Le terre cinte dal mare si portano il vento addosso.
Come un fazzoletto annodato sotto al mento sopportano il maestrale a graffiare la faccia, lo scirocco che attorciglia gli ulivi e genuflette le palme. La Puglia appuntita e storta riceve il mare e raccoglie i venti in ceste di vimini sbiadite.
Sbatte il vento, sbatte le porte che chiudono le correnti e sbatte il grano e quello che ne resta dopo la spigolatura.
Lo raccolgono all’inizio del secolo scorso. A Putignano, le donne e gli uomini chiamati a giornata, raccolgono gli scarti, le spighe spezzate, lo sfoglio dell’avena, la pula inutile del grano. Lo portano alla macina e pagano il dazio, la tassa umiliante per macinare gli scarti che saranno il pane per i figli.
E succede che quel pane se lo mangiano i topi, succede che vogliono pagarli cinquanta centesimi a giornata, che con quei soldi non ci paghi manco un pacco di sale. Succede la rabbia. E il tredici maggio del millenovecentodue quasi la metà dei Putignanesi insorge, urla, vuole il Sindaco, vuole lavorare con una paga onesta. I braccianti buttano per strade le fave offerte per smorzare il rancore, i carabinieri hanno paura e arrestano Giovanni De Tommasi.
Il giorno seguente i contadini tornano alla carica, chiedono la liberazione del compagno, la fame e l’odio contorcono gli stomaci, i carabinieri a cavallo sono uno sfregio: gli scagliano sassi raccolti per strada, incendiano i casotti del dazio.
Margherita Pusterla ha le braccia forti di chi sta nei campi da trent’anni e le gambe sicure di chi ha sgravato sei figli. Vede un tenente scivolato a terra, vuole prendergli l’arma. Danno ordine di sparare e Margherita cade. Cade a terra e non muore.
Lascerà sei figli dopo qualche giorno, mentre un medico scrive sul referto, alla voce causa della morte, catarro intestinale.
E in paese neanche una targa. Ma la progenie di quei rivoluzionari scrive nel 2011 un pezzo per lei, che racconta la sua storia.
Dal paese di commercianti e coriandoli percorrendo il canale di Pirro, da cui però Pirro non passò mai, si scende fino al mare, l’Adriatico nervoso tra sabbia e scogli. Chi ha la pazienza del passo e la saggezza dell’attesa può cercare un luogo che tutti chiamano Cala Verde. Chi ha paura e una macchina bassa la deve lasciare a qualche centinaio di metri dal cartello del Comune di Monopoli che dice che non è una spiaggia adatta a persone diversamente abili. È un posto difficile Cala Verde, aspro e complicato come certa letteratura nordeuropea. Chi ha paura deve camminare a piedi e percorrere uno sterrato che imbianca qualunque cosa. Fare quel percorso senza auto prima di arrivare al mare regala il silenzio caldo e la voce della gazza ladra: le foglie sono bianche e le more pure hanno una patina di gesso che dà allo sguardo un ritorno fiabesco.
Lo scoglio è largo e infido a Cala Verde, protegge l’acqua più verde che ci sia. E fredda, perché dicono, che non si scaldi mai davvero. Il viandante marino selvaggio sceglierà allora lo scoglio e potrà a seconda che soffi il maestrale o lo scirocco sistemarsi in una conca o nell’altra. Il bagnante dell’acqua bassa troverà qui un pezzetto di sabbia grossolana rubato alla roccia. E il mirto e il pino marittimo e l’erba di San Pietro e il fico d’india a riversare nel mare tutto il verde che possono.
Qua gli ombrelloni non sono mai arrivati. I baretti, la musica, le creme solari non lo toccano questo mare. Ci viene chi vuole l’acqua e basta. E se ne torna a casa con le ossa rotte, ché sdraio non ne puoi mettere, e la pelle bruciata.
La pelle bruciata ce l’aveva pure la schiava araba che si buttò o fu buttata dalla torre della residenza pugliese degli Imperiali. È nota l’esistenza della serva nella forma bislacca e autentica di fantasma che ancora oggi soggiorna all’ultimo piano del castello di Francavilla Fontana. Nelle brevi e audaci conversazioni intrattenute coi vivi, la donna non avrebbe chiarito, forse per la discrezione esasperata che si domanda da sempre a una schiava, la precisa modalità del suo precipitare. Ma pare certo che abbia visitato la torre e l’intero castello per molto tempo anche quando la si poteva vedere tutta intera. Quando preparava il bagno alle donne degli Imperiali e quando veniva agguantata dalle mani dei maschi appena scesi da cavallo; che alla fine del 1700 non si perdeva più neanche il tempo del ponte levatoio: Michele Imperiali aveva fatto togliere pure quello, ché tanto gli Ottomani erano lontani e al posto dell’acqua ci avevano messo un giardino.
Il castello è essenziale e fermo. Nelle mattine fresche di primavera o di tarda estate non ci puoi credere che là dentro ci stanno almeno tre fantasmi. Il fossato si è riempito di aranci e plumbachi e il vento, in città, non soffia mai troppo forte. Al piano terra alzi la testa e trovi il cielo al centro di un quadrato. Le scale che portano al primo piano sono quelle delle grandi occasioni eppure qua la sobrietà è un dogma. Solo gli stipiti di porte e finestre accennano a un decoro.
Nella stanza del camino, di fatto, c’è solo il camino. Monumentale e bellissimo, sovraccarico di simboli di fertilità e vita, celebra un matrimonio che doveva funzionare per forza.
Nella stanza accanto ci hanno messo Andrea e Michele Imperiali. Ce li hanno messi là a spiare i viandanti, i curiosi, le spose che vogliono accasarsi al castello e i principi gli sussurrano alle orecchie passioni in genovese che le fanno svenire.
L’orologio sul ritratto di Michele Imperiali segna sempre le due. Sempre alle due il castello si accende dei suoi spettri.
Quando te ne vai ti acchiappa un retaggio cristiano: nella vecchia, minuscola cappella quel che resta di un mosaico racconta di un un tozzo di pane che un cane portava al lebbroso Rocco prima che fosse santo e sulla testa c’è un Gesù antico, che Dio a quei tempi non si disegnava.
A destra del palazzo sta impalata una casetta piccola. Una specie di vedetta, una postazione da guardiania: una stanza sola, con un portale di legno sproporzionato, decorato con elementi geometrici in pietra mezzi corrosi. Era il teatro degli Imperiali, un teatro al contrario, perché gli spettatori vi accedevano direttamente dal castello mentre gli attori entravano attraversando la grande porta esterna e ritrovandosi immediatamente sul palco. Al buio, di fronte a un pubblico piccolo ed elitario, fino a che non si accendevano le luci e la magia saturava l’aria.
Dai muri stretti del teatro degli Imperiali, se chiude gli occhi e percorre una sessantina di chilometri poco prima della festa di Sant’Antonio, prima che il sole si piazzi in mezzo all’estate, il viandante vedrà un altro buio e un’altra magia. Se poi sceglie un giorno in cui il vento se n’è andato, sentirà proprio la notte cadergli sulle spalle mentre attraversa a piedi il bosco di Sant’Antuono. Antuono sì, che si ricordi come si chiama, con rispetto il santo da queste parti. Che non si dimentichi che il bosco sta qua, in una terra di dialetti e accenti mai persi, al centro del tacco strappato allo Ionio e all’Adriatico. Nelle notti della tarda primavera qua vengono a cercarsi le lucciole in amore. Il fragno e la roverella, così come il leccio e il pino d’Aleppo fanno una cupola piegando le chiome sulla via delle luci. L’animo errante potrà allora sedersi in mezzo alla via e restare fermo. I maschi inizieranno il loro volo a mezz’aria, accendendo e spegnendo la pancia. Uno due tre cinquanta cinquecento in volo e a volte stanchi sul biancospino, sul cisto, sul pungitopo. Le femmine ferme ad aspettare con la fluorescenza fissa. A scegliere, forse. Insieme faranno un albero di Natale orizzontale, che striscia e si allunga per tutto il bosco, un’intermittenza verde lime che suona nello sguardo.
Potrà pure accadere che le femmine si facciano perle, smeraldi ingialliti e fantastici e vadano ad abbellire i capelli di chi ha saputo restare ferma a lungo. Potrà pure succedere che poggiando la testa al suolo le lucciole nascondano le stelle.
Chiunque dovrebbe concedere alla propria esistenza una notte di giugno in cui un popolo di coleotteri sfida il buio e va al ballo della vita. Quintino Mita lo ha fatto e ha saputo raccontarlo in un reportage immaginifico, di enorme valore artistico.
La notte, in Puglia, è pure il tempo dei santi e dei miracoli. A Bari l’alba di ogni tempo sorge tra il cinque e il sei dicembre quando il nero dei giorni qualunque si tinge dei colori delle vigilie e dei santi. Il Santo nel capoluogo pugliese è padre ed è vescovo, è sacerdote e va per mare, è vecchio e, nel Nord lontano, comanda renne e folletti.
San Nicola buonissimo e iracondo (secondo la tradizione durante il concilio di Nicea e in un momento d’impeto avrebbe preso a schiaffi Ario) che portò a Bari la colonna miracolosa. Secondo quanto ci racconta Antonio Beatillo, teorico, storico e gesuita di origini baresi, quel pilastro il vescovo Nicola pare lo avesse visto per la prima volta a Roma. E pare pure che appartenesse alla casa in demolizione di una donna di facili costumi. La colonna era bella quanto la donna e il vescovo Nicola la fece scivolare nel Tevere; ricomparve poi miracolosamente nelle acque di Myra e infine nel porto di Bari. Tuttavia dalla costa cittadina nessuno riusciva a prenderla, fino a che nella notte tra il trenta settembre e il primo ottobre milleottantanove le campane della nuova basilica svegliarono i cittadini, che, giunti nella chiesa scoprirono che San Nicola insieme a due angeli stava abbattendo il pilastro posto dall’abate Elia per installare finalmente la sua colonna. Quante ragazze senza marito hanno fatto il giro intorno alla colonna miracolosa la notte di San Nicola e a quante il vescovo ha poi trovato lo sposo! Oggi quel giro della speranza non si fa più, la colonna dei miracoli sta dietro una grata ma pure le ragazze lanciano biglietti piegati in sedici parti che attraversino le sbarre per toccare la storia dei desideri che si avverano.
Fuori dalla basilica il cielo prende il colore delle more amare e le stelle piano piano se ne vanno. La luce nasce dappertutto, sulla faccia della basilica, dalle luminarie a scrivere i contorni delle case vecchie, dalle fiaccole a mazzi, così vicine da bruciare i capelli, da arrossare le facce. L’odore è quello dell’inverno che accoglie, dell’olio che sfrigola e abbruna le popizze, della cioccolata calda versata coi mestoli dal pentolone delle streghe, dell’incenso buttato come vento profumato addosso al santo. L’aria umida del mese di dicembre alza le lenzuola stese alle finestre, solleva le sottane coi merletti delle edicole votive. E le ceste di vimini, appese ai muri di Bari vecchia, si stringono infreddolite ai passanti, ancora a raccogliere i venti, a ricevere l’acqua che soffia dal mare.