Le scrittrici della notte è un’antologia di racconti di autrici italiane, curata da Loredana Lipperini ed edita dal Saggiatore. La raccolta offre un ventaglio di narrazioni del fantastico, caratterizzate in un modo o nell’altro da tematiche macabre.
I nove racconti sono molto vari sia dal punto di vista cronologico che formale, ma si dimostrano accomunati dall’atmosfera notturna evocata dal titolo della raccolta: una vicinanza all’oscurità, allo spazio liminare, all’incertezza della ragione e dei sensi. Il viaggio in cui ci conduce questo libro è un percorso tra temi, ambientazioni e situazioni dai tratti inquietanti: troviamo cimiteri e fantasmi, personaggi divisi tra le illusioni della percezione e dei sentimenti, e ancora sofferenze che travalicano il confine tra vita e morte. Sullo sfondo s’affaccia spesso la riemersione di un passato cupo, di colpe e rancori che si materializzano nella forma evanescente degli spettri o di crudeli ossessioni.
La scelta del tema e delle autrici risponde a un disegno preciso, che Lipperini – giornalista e scrittrice a cui il panorama del fantastico italiano deve moltissimo – delinea bene parafrasando Ursula K. Le Guin: la necessità di salvaguardare la specificità delle autrici del notturno e di riconoscere nelle “donne che hanno rovesciato il tavolo” (p.17) qualcosa di più di una semplice e curiosa occasione. Nell’introduzione Lipperini infatti sottolinea una tendenza che caratterizza la percezione della letteratura italiana (più che la letteratura in sé): quella di un doppio oblio, che riguarda il genere fantastico e le sue autrici. È una forma di imbarazzo del quale ci si è liberati per quanto concerne la produzione recente, ma che ancora persiste nell’analisi della tradizione dei decenni passati.
È risaputo che il rapporto tra canone letterario italiano e autrici è sempre stato quantomeno problematico, con una pulsione più o meno inconscia a costringere molte voci in una letteratura “al femminile”, etichetta la cui natura è naturalmente impossibile da individuare.
D’altra parte, un imbarazzo analogo è presente anche nei confronti del fantastico. La narrativa con elementi bizzarri, macabri e sovrannaturali, che esiste da secoli tanto in Italia quanto nel resto d’Europa, è stata considerata a lungo e d’ufficio come secondaria, non ammessa al vaglio di una critica seria. Gli esempi più illustri – i soliti Pirandello, Buzzati e così via, ricordati anche da Lipperini nell’introduzione – venivano ammessi come inciampi perdonabili dei nostri grandi scrittori, o al massimo eccezioni rappresentative di un fantastico “intellettuale” e accettabile.
La selezione di Le scrittrici della notte, oltre a presentare voci diversissime tra loro, discute proprio la multiformità del concetto stesso di “fantastico”. Non tutte le storie della raccolta possiedono, ad esempio, un marcato elemento soprannaturale: alcune limitano ad attraversare il territorio dell’inquietante e del macabro, rimanendo però sempre accostabili e affini a racconti più focalizzati sul paranormale.
Siamo dunque distanti dalle concettualizzazioni della critica letteraria, dall’esitazione di Tzvetan Todorov o dalle etichette più recenti, come dark fantasy o weird. Se è vero che le etichette possono essere utilissime per la contestualizzazione storica, è altrettanto vero che tra testi molto diversi possono esistere delle affinità che trascendono i tecnicismi e gli specifici espedienti narrativi, e che a volte il collante più forte è quello del turbamento. Così in questa antologia il fantastico si riappropria della propria origine, ovvero di una liminalità in senso ampio, del legame alle sensazioni di incertezza, smarrimento e sconvolgimento che sono propri – e lo saranno sempre – di alcuni momenti dell’esperienza umana. Sono testimonianze dallo spazio-soglia, dalla fascia ombrosa in cui i narratori si avventurano con la consapevolezza di affrontare rischi estranei alla scrittura “realistica” (se davvero ne esiste una).
L’intervallo cronologico offerto dai testi è molto ampio, e spazia tra il 1881 (La leggenda di Capodimonte di Matilde Serao) e il 2020 (Il gigante di Paola Capriolo). Le autrici – “fra loro diversissime”, come sottolinea Lipperini nella prefazione (p. 17) – offrono qui un paesaggio multiforme, con prospettive personali sul “notturno” e con un’interconnessione tra il fantastico e la discussione di genere, diversa per ogni momento storico. Al di là delle tre sezioni (“Sepolture”, “Violazioni” e “Visioni”) che vengono proposte nell’antologia, poi, è quindi possibile individuare delle tracce comuni più specifiche.
Alcuni testi, ad esempio, sono di stampo più tradizionale. I testi di Marchesa Colombi (Il curare. Racconto di Natale, 1888), Carolina Invernizio (un estratto de Il bacio d’una morta, 1886), Matilde Serao (La leggenda di Capodimonte, 1881) e Grazia Deledda (La dama bianca, 1894) sono infatti direttamente ascrivibili al fantastico ottocentesco, in due sensi diversi.
Da un lato essi risultano fortemente ispirati alla maggiore letteratura “nera” dell’epoca; com’è naturale, in realtà, visto che quando vennero redatti, le penne fantastiche più conosciute erano quelle maschili, e perciò non dovremmo davvero stupirci nel vedere proposte tematiche classiche – la sepoltura prematura, l’apparizione di fantasmi, la descrizione della follia e degli eccessi della scienza. Sono ricorrenti anche alcuni espedienti tipici del fantastico ottocentesco, come ad esempio l’inserimento di un racconto nel racconto che troviamo in Colombi e Deledda.
Nel testo di Colombi poi sono chiaramente palesate le fonti: l’intera vicenda di Il curare – nel quale uno studente di medicina viene paralizzato da un collega geloso -è paragonata a “un racconto di fantasia alla Poe” (p. 41) e questo testimonia una consapevolezza letteraria e una conoscenza del fantastico molto maggiori rispetto a quello che avrebbero desiderato i critici dell’epoca (e successivi).
Dall’altro lato, questi racconti si rifanno al fantastico tradizionale anche nel ruolo degli uomini e delle donne. In Il curare l’unica figura femminile è la ragazza di cui si innamorano il protagonista e il suo rivale, e che non vediamo mai direttamente in scena. L’intera vicenda è narrata tra uomini, peraltro in un contesto paternalistico, con gli studenti che attorniano il generoso e saggio professore. Al contempo, però, va registrata una critica neanche tanto velata alla scienza medica e alla pretesa di totale controllo professata dal positivismo: i dottori – sempre tutti uomini – che non sanno cosa stia davvero capitando al protagonista, rischiano di ucciderlo inconsapevolmente. Viene da chiedersi se questo testo abbia ispirato Svevo per Lo specifico del dottor Menghi, un racconto del 1904 (ma pubblicato postumo nel 1949) che presenta tematiche tipiche della narrativa di Svevo come la riflessione su vecchiaia e giovinezza e la diffidenza verso gli eccessi della tecnica e della medicina – non solo psicanalitica. Nella storia, un medico pronto a tutto decide di testare un farmaco di sua invenzione in grado di alterare la velocità dei processi vitali; il dottore prova il medicinale prima su di sé e poi sulla propria madre, la quale resta paralizzata e “sepolta viva” dentro il proprio corpo.
Nell’estratto di Il bacio di una morta di Invernizio troviamo la scena nella quale la sorella del protagonista, sepolta viva, viene salvata in extremis. La moglie dell’uomo si mostra sempre amorevole e premurosa nei suoi confronti, in un modo che alla sensibilità di oggi può anche sembrare affettato. La sorella invece appare prima come una martire, poi come una principessa da salvare (come si evince sia dalle allusioni della rediviva stessa, sia dal prosieguo del romanzo). Peraltro anche in questo testo è presente un tono paternalistico nei confronti del contadino che aiuta a salvare la presunta morta, un uomo che lavorando nei campi deve essere necessariamente di buon cuore e gentile.
Una figura femminile domina, invece, il racconto di Grazia Deledda. La Dama Bianca del titolo è un fantasma che appare in sogno a un pastore, indicandogli il luogo in cui è nascosto un tesoro. Ci sono tutti i presupposti del racconto fantastico classico: l’apparizione, il sogno, e ancora il racconto nel racconto. A un certo punto però l’intero racconto fantastico sembra quasi diventare una cornice per la vicenda di Maria Croce, una donna talmente attaccata al proprio uomo da arrivare all’omicidio e a continuare a manifestarsi nel mondo dei vivi in forma di fantasma onirico. Nonostante i propri crimini, Maria Croce è delineata come un personaggio malinconico e affascinante, in grado di riscattare sé stessa attraverso la promessa soprannaturale di una ricompensa ai futuri discendenti delle proprie vittime. L’impatto di questa passione sovrannaturale è però molto materiale – un effettivo tesoro nascosto sottoterra – e in qualche modo distante dal pur classicissimo testo di Serao, che inscena invece l’amore ossessivo di un giovane per una figura femminile evanescente ed eterea.
Altri racconti, pur non abbandonando la tematica macabra, si concentrano sui procedimenti mentