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#Belleville – Laventicinquesima ora: i vincitori

Tra il 4 e il 5 dicembre 2021 si è tenuta Laventicinquesimaora, il premio letterario della Scuola Belleville dedicato ai racconti brevi. 25 ore per scrivere un racconto non più lungo di 3600 battute.
La traccia di questa settima edizione era: “La fine è nota.
Scrivete un racconto che cominci dal finale e finisca con l’inizio”.
Ieri, venerdì 28 gennaio, in diretta streaming, sono stati proclamati i vincitori selezionati dalla giuria, composta da Francesca Cristoffanini (direttrice Belleville), Giulia Caminito, Giacomo Raccis e Michele Turazzi.

Pubblichiamo di seguito, come tradizione, i tre racconti vincitori (dal primo al terzo).


Piena
di Sabrina Quaranta

È piena. Si alza dal divano e cammina all’indietro fino alla cucina. Prende la tazza sporca sul tavolo e la porta alla bocca. La colma fino all’orlo con la poltiglia di latte e biscotti sbriciolati che le risale dall’esofago e le sgorga dalle labbra. Infila le dita. Estrae manciate di frammenti che si ricompongono nel suo pugno fino a formare dei dischi al cacao con faccine sorridenti di glassa bianca. Inclina il cartone del latte sulla tazza. Lo sente farsi più pesante mentre il liquido torna all’interno. La bocca ora è piena di carne masticata che si asciuga sulla lingua e prende a poco a poco la forma di una fetta di prosciutto. La tira fuori e la distende nella vaschetta. Ripete per dodici volte. Adagia le fette, ognuna di poco sovrapposta alla precedente, con il grasso sempre sul lato sinistro. Le guance si gonfiano di ravioli crudi il cui ripieno viscido è appena tornato nel suo guscio di pasta. Li espelle cinque o sei alla volta. Ha di nuovo fame. Gamberetti dolci e flaccidi raggiungono i suoi denti. Il loro gusto si separa a poco a poco da quello del pane, della salsa cocktail e delle fette di lattuga appassita. Tiene tra le dita il primo boccone di tramezzino e se lo porta meccanicamente alla bocca, attirando come con un magnete tutti gli altri pezzi irregolari del triangolo di pane molliccio ripieno. Lo rimette nella sua confezione. Quando la chiude, un sottile strato di condensa si forma sulla plastica.

Ripone il cibo nel sacchetto del supermercato, indietreggia verso la porta di casa, sale in auto e si mette in strada. Intorno i bambini procedono come gamberi verso il cancello della scuola e persone con cani al guinzaglio aprono sui marciapiedi sacchetti estratti dalla spazzatura.

Guida nel traffico invertito fino al supermercato. Ha la sensazione che i succhi gastrici le scioglieranno lo stomaco se non mangia subito. Entra dall’uscita e va alla cassa, ripone i prodotti sullo scivolo. La donna grassa e sorridente li passa sul lettore e li rimette sul nastro, facendo diminuire l’importo sul display. Le persone in fila tornano a disperdersi tra le corsie. Si unisce a loro. Mette a posto i biscotti al cacao. La signora con il bambino seduto nel carrello le chiede scusa prima di urtarla accidentalmente. Rimette il tubo di patatine nella fila di quelli arancione-paprika. Analizza tutti i gusti disponibili e immagina, famelica, che effetto potrebbero creare sulla lingua. Al banco frigo, lascia il pacco di pasta fresca insieme agli altri e i tramezzini in corrispondenza del cartello che grida: offerta!

Torna all’entrata. Risale in auto. Lo stomaco ribolle e brontola. Scivola all’indietro nel poco traffico di metà pomeriggio fino ad arrivare davanti al suo ufficio. Timbra il cartellino in uscita. Dice: a domani! ai suoi colleghi. Preme ok e il computer le chiede se è sicura di voler spegnere. Fissa il suo desktop con il logo aziendale. Manca solo un minuto alla fine del turno. Elenca nella sua testa le cose che sceglierà tra gli scaffali, rassicurata che siano le stesse di sempre. Coccola l’idea di fare una spesa veloce e poi mangiare tutto fino a sentirsi esplodere. Il cibo è l’unico pensiero che ha. Il suo stomaco si contrae. È la terza volta questa settimana. Prova a dirsi di non cascarci, non di nuovo, ma è solo formalità. Deve riempirsi.

