«Essenziale è comprare molti libri che non si leggono subito. Poi, a distanza di un anno, o di due anni, o di cinque, dieci, venti, trenta, quaranta, potrà venire il momento in cui si penserà di aver bisogno esattamente di quel libro – e magari lo si troverà in uno scaffale poco frequentato della propria biblioteca» (Calasso, Come ordinare una biblioteca). Trascrivendo questa citazione pensavo che una delle sensazioni di vacanza più pervasiva, pur finendo una tesi, coincise con i mesi in cui un’amica partita per la Patagonia mi affidò casa. Era una mansardina con un balcone, un acero, un gatto saltuario e un’intera biblioteca che non mi somigliava, che non avevo, né avrei, scelto così.
La redazione della balena vi accompagna, e vi invita, per scaffali poco frequentati. Sceglie per voi otto titoli che non vi assomigliano (o forse sì), da inseguire in bookcrossing defilati, librerie fidate o biblioteche più o meno in prestito.
Piero Jahier, Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi [Giovanni Boccardo]
Come si può burocratizzare persino l’azione più semplice e domestica come il taglio di una fetta di pane? Per prima cosa bisogna rallentarla, complicarla dividendola in dieci operazioni distinte – dieci tagli parziali, ciascuno con una sua importanza individuale. Ma questo è solo l’inizio: l’intero processo lo spiega Jahier nella prefazione – che, dato il contesto, è una lettera accompagnatoria – di questo suo piccolo capolavoro: l’inchiesta sulla vita e sul carattere di Gino Bianchi, esemplare tipico di homo burocraticus italiano, formidabile rappresentazione d’impiegato medio (cinquantasei anni prima di Fantozzi). Alla sua uscita nel 1915 per la “Libreria della Voce”, l’opera non venne però compresa (la recensione dell’altro vociano Boine sulla “Riviera ligure” fu una lapidaria stroncatura). Forse perché ci si aspettava che un soggetto del genere andasse trattato con tono satirico o umoristico, come già avevano fatto Courteline e Bersezio; mentre Jahier lo porta nel campo a lui proprio: quello della prosa poetica. Già: cosa c’è di più lontano dalla poesia, si direbbe, delle vicende e del linguaggio delle pubbliche amministrazioni? Eppure, l’esperimento funziona. Perché il linguaggio burocratico e la poesia, in realtà, alcune cose in comune le hanno. Anzitutto: possono andare a capo anche senza aver chiuso il periodo.
Loriano Macchiavelli, La rosa e il suo doppio (1987) [Andrea Brondino]
“Caro Umberto Eco, ho letto con molta attenzione il suo romanzo «Il nome della rosa», e sono giunto alla conclusione che l’assassino indicato da Lei […] non è il vero responsabile”. Così si legge sulla quarta di copertina di La rosa e il suo doppio di Loriano Macchiavelli. Un (altro) giallo, quindi: un palinsesto del best-seller echiano, dove i protagonisti sono nientemeno che Sean Connery e Christian Slater (gli attori che interpretano, rispettivamente, Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk nel film tratto nel 1986 da Il nome della rosa). Non sono convinti che l’autore della serie di omicidi compiuti nell’abbazia sia effettivamente il colpevole individuato nel libro. Contro il regista, contro Eco, i due attori di Hollywood divengono gli ossessionati protagonisti di un’indagine filologica. A caccia di possibili indizi nascosti tra le pagine del romanzo, scoprono così (o credono di scoprire?) le tracce di un conturbante illusionismo letterario messo in atto dal narratore. Leggendo Il nome della rosa sulla scorta dell’Assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie, Machiavelli imbastisce una narrazione ‘poliziesca’ divertente e leggera. La rosa e il suo doppio sarebbe solo, per quanto acuto, divertissement, se non ci ricordasse che si può fare critica letteraria anche nelle pagine di un romanzo. Una delle testimonianze più giocosamente serie della vitalità di un’opera, Il nome della rosa, che da buona “macchina per generare interpretazioni” non cessa di suscitare una quantità apparentemente inesauribile di reazioni ermeneutiche, riscritture, riletture non convenzionali.
Max David, Volapiè (1954) [Massimiliano Cappello]
Caso curioso, quello del giornalista Max David. Questo colleghissimo di Montanelli nelle (come sempre, d’altronde) incommentabili campagne militari tricolori, che fu reporter filo-fascista nell’Etiopia dei gas e delle spose-bimbe nel ’35 e filo-franchista nel ’37 – quando Mussolini mise le armi in mano agli ultimi d’Italia perché uccidessero altri poveri come loro: ma quegli altri erano le Brigate Internazionali –, cadde aficionado per la tauromachia proprio in quella Spagna in cui, dal 1943, si dice fu in esilio volontario. Certo, molte biografie trascurano un dettaglio: che forse le sue origini ebraiche non gli davano poi questi gran motivi di accettare a cuor leggero le proposte di rimpatrio al soldo di Salò e Gestapo. La tauromachia, dunque; e un libro cult uscito nel ’54 per Bietti (premio Bagutta ’56), ora di recente ristampa per la milanese Settecolori. Nella prospettiva di una certa utopia politica, parlare di lotta col toro non solo è retrivo, ma assume le fattezze di vero e proprio sintomo di una società da eradicare: mito comunitario delle origini (quella ‘spagnolità’ o ‘italianità’ che tanto stona, oggi, alle orecchie di chi non abbia che un’infanzia o una lingua, come ‘sola patria’), culto dell’eroe, religione della morte, primato del sacro. Un vero e proprio stigma di quel pensiero anti-moderno che tanto torbidume oggi diffonde attorno a noi. Eppure, Volapiè è anche uno splendido documento di quell’estetica del perduto in quanto tale – per il quale, insomma, è proibito o inutile piangere – che sempre più dovrebbe ispirarci a guardare oltre quanto ci repelle dei mondi che furono possibili per cogliervi la pura possibilità di un altro mondo. Non si tratta allora di cantare le lodi di un tempo passato, di maschi più valorosi, di comunità più umane; ma di affondare – è il caso di dirlo – questo libro enciclopedico nel cuore delle sue contraddizioni.
Patrizia Vicinelli, à,a. A, (1967) [Silvia Fantini]
Molti sostengono che il 2020 sia stato l’anno dei podcast, altrettanti lo dicono del 2021. Che ne siate vecchi amanti o neofiti modaioli, gelosi custodi delle Fiabe sonore o pii devoti di Ad alta voce, concorderete su un punto: alla fine, ciò che ascoltiamo lo ricordiamo con il tono, il timbro, la cadenza della voce che le l’ha raccontato. Ecco, ora trasferite la memoria uditiva negli anni Sessanta. Nel 1967 usciva in libro e in vinile la raccolta poetica d’esordio della poeta bolognese Patrizia Vicinelli dal titolo à, a. A,: il libro edito da Lerici, il vinile pubblicato dalla rivista genovese d’arte «Marcatrè». Due anni prima, il regista Alberto Grifi aveva girato il film-documentario In viaggio con Patrizia (https://tinyurl.com/2rr6snc5), dove la tromba di Paolo Fresu si intrecciava alla voce di Vicinelli. Se la ascoltate, insomma, non potete più fare a meno di rievocarla ogniqualvolta osserviate o leggiate à, a. A,. Sì, in certi casi potrete solo osservare, perché la raccolta comprende testi sperimentali non solo lineari o dattilo- e manoscritti, ma anche verbo-visivi. Se vorrete, affronterete il libro silenziosamente e saggerete la tenuta della vostra idea di poesia lungo i lacerti biografici e linguistici, le tracce letterarie e civili. Ma potrete anche assorbire la chiave di lettura offerta da Vicinelli quando interpreta il testo come fosse una partitura musicale, aumentandone la capacità multi-significante. I partecipanti al convegno spezzino del Gruppo 63 rimasero stupiti dalle sue doti vocali e performative. Così avevano fatto Emilio Villa e Adriano Spatola, i suoi maestri. Così avrebbe sempre fatto il suo pubblico. E può farlo ancora oggi, magari anche visitando il Museo Uomo Ambiente di Bazzano (PR), paese di Corrado Costa, che custodisce l’archivio audio-visivo di Daniela Rossi (https://www.museouomo-ambiente.it/archivio-video-poesia).
Sandra Petrignani, Il catalogo dei giocattoli (1988) [Michele Farina]
Sebbene Petrignani sia una nota autrice contemporanea ancora nel pieno della sua attività – la sua ultima fatica, Leggere gli uomini (Neri Pozza), è da poco in libreria –, credo che Il catalogo dei giocattoli, pubblicato la prima volta da Theoria nel 1988, meriti ancora attenzione e nuovi lettori. Manganelli ne scrisse, Celati ne inserì alcuni brani nei feltrinelliani Narratori delle riserve. Come accade per alcuni dei giocattoli descritti e “schedati” nel libro con spirito ludico e serietà scientifica, quest’opera ci osserva appartata da un ipotetico scaffale a ricordarci anni in cui la sperimentazione in prosa poteva con più libertà tracciare i propri perimetri anche fuori dai confini del romanzo. Petrignani realizza con questo libro un possibile catalogo alfabetico – nel quale, dunque, la “Bicicletta” segue l’“Altalena” e precede il “Carillon” – dove l’esattezza del gesto scrittorio è in grado di offrire a chi legge un distillato in cui precipitano diverse possibilità di infanzia, non solo quella di chi scrive. Il libro risulta tanto più vivido e stimolante quanto più l’autrice evita lo scacco nostalgico incrociando con equilibrio descrizione, narrazione e riflessione, quando cioè i singoli giocattoli non sono solamente risvegliati da un atto rammemorante, ma investiti nuovamente da un’intera sensibilità. Per spendere un aggettivo adatto a certo Calvino o alla miglior Ceresa, Il catalogo dei giocattoli è un libro gioiosamente eidetico: altre qualifiche non renderebbero completa giustizia a quest’opera singolare, intramontabile come certi giochi.
Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città (1944) [Lucilla Lijoi]
Immaginatevi Alberto Savinio, scrittore, pittore, compositore e “funambolo” del Novecento, con uno stetoscopio al collo. Ce l’avete? Ora immaginatevelo mentre, pervaso di stendhaliano entusiasmo e di instancabile acribia, si aggira estasiato tra i quartieri di una Milano d’antan, auscultata e raccontata con la perizia di un medico e il dolce abbandono dell’impenitente flâneur: ed ecco a voi Ascolto il tuo cuore, città un “baedeker d’amore” che l’autore dedica alla metropoli che lo accoglie – con seducente grazia e operosa eleganza – ogni volta che il fagocitante travertino di Roma lo soffoca e lo paralizza. Non aspettatevi un convenzionale “ritratto di città”, ma preparatevi a un’esplorazione policentrica e sapientemente divagante, che nel giro di poche pagine vi trasporterà dal palazzo della Montecatini (i cui “visceri” restano visibili come “la macchina dell’orologio sotto la cassa trasparente”) alla Biblioteca Ambrosiana (un “tempietto” che “ricorda quei quadri di Giorgio De Chirico che figurano dei templi posati all’interno delle camere”); dalla confetteria del Cova (dove “Giacomo Puccini chiedeva al cameriere del petì burr da inzuppare nel suo cappuccino”) alla Sala Dante (una sala pensata solo “per leggere Dante”) dell’ormai scomparso Museo Poldi Pezzoli. Ascolto il tuo cuore, città è un testo palinsesto, in cui Savinio passeggia tra la trama e l’ordito del tessuto urbano con quella ponderata superficialità che è la cifra della sua scrittura più autentica e felice: ogni pagina è insieme una fotografia e uno scavo a cielo aperto, una lettura in sincronia e in diacronia dello spazio antropico e un divertissement onirico e surreale, in cui gli echi della storia si confondono con le conversazioni che l’autore intrattiene con le statue milanesi (gli “statuomini”), vere e proprie protagoniste di questo libro metropolitano (l’Uomo di Pietra di Corso Vittorio Emanuele, il Napoleone di Canova nel cortile di Brera, il Parini di Piazza Cordusio). Orientandosi e perdendosi tra le pieghe di questa cartina eterodossa, il lettore potrà riscrivere con gli occhi di Savinio la topografia di una città in gran parte dimenticata, se non addirittura cancellata dalla Storia: sul finale del libro, infatti, grava l’ombra pesante della guerra. Lo apprendiamo dalle “Pagine aggiunte”, collocate da Savinio in clausola al testo (quando il libro era già pronto per essere licenziato) e datate 27 agosto 1943: undici giorni prima Milano era stata bombardata dagli inglesi, “insudiciata”, “instupidita”, “intorbidata”, “intenebrata” e “immiserita” dalla morte, che l’aveva resa irriconoscibile. Ri-letto in questa prospettiva, allora, Ascolto il tuo cuore il tuo cuore, città non si configura solo come un’amorosa indagine “stetoscopica”, ma anche come l’estrema e involontaria mappatura di una geografia che sopravvive solo nella fantasia di chi l’ha esperita.
Fabrizio Puccinelli, Il Supplente (1972) [Cecilia Monina]
Opera prima di Fabrizio Puccinelli, nonché unico romanzo pubblicato in vita, Il Supplente compare per la prima volta nel 1972 nella storica collana La biblioteca blu, diretta da Giovanni Mariotti e curata da Franco Maria Ricci. La storia è, apparentemente, quella di un insegnante, lucchese come chi scrive, mandato a fare scuola nei paesi dell’Appennino toscoemiliano. Lontano dalla città e ai margini della provincia, il supplente deve continuamente scontrarsi con l’assenza: le classi si svuotano alla prima nevicata, da quelle parti la politica assume le sembianze di «un fantasma di cui ragionare nelle lunghe veglie invernali» ed è nella dolorosa solitudine montana che il protagonista ha la sensazione d’essere sprofondato in un altro tempo. Ma Il Supplente è in realtà soprattutto un romanzo sulla scrittura, sul suo compito e sulla sua assenza nell’ambiente scolastico, sul suo rapporto privilegiato con la letteratura orale e sulla possibilità di annodare storie nominando quello che sembra mancare. «Perché si scrive o si legge una storia? Perché la si racconta o la si ascolta? Di dove viene il suo fascino e la diffidenza che, nello stesso tempo, proviamo?», recita la traccia che il supplente assegna ai suoi studenti per distrarli, e per trovare una risposta. Quando raccontiamo, si chiederà retorico il supplente più avanti, la nostra non è in fondo la ripetizione personale «di una festa più lontana»? Così Puccinelli rilancia la palla al lettore, che possa trovare nelle sue pagine il senso del suo passaggio e la radice, più profonda, del suo scrivere.
Beniamino Dal Fabbro, etaoin (1969) [Marcello Sessa]
Quello che a prima battuta appare un titolo misterioso e insignificante, può rivelarsi la chiave di volta che riesce a ribaltare le convenzioni del romanzo stesso. “etaoin” è anzitutto un ammasso di lettere, e in secondo luogo un joyciano «poliedro di scrittura» che in tipografia serve a fare le prove di stampa (ha principalmente valore d’uso e ricezione visiva); per Beniamino Dal Fabbro – erudito musicologo, finissimo traduttore di poesia francese, fulminante prosatore dimenticato –, invece, «etaoin» è il fonema che assurge paradossalmente a significare il nulla, se costantemente reiterato in uno scheletro narrativo disturbando dialoghi senza senso. Sono quelli di un aspirante scrittore, che arriva a pubblicare soltanto grazie all’incontro con una surreale figura di linotipista; peregrinano in una Milano che pare il rovescio grottesco di quella piccoloborghese e pseudo-colta de La notte di Michelangelo Antonioni. Trascrivendo i balbettamenti vuoti dei suoi personaggi (e aiutandosi ripetendo una mezza bestemmia per pagina: «orcodio», echeggiante l’igienico «porkodirto» di Finnegans Wake), Dal Fabbro ne depotenzia l’ethos, smascherando in tempi non sospetti (siamo nel 1969) quello che Alberto Arbasino più tardi avrebbe felicemente definito «mezzocalzettismo culturale». Così come denuncia la presunzione dei romanzi in generale – come quello licenziato nel film da Marcello Mastroianni/Giovanni Pontano, brutta copia di Alberto Moravia – nel loro ostinato voler raccontare e dire qualcosa.