Ci vorrebbero
giorni di grande udito per
dire che sto sparendo.
Così inizia un inedito di Cristina Annino (11 dicembre 1941 – 28 gennaio 2022), e a rileggerlo in questi giorni suona cupamente premonitore. Versi che fanno interrogare, com’è ovvio e forse anche a torto, sulle mancanze di chi le è stato più o meno vicino. Un grande udito, forse addirittura quell’udito «cronico» dell’eponima silloge pubblicata per Einaudi nel 1984, per la cura di Walter Siti, che personalmente non ho avuto. Quanta finzione c’è in una poesia, e in una poesia come la sua? Infinita, e però al tempo stesso nessuna. È anche vero che si faticava a prendere Cristina alla lettera, pur prendendola sempre sul serio (la sua intelligenza effervescente era incontrollabile). Il suo lascito letterario e artistico è grande, e in larga parte poco o punto investigato. Nello spazio di questo ricordo, scritto nell’arco di un volo Praga-Vilnius con scalo a Varsavia, posso solo cercare di tratteggiare alcune caratteristiche della sua scrittura, e del rapporto di amicizia e scambio che si era instaurato fra noi negli ultimi nove anni (2013-2022).
Le sue poesie sono state paragonate a «proiettili» (Walter Siti, Daniela Marcheschi): le caratterizza una fisicità che riesce a fuggire la concettualità del linguaggio, soggiogandolo alla scrittura, al segno graffito, al calco quasi. Fugge anche, e risolutamente, ogni rarefazione ermetico-simbolista: nel leggerle, non si troveranno segrete corrispondenze e analogie, quanto una celebrazione teatrale della dissonanza, un taglio fortemente chiaroscurale, di cui sono spia il contrappunto nervoso fra inarcature estreme e altrettanto brusche cesure, le repentine svolte tonali (dalla narrazione scorciata all’allocuzione, dalla gnome all’intrusione di voci dei personaggi, senza contare l’esuberanza degli esclamativi), le concrezioni figurali “mostruose” dove tutto appare temporaneo, reversibile, plurispettico: gli enti vengono fatti collidere nella loro dissimilarità, alchemicamente, secondo una logica di montaggio metonimica o istintuale più che concettuale. In una email dello scorso aprile Cristina proponeva infatti di leggere le sue poesie come se fossero degli allestimenti:
mi sembra di capire che una certa difficoltà delle mie [poesie] consista nel fatto che bisogna leggerle in 3d; cioè: quasi ogni testo è tridimensionale. La composizione a striscia piatta, intendo dire fatta a narrazione unidimensionale, come io la vedo in altre poesie, viene sostituita dall’ allestimento. Esattamente come nell’arte figurativa dove c’è il ritratto, guardabile come striscia pittorica, e l’allestimento come agglomerato di masse oggettuali interagenti
(10 aprile 2021; sottolineature e corsivi dell’autrice)
Dinamismo, collisione: non è forse un caso se Franco Fortini, in una lettera privata (poi stampata nell’antologia Magnificat, Puntoacapo, 2009, a cura di Luca Benassi e con uno scritto critico di Stefano Guglielmin), riassunse l’effetto della scrittura anniniana con una metafora di lotta: «il procedimento e il ritmo e la portata logica dei suoi versi mi pare che vincano per k.o. buona parte di quanto si legge in giro».
Queste poesie, così irriducibilmente altre dal mainstream eppure sostenute da una visione prensile, incarnata, lontanissima dai giochi a freddo e dalle meccaniche procedurali (è troppo facile fare gli sperimentali perdendosi «in strutture bischere», diceva Cristina) non mancarono, si parva licet, di colpire anche me, allora fresco di laurea. Era forse il 2011, cioè pochi prima del mio trasferimento all’estero, a Nottingham, per il mio dottorato. Mi recai, per motivi che ora non ricordo, alla sede della Puntoacapo editrice, dove Mauro Ferrari mi donò alcuni volumi pubblicati di recente, fra cui proprio Magnificat. Fra le altre, fui letteralmente fulminato da Andante pesante con abbandono, «uno dei testi poetici più intensi e drammatici degli ultimi vent’anni», secondo Elio Pagliarani. Nel 2013 ne scrissi un’analisi, leggibile qui, e informai Cristina. Iniziò così uno scambio epistolare dai ritmi ora settimanali ora mensili, fino a novembre 2021 – cioè a ridosso del peggioramento delle sue condizioni di salute, che non dichiarava apertamente ma che diluiva in battute, eufemismi, traslati: forse per mia ritrosia nel chiedere schiettamente come stesse; probabilmente anche per un suo desiderio di non pesare (di proteggermi, perfino?). Sembrava così infondere nelle delusioni (inter)personali, nella solitudine, negli acciacchi dell’età, una leggerezza saggia, frizzantina, sgusciante come un suo bellissimo verso: «sempre vi lascio indietro col vento». Una leggerezza in cui giocava – credo di averlo capito solo di recente – la carta del fool, ingigantendo una supposta ignoranza. Era una maschera, ovviamente: «mi faccio nano per | non farmi invidiare», recita un altro inedito. Carta canta – dice un luogo comune, e Cristina i luoghi comuni li ha sempre raccolti e rivitalizzati nei propri versi: forse perché, essendo tali, non si davano arie.
Sin dall’inizio del nostro epistolario, fra dichiarazioni e riflessioni di poetica (come quella riportata sopra) che zampillavano asistematicamente dal flusso vitale, ricordi di frequentazioni letterarie, confidenze reciproche, questioni logistiche, aggiornamenti sulle rispettive vite, consigli puntuali e impressioni globali sui miei tentativi poetici (!), emersero la generosità, perfino l’affetto, l’umiltà di Cristina. Era un’umiltà che non sembrava voler essere tale per decisione etica, ma era piuttosto connaturata al suo stare al mondo. Questa umiltà e semplicità – la stessa che lei attribuì alle mie due stelle fisse già di allora, Vittorio Sereni e Franco Fortini – era poi interesse genuino per l’altro, ricerca di un interlocutore, non importava se sconosciuto e nato quasi mezzo secolo dopo di lei. Aver conosciuto mezzo novecento letterario italiano e non solo (ne dà testimonianza il documentatissimo cappello introduttivo di Daniela Marcheschi nell’antologia di poeti contemporanei uscita per Mursia nel 2016) non aveva incrinato affatto questa disposizione naturale, questo schietto disinteresse per l’aura del poeta e il suo piedistallo. V’è puntuale riscontro di questo modo di essere nell’ironia dei versi, nell’umore carnevalesco che spesso li impregna. Cristina si premurava addirittura di pregarmi di non risponderle in tempi brevi, sapendo dei miei impegni con il dottorato prima, e dell’insegnamento universitario a Vilnius poi. Ci conoscemmo poi di persona a Milano, dove con altrettanta generosità mi ospitò un paio di volte, dove chiamò un suo gatto (ma non Koko, generatore poetico immortalato in Céline, 2014) «quella cosa di cipria», con quel talento di chi rinomina la realtà senza sforzo apparente.
Mi piace pensare che Cristina si sia adesso riunita al pantheon pagano che la sua stessa opera ha creato. Quanto al mio intervento, è forse impossibile non concluderlo retoricamente. Vorrei solo che aiutasse a trovare nuovi lettori, a fare da conduttore per l’elettricità che pervadeva Cristina e che pervade i suoi testi (non solo i versi, ma anche le prose!) e i suoi dipinti, insomma la sua zampata sul mondo. E dunque, chiudo aprendo:
Davide Castiglione, Varsavia-Vilnius, 31/01/2022