È vuota.


Palazzetti neri
di Carmen De Nisi

Il fischio mi rimbomba nelle orecchie, anche se non c’è più e ora l’uomo si è messo a urlare agli altri di guardare. Io mi precipito alla porta finestra e premo in fretta il bottone che srotola la tapparella, lo schiaccio finché non rimane aperta neanche la più piccola fessura, e me ne sto appoggiata con la fronte al muro in attesa che il battito mi torni regolare.

L’estate a casa dei miei genitori si trascina una giornata dopo l’altra nella penombra delle camere da letto. Mia madre se ne va urlando a chiunque tenti di far entrare un po’ di luce Abbassa quella tapparella, e noi obbediamo rintanandoci nel buio. Affiniamo i sensi: il tatto per scegliere i vestiti dall’armadio, il gusto per riconoscere i cibi che ci serve nei piatti, l’udito per capire a chi appartiene il passo.

Da qualche mese mia madre va urlando anche Abbassa le tapparelle perché ti vedono, riferendosi al grosso cantiere comparso di fronte casa nostra. Non so da quanto sia lì, ho passato l’inverno in un’altra casa e quando sono tornata il grosso pezzo di terreno innevato che avevo fotografato il giorno dell’Epifania era occupato da tre palazzetti che l’architetto, lo stesso che ha costruito casa nostra, ha fatto dipingere tutti di nero, tanto che di notte sembra che non esistano. Mia madre dice che da quella distanza si vede tutto e che quando verranno ad abitarci bisognerà sempre tenere le tende chiuse, anche d’inverno e con il sole. Dice pure che ha visto gli operai intenti a farsi i fatti nostri.

Qualche volta apro la tapparella solo un po’, quanto basta per guardare attraverso le fessure e vedere chi si è messo a intonare una vecchia canzone, chi litiga, chi lancia bestemmie, e mai, mai, scopro che qualcuno di loro sta guardando in direzione di casa nostra. Così mi convinco che mia madre abbia solo trovato una scusa in più per tenerci tutti al buio. Mia sorella dice che lo fa per ripararci dal calore, le ricordo che bisogna convincerla anche quando dopo le sei comincia a diffondersi la frescura, ma lei risponde che non è sempre così, ci sono giorni in cui all’arrivo del buio fuori mia madre vaga per casa e, una stanza per volta, tira su la tapparella di qualche centimetro e dice Così entra un po’ di vento. Però da quando sono qui non gliel’ho mai visto fare, e se ci provo io, dovunque sia e qualunque cosa stia facendo, le sento urlare Abbassa quella tapparella che ti vedono.

È per capire se sia vero che aspetto di essere in casa da sola, chiudo la porta della mia camera, alzo la tapparella fino al punto più alto della porta finestra e mi piazzo in piedi davanti alla luce. Mi prendo un momento per osservare la situazione, appuro che quella distanza di cui parla mia madre non è poi così ravvicinata, poi decido di procedere. Prima tolgo la maglietta, la butto a terra, la sposto con un piede, poi passo ai pantaloncini. Fisso in direzione di quella che prima o poi sarà l’entrata principale del palazzo, dove un gruppetto di operai è intento a scartare mattoni malridotti, e aspetto che qualcuno alzi gli occhi e mi noti, ma non succede. Allora continuo, sfilo le spalline del reggiseno, una alla volta, poi con la mano destra cerco il gancetto in mezzo alle scapole mentre con il braccio sinistro mi nascondo i seni per non scoprirli d’improvviso. Distolgo lo sguardo dal gruppetto all’ingresso e mi guardo i piedi per un attimo, indecisa se continuare o fermarmi lì, è allora che arriva il fischio, uno di quelli che ti lascia l’eco nei timpani, e vedo l’uomo sul balcone del secondo piano appoggiato allo scheletro del parapetto intento a godersi lo spettacolo. Mi avrà vista?


Quando fuma la campagna
di Emanuela Dell’Osso

Il nonno diceva che la campagna fuma solo in agosto, col solleone. Ma non era vero, anche la mattina del sei luglio del 1982 fumò. Gli spari esplosero che ancora dormivo.

Ci aveva messo solo un paio di minuti, Michele. Era ritornato indietro, scusandosi con Mario e le due donne per aver dimenticato qualcosa nel motocarro, parcheggiato una ventina di metri prima. Aveva spostato il telo azzurro, aveva cercato sotto gli attrezzi, cercato ancora, poi aveva afferrato il fucile da caccia. Si era diretto verso gli altri pestando il passo. Aveva imbracciato e aveva sparato due colpi.

A Paola mancò il fiato per qualche secondo. Rimase immobile, forse per la prima volta in tutta la vita. Spezzi pure l’aria, le diceva sempre suo marito Mario osservando i movimenti rapidi e nervosi con cui stirava, passava la salsa di pomodoro, cuciva, si sistemava la gonna, amava.

Il fumo saliva dalla canna del fucile. Paola si guardò le scarpe impolverate. Donna Lisa era lì a terra, gli occhi sbarrati, i capelli castani legati sotto il fazzoletto e i palmi rivolti in su. Era la prima volta che una parte del suo corpo guardava verso l’alto. Era nata blu, si era sposata non più giovane con Michele Vicita e nell’Ape occupava uno spazio esiguo. Si stringeva sul sedile, si stringeva sotto il tettuccio, tra la portiera e il volante. Le altre donne accennavano il buongiorno alzando il mento, lei lo abbassava.

Accanto a donna Lisa, anche Mario era a terra, senza vita. Il viso abbronzato di muratore, le spalle larghe. Mario svegliati, gli aveva detto Paola quella mattina, ché dobbiamo andare a Cosenza dai miei genitori. Erano usciti che il sole brillava sul tettuccio della loro Simca. Saranno state le sei e mezza. Nella piazza del paese c’erano due galline e tre signore in fila, dirette al mercato di San Francesco. Era lì che la Simca aveva incrociato l’autocarro di Michele Vicita.

«E proprio a voi cercavo, don Mario».
«Buongiorno! A me cercavate?».
«Eh! Venite, vi voglio portare al terreno, tengo bisogno di nu riggett».

Il riggett, mi spiegò il nonno, era una piccola costruzione in mattoni, un riparo. Dall’orto se ne potevano contare sei o sette in tutta la campagna. Cosa o da cosa riparasse, non era sempre chiaro.

«E va bene, don Miche’! Vi seguiamo!», rispose Mario.
«Veramente, a Cosenza dobbiamo andare…», sussurrò Paola al marito.

Attraversarono il paese, svoltarono alle Poste, presero la salita del lavatoio e proseguirono verso la campagna, dove la collina si ingrossava, pronunciando i fianchi.

Arrivarono all’appezzamento. Scesero. La polvere si alzava dai cumuli dorati. La polvere a volte sporca a volte lava, diceva il nonno.

«Di qua, venite, venite!», incitò Michele a passo svelto.

Mario teneva la mano alzata per ripararsi dal sole. Dietro, l’agile moglie Paola e a fianco, donna Lisa, la testa bassa e le guance strette nel fazzoletto.

«E non ci vuole molto, signora mia», disse Michele sorridendo a Paola «portate pazienza».

Porta pazienza, Paola, che ti voglio bene, le aveva detto un giorno a scuola. Erano nella stessa classe. Lo stesso sorriso, pieno e fin troppo insistente, la aspettava fuori dal portone per accompagnarla a casa, le recapitava lunghe lettere senza punteggiatura e cercava spesso di abbracciarla.

Aveva sorriso anche dopo aver sparato, prima di piegarsi sulle ginocchia e lasciar rotolare l’arma. Nessun riparo venne mai costruito su quel terreno e se in paese si parlò di quel fatto, lo si fece sottovoce.

La campagna di campi d’oro e di sabbia quando fumava prendeva il colore del buio.


L’immagine di copertina è di Massimo Cotugno.