvenimento non fosse solo la somma delle azioni che lo compongono, ma comprendesse anche i discorsi che nel tempo hanno provato a tramandarlo o interpretarlo. Discorsi immaginari, o forse discorsi che trovano cittadinanza nell’immaginario e da lì riscrivono la storia. E con Storia aperta Orecchio approda all’opera capitale, mette la sua biofiction alla prova della misura lunga – anzi, lunghissima – per raccontare l’avventura di un io prismatico che attraversa il Novecento raccontandone le vite parallele. È il romanzo di un secolo e il romanzo di una vita, da leggere con calma, lasciandosi condurre dal ritmo di una sintassi scandita come una litania, che restituisce alla letteratura la sua funzione di rito conoscitivo, prassi che mostra senza spiegare mai definitivamente. E che quel Pietro Migliorisi di cui si narrano le avventura molteplici sia la controfigura del padre di Orecchio, in fondo, importa più a chi scrive che a noi lettori. Perché la scrittura è uno «strumento di pacificazione interiore», mentre la lettura non può che essere il punto di partenza per qualcosa che ancora dobbiamo scoprire.


Hubert & Zanzim, Pelle d’uomo, trad. F. Savino, Bao Publishing (Giulia Sarli)

I francesi fanno scuola quando si parla di commedia e lo dimostrano anche nel campo del fumetto. Hubert ci lascia troppo presto firmando la sceneggiatura del suo capolavoro, Pelle d’uomo, disegnato da Zanzim e pubblicato in Italia da Bao Publishing grazie alla traduzione di Francesco Savino. L’edizione originale (Glénat, 2020) si è aggiudicata sette dei premi principali legati al mondo del fumetto francese, tra cui il Fauve des lycéens del Festival d’Angoulême 2020 e il Grand Prix de la Critique ACBD 2021. Per trattare di un tema contemporaneo come è quello degli stereotipi di genere, Hubert ambienta la sua “fiaba degli equivoci” nel passato: siamo in Italia, durante il Rinascimento e Bianca, protagonista e narratrice del racconto, è stata appena promessa in sposa a un uomo con cui non ha mai nemmeno parlato. Grazie all’aiuto di una zia, la ragazza scopre che le donne della sua famiglia si tramandano di nascosto un tesoro: una pelle che trasforma chi la indossa nel giovane e avvenente Lorenzo. Bianca può così fare esperienza di un altro corpo e di un’altra vita, scoprendo una libertà che fino a quel momento le era stata preclusa. Ma si rende anche conto che il suo promesso sposo è più attratto dalla bellezza di Lorenzo che dalla sua, tanto che è di lui che si innamora ed è a lui che insegna i piaceri della carne. Nel suo migrare continuo da un’identità all’altra, Bianca si accorge che la vita degli uomini è prigioniera di luoghi comuni e pregiudizi quanto quella delle donne. Che dai tempi di Savonarola a oggi non sia cambiato così tanto? Forse questo sarebbe eccessivo; è però un fatto che molti falsi moralismi pesano oggi come allora. Una fiaba ha bisogno di una morale. Dunque: il solo modo per sconfiggere gli stereotipi è di mettersi “nei panni degli altri”. A chi crede nelle fiabe si consiglia di farlo in senso letterale.


Ludwig Binswanger, Aby Warburg, La guarigione infinita. Storia clinica di Aby Warburg, a c. di D. Stimilli, trad. C. Marazia, Neri Pozza (Marcello Sessa)

La ristampa della “storia clinica” di Aby Warburg ha, si potrebbe dire, una duplice funzione. La ricomparsa di questo libro – di fatto uno stratificato regesto dei documenti che testimoniano il percorso di cura dello storico e teorico dell’arte tedesco da parte dello psichiatra svizzero Ludwig Binswanger: rapporti medici, lettere, memoranda – è da una parte per gli specialisti aggiunta paratestuale che allarga i campi di studio; dall’altra funziona per i lettori d’occasione come testo pienamente autonomo. In entrambi i casi, è di incidenza cruciale, perché si tratta di una delle prime attestazioni scritte del lato oscuro – e spesso rimosso – della ricerca scientifica: i suoi risvolti patologici. Warburg li aveva confessati dopo aver pronunciato una conferenza sul cosiddetto “rituale del serpente”, dicendo apertamente che la sua fatica era, alla lettera, lo sfogo di un malato di nervi. Da allora, sempre più e pubblicamente, si ha il coraggio di ammettere che ogni attività intellettuale – da Warburg ricondotta a uno sforzo di riattivazione energetica della memoria – adombra l’autoconsunzione. Non è possibile porvi rimedio, ma fronteggiarla tentando di instaurare ponti con l’altro. Così Binswanger consigliava di perpetuare «questo tracciare un arco all’indietro, che allo stesso tempo significa sempre una tensione in avanti» (p. 211).


Hervé Le Tellier, L’anomalia, trad. A. D’Elia, La Nave di Teseo (Michele Turazzi)

Satira sociale, thriller, dramma psicologico, romanzo d’anticipazione, spy story, opera metaletteraria, compte philosopique. Il tutto portato avanti con un ritmo incalzante e una continua esplosione di colpi di scena che fanno esattamente quello che dovrebbe fare la buona letteratura e che, invece, spesso non fa: tenere il lettore incollato alla pagina, senza però rinunciare a bombardarne le sinapsi. Il romanzo vincitore del Goncourt 2020 è un oggetto tanto indefinibile quanto affascinante, proprio come è lecito aspettarsi dal presidente dell’OuLiPo (quell’Officina di letteratura potenziale che rimanda a Queneau e Perec e che dalle nostre parti è conosciuta più che altro per Calvino). La quarta di copertina italiana dell’Anomalia rivela fin troppo di una trama che meriterebbe di restare il più possibile celata al lettore, e che infatti l’edizione Gallimard si guarda bene dallo svelare, basti sapere che tutto si annoda attorno a un Boeing 787 che, nel marzo del 2021 (quindi: immediato futuro per chi scrive), incappa nella «tempesta del secolo» e che quest’evento cambierà in maniera inaspettata la vita di chiunque si trovi all’interno della fusoliera (e aggiungo io: del mondo intero).