1/ Il sentimento che più di tutti gli altri galleggia sopra la soglia della mia coscienza, in questi primi giorni ad Atene, è la paura. Ho paura mentre cammino da sola lungo Momferatu, una strada residenziale poco illuminata dove è situato il mio appartamento. È l’una di notte, e mi trascino dietro la valigia, trasalendo ad ogni ombra che disegnano le foglie contro i muri dei palazzi altissimi, che qui chiamano polikatikies. Ho paura, mio malgrado, sul bus verso Gazi, mentre passando per quella sacca di malessere sociale che è Omonia mi rendo conto di essere l’unica donna bianca sul mezzo. Non vorrei, ma ho la tachicardia, e quando arrivo a destinazione devo sedermi su un muretto fuori dal locale dove si terrà il concerto per calmarmi. Al ritorno, lungo l’arteria principale di Leoforos Alexandras, ogni sagoma d’uomo che intravedo venirmi incontro è un potenziale assalitore. Dopo, al sicuro nella casa, penso: di che cosa ho paura, esattamente? Che mi derubino, che mi stuprino, che mi uccidano? Penso veramente a questi scenari da cronaca nera, mentre cammino veloce verso il luogo chiuso che mi permetterà di tirare il fiato? Cerco nella paura delle immagini, ma non trovo niente: è senza faccia.
Se poi rifaccio col pensiero il mio corpo nello spazio – ad Exarhia in pieno sole o a Monastiraki circondata da turisti – sento che la paura c’era anche in quei momenti, e c’è anche ora: non se n’è mai andata. È diversa, come disciolta o diffusa, un solletico, un formicolio. Sta sempre con me, in questi primi giorni ad Atene, e mi detta nuovi modi di muovere il corpo, ruvidi e nervosi. La chiave gira male nella porta; incespico; attraverso con il rosso. La città è difficile, mi gioca contro, oppone alla mia forza una sua forza uguale e contraria. I marciapiedi franano sotto le suole, le strisce pedonali sono sbiadite da millenni di sole, l’asfalto è spaccato, slabbrato, e in alcuni quartieri come Metaxurgìo disseminato di pipì e siringhe. Percepisco nei muscoli, anche nei momenti di stasi, quel grado minimo di tensione che precede il balzo. È così che immagino la vita degli animali più piccoli nell’aperta savana. La paura mi modella le spalle a forma di gruccia, mi tiene nella bocca e mi porta a spasso per Atene, come fanno le leonesse con i loro cuccioli quando li spostano dalla collottola. Controllo costantemente intorno a me per appuntarmi nella mente dei riferimenti, di modo da orientarmi nello spazio. Su Google maps, clicco “riposiziona”. Sono io quel puntino blu, sono io. Spesso, malgrado la mappa sotto gli occhi, mi ritrovo a fare dei giri inutili, perché quando la paura mi tiene la natura dei miei movimenti è lo spreco.
L’evoluzione dell’uomo da quadrupede a bipede lo ha reso una facile preda per gli animali selvaggi, facendolo diventare più lento e alto, dunque visibile. Non sono mai stata così consapevole della mia natura di bipede e del rischio che ne deriva. Non mi sono mai sentita così visibile e, allo stesso tempo, mentre la paura serpeggia nel traffico di questa città che è un gigantesco mostro policefalo, mi guardo dall’esterno con gli occhi gialli di Atene e mi vedo minuscola. La paura di questi giorni è uno strano miscuglio tra la contezza di esserci troppo e il dubbio di non esserci affatto. Sento i confini del mio corpo come le sagome tratteggiate lungo le figure di cartone; sento il mio corpo estraneo e diverso, nella sua composizione organica, da ciò che lo circonda – alberi pietre case -, e insieme lo percepisco poroso, permeabile. La realtà è uno spillo. “Fuori” è una minaccia perché punge e penetra (per questo ho più paura dei maschi); la paura non ha faccia né scenario, è paura di non essere più intera.
Così, invece di cercare inediti percorsi, mi sorprendo ad andar dietro con i piedi a vecchi luoghi, risalenti a un altro viaggio con un amico nel 2019. Come un fantasma ritraccio i passi della me di allora. Soltanto in quei posti già visitati – il kafenìo con la vetrata che si affaccia sulla strada, alle pendici di Strefi; la taverna che cucina pita giros ad Exarhia; le scalinate ripide e pluviali tra Gizi e Kipseli – mi sembra di riuscire a respirare. Al kafenìo, la cameriera che ho riconosciuto dal viaggio precedente mi parla di Cipro, sua isola natale e divisa; vorrei abbracciarla e piangere con lei, spiegarle tutto, trovare una parola definitiva e morbida in cui addormentarci insieme. Mi tasto l’avambraccio destro col sinistro e viceversa, mi prendo la pelle del collo tra pollice e indice e la liscio con i polpastrelli, avanti-indietro: pulsa. Ho paura, respiro, sono viva. Così comincia il viaggio.
2/ Il corpo e la città, enti geometrici fondamentali, come l’incudine e il martello li sento sempre nelle mani. Sono gli utensili essenziali di cui si compone il mio lavoro qui, sono due piani in dialogo costante tra di loro. Essere in mezzo, ανάμεσα, così si chiama la mia posizione. Il corpo, la città, si definiscono l’un l’altra nei legami, c’è differenza e identità: c’è relazione. Quello che chiamo io, questo soggetto-camminante da Pangrati a Gizi, altro non è che mosca intrappolata dentro il coro delle cose che si dicono tra loro. Da sempre, sottovoce. Σου σφυρίζω, dice una canzone, “fischio”, για να βγεις, “affinché tu esca fuori“, questo io chiedo alla città: un segno del corpo, uno spiraglio nella successione dei colori. Questo mio io di pellegrino è una puntina di sismografo, che scrive ciò che capta sulla schiena alla città, ed a sua volta sulla schiena viene scritto.
Il corpo di M. assomiglia alla città di Atene. Profondi, fatti di punti e rette entrambi, di sali-e-scendi, gli acuti della voce parlano delle colline, le ombre scure sulla faccia dicono delle rovine, ελιές in greco sono i nei, ma anche le olive. Li guardo entrambi – il corpo, la città – come si considerano certi vecchi tronchi d’albero, e mi chiedo quanti cerchi troverei lì dentro, se potessi per un attimo studiarne una sezione; sospetto che l’anagrafe sia uno strumento insufficiente per conoscere l’età reale, altre scienze sarebbero più consone, altri discorsi: geologia, filologia, archeologia, saperi che abbiano a che fare la stratificazione, con la diacronia. E sono mille le città sotto di me, sale e sprofonda Atene, cambia a seconda del quartiere: trovo una pancia piatta dentro il parco autogestito a Exarhia, passo sopra a ginocchi d’alberi e gomiti di asfalto, raccolgo tutto: la fronte crespa, il fil di vento che la appiana risalendo dal Pireo, il mulinello d’aria che fa attorno all’ombelico, togliendo dalla pelle e dalle strade la preoccupazione. Non si vede ma si sente da lontano, il mare: passa nelle orecchie e sui tombini, fa svolazzare i manifesti, muove i lenzuoli nei cortili e i peli nelle ascelle, s’infila nelle pieghe della gonna. Ci sono dei momenti – mentre le gambe circumnavigano il Licabetto, stringendolo in una spirale come durante il sesso quando è lento – in cui la mente è piena di pazzia, perde la cognizione della differenza e deve trattenersi da un’idea: leccare i muri dei palazzi con la sicurezza di sentire in bocca del sudore.
Il corpo di M. abita nella città da sempre, e ci ha lasciato delle tracce. Anche i ricordi sono cellule. Queste, le piste da seguire. Σου σφυρίζω για να βγεις, sussurro alle finestre, fischio agli alberi ed ai marciapiedi, perché so che in un punto, uno qualsiasi della città infestata – angolo, strada o piazza – può nascondersi il miracolo. Cammino sulla millefoglie temporale che è questa città, mi muovo con chirurgica attenzione, come calpestassi un vivo corpo e i suoi ricordi seminati nello spazio. Sento che è tutto ancora qui: dall’archeologia di una bambina, fino ai percorsi fatti ieri sera, rincasando; dalle rovine periclee, fino alle polikatikies novecentesche, costruite in fretta e senza ordine. Il corpo, la città: una vendemmia sopra gli acini del tempo materiale; poggio l’orecchio sulla pelle e ausculto le colline piene d’acqua. Le sento battere, e respirare. Athina, belle endormie qui attend son heure, Athènes, la voix de tes enfants t’appelle: che prenda finalmente la sua forma vera, Atene, che i piani si riallineino in una perfetta sovrapposizione. Combaciare è il verbo della santità, le strade srotolano il testo sparpagliato di un vangelo. All’angolo di un kafenìo, dal cuore marcio di un’arancia abbandonata, si manifesti dunque, σου σφυρίζω για να βγεις: buona novella, corpo, apparizione.
3/ Alla maniera di chi canta qui, la linea della voce fa un elettro-cardio-gramma. Se dicono η καρδιά nelle canzoni. ascolta bene: kappa è quasi g – γκ-αρδιά – gli sale il cuore nella voce. Fa “ggg” il cuore nella g-ola, vuole uscire, sbatte sul muro del palato. Alla maniera di chi canta qui la strada della voce sale e scende, fa il verso alle colline e mima le pendenze, dice η καρδιά μου, cuore mio, e “mou” è la forra in cui si ferma. C’è la città. Chi canta ha le colline nella voce, la linea corre lungo Ippokratus, rotola tra il Licabetto e Strefi, “ggg” è lo schianto che fa il cuore quando arrivato al fondo sbatte sul Filopappo.
4/ E ancora per le strade muoiono i ragazzi. Frotte di poliziotti a Kolonaki, nei quartieri ricchi, appoggiano sui marciapiedi scudi in plexiglas con sopra scritto ΑΣΤΥΝΟΜΙΑ: visto da un fianco il Licabetto è una testuggine di plastica, una navicella aliena ch’è precipitata lì quasi per caso, dallo spazio, e ci è rimasta. A troneggiare sulla piana, a minacciare Exarhia come un polipo, una grande massa tumorale. Dalle tendine dei palazzi, gli abitanti incapsulati osservano la scena. Attorno alla collina i poliziotti fanno pausa pranzo, masticano, scorrono Instagram sui cellulari: è una fantasmagoria di pane e carne sotto i denti, scherzi ed insulti, commenti, pacche sulle spalle: sono ventenni, come i ragazzi morti sulle spiagge, sulle epigrafi, pensano a Eleni, ad Agathì, a quella ragazza bionda che forse incontreranno a fine turno. Έλα τώρα, αγαπητέ μου, gioca anche tu alla lotteria, interpella la fortuna: finirai tra i sommersi o tra gli indenni, tra i figli di Abdullah o di Giannis?
5/ J. ha trent’anni. Viene da York, ma ha vissuto gli ultimi due anni e mezzo in America Latina. Studia il greco perché vuole parlarlo con sua nonna, originaria di Cipro: la trasmissione della lingua si è inspiegabilmente interrotta nel passaggio tra sua nonna e sua madre. Somewhere in between, si sono sfaldate le parole. Per recuperarle, J. compila tutti i giorni delle flashcards su un’app del cellulare. Fa il regista, e presto spera di poter cominciare a girare il suo primo lungometraggio. Me ne parla al tavolo di una taverna cretese a Exarhia. Nel film, una donna perde il marito ed eredita la fattoria di cui entrambi si occupavano, in un angolo sperduto della campagna inglese. Lei vorrebbe continuare da sola. La va a trovare, per dissuaderla, la sorella del marito morto. Alla fine del film, però, la moglie e la sorella del marito decidono di gestire insieme la fattoria. Attorno al tavolo, sussurriamo: Pasolini (cosa copiare e cosa evitare nel rapporto con il popolo?), Céline Sciamma (i maschi, fuori!), La Belle Saison di Catherine Corsini (quando Delphine spiega a Carole che la terra, nel Sud e nel Nord della Francia, fa un diverso rumore sotto i piedi). J. è soprattutto preoccupato dal problema della legittimazione. Ripete costantemente «But, you know, am I entitled to…?», è diventato quasi un intercalare nel ritmo della sua conversazione. Come può un uomo di trent’anni cresciuto in un contesto urbano e borghese raccontare di una donna di quaranta, che vive e lavora in campagna? Come può un intellettuale mingherlino raccontare la fatica del lavoro manuale, in cui il corpo è tanto più efficace quanto più è grosso?
«Am I entitled?». La scuola di greco è una porzione di spazio misto ma sicuro. P. ha cinquant’anni e ne dimostra meno, è portoghese ma vive a Berlino, ha un marito greco e un figlio di quattordici anni. Dove li ha lasciati? A Berlino. Gestiscono una Bäckerei di famiglia con specialità portoghesi e greche, mentre lei prova a imparare la lingua del marito perché è diventata, con gli anni, anche la lingua del figlio. I due figli di A. e S., invece, frequentano la stessa scuola internazionale qui ad Atene. È così che si sono incontrate. Vivono entrambe a Halandri, un quartiere periferico ma borghese. S. è egiziana, ha vissuto in Egitto e in Inghilterra. Non porta il velo, ma ha uno scialle fissato sui capelli con le forcine e una polo della Tommy Hilfiger. Parla arabo e inglese. Si è trasferita ad Atene per gestire un nuovo ramo della sua azienda, una casa editrice per ragazzi. A. è messicana, viveva a Los Angeles. Suo marito è greco, si sono trasferiti insieme ad Atene, il figlio parla tre lingue. Organizziamo un esperimento per capire quale sia la prevalente. A. torna a casa e chiede al figlio di contare da 1 a 10 nella mente, poi indaga: «In quale lingua pensi ai numeri, amore?».
«Am I entitled?». La scuola è una porzione di spazio misto ma sicuro. Ci sono altri bambini. Premono fuori dal testo, fuori dalla scuola. A volte passano, come fa il vento, nelle conversazioni tra di noi, durante le pause. Qualcuno dice: la pandemia e l’istituzione del green pass creano problemi a soggettività già emarginate da precedenti situazioni di clandestinità, come minoranze, famiglie migranti, persone transessuali. Qualcuno chiede se è finito il caffè o ce n’è ancora. Suona la campanella e si ritorna in classe.
«Am I entitled?». Ci sono altri bambini, premono fuori dal testo e fuori dalla scuola. Incontro Daniel alla stazione della metro Sigru Fix. È una domenica bollente, partecipiamo al fuggifuggi generale, una massa di persone esce da Atene riversandosi verso il mare. Daniel mi porta con la macchina in una spiaggia vicino al Pireo. È scozzese, ma lavora ad Atene per Save the Children. Ha un figlio di sette anni che si imbarazza quando il padre prova a parlare greco in pubblico. Mentre camminiamo sulle rocce che declinano verso l’acqua, mi dice che ha appena finito di lavorare ad un rapporto sui figli dei rifugiati in Grecia: meno di un terzo di loro ha accesso all’istruzione, e meno del 15% dei bambini nei campi frequenta una scuola. In risposta, gli accenno ad un recente scandalo: Bogdanos, parlamentare greco di estrema destra e giornalista, ha condiviso sui social un articolo con una lista di bambini che frequentano un asilo di Atene, facendo notare come la grande maggioranza di loro abbia origini straniere, e soltanto due in classe abbiano cognomi greci. Eppure, dopo, io prendo il sole per tre ore sulle rocce, mentre Daniel legge un libro di Octavia Butler.
«Am I entitled?». Ci sono altri bambini, premono fuori dal testo, fuori dalla scuola che è uno spazio misto ma sicuro: dove sono? Da quando è stato eletto, nel 2019, il primo ministro Mitsotakis, leader del partito conservatore Nea Dimokratia, ha iniziato a fare la guerra ad Exarhia. Nel quartiere anarchico da cui nel ’73 è partita la rivolta studentesca del Politecnico contro la dittatura dei colonnelli, fino a qualche anno fa c’erano numerose case occupate, che offrivano rifugio e servizi ai migranti, tra cui anche istruzione per i più piccoli. Moltissime sono state sgomberate e chiuse. Prima, la polizia e gli abitanti avevano un accordo: la polizia se ne restava ai bordi, e la popolazione si autogestiva, tranne nei casi di proteste o disordini. Il quartiere ora è militarizzato, aumentano le case in affitto con Air b&b, anche se i muri protestano: «More migrants, less tourists». Già nel 2017, Mitsotakis lo aveva promesso in campagna elettorale: «Θα καθαρίσω τα Εξάρχεια», “ripulirò Exarhia”. La radice del verbo pulire è la stessa della parola «catarsi». Che cosa vuol dire “ripulire” un quartiere? Quando si lava un pavimento, la misura dello sporco sta nella differenza dell’acqua del secchio prima e dopo, trasparente e poi marrone, una volta passato e strizzato lo straccio. C’è un proverbio che dice “non buttare via il bambino con l’acqua sporca”.
«Am I entitled?». La scuola di greco è una porzione di spazio misto ma sicuro. Ci sono altri bambini. Premono fuori dal testo, fuori dalla scuola. Dov’è andato a finire lo sporco? Dove sono ora, quei bambini? Somewhere in between, si sono sfaldate le parole. «In quale lingua pensi ai numeri, amore?».
6/ Forse così devi restare, un’albicocca semiaperta sul bordo della mia partenza. Il senso dell’Acropoli è nella distanza, e oggi è così dolce perché non si mangia. Scendiamo verso il porto come il cibo nell’esofago, una folla di fantasmi canta «Elefteria!» a ritmo di rebetiko, come nel ‘71 al funerale di Seferis. I fili di cicoria annegano nell’olio, mentre cerchiamo il modo giusto di sederci dentro alla città. Ci sono troppe cose, strati, non facciamo che inciampare. Scacciamo con le mani il dubbio di non essere, qui, benvenuti. Ho una parola nuova, oggi, ντρέπομαι (mi vergogno), la provo a lungo sul palato. Dimmi, perché vuoi imparare il greco? Perché mia madre, mio marito, il dottorato… Snoccioliamo miseri, quasi scusandoci, le nostre variazioni sull’amore. I marciapiedi e i muri ci ricordano di come spesso l’amore rassomigli alla violenza. Forse così devo restare, ferma nel centro del problema, attenta. Uno dei tanti alberi lungo il viale. Ripeti: abitare è un esercizio di pazienza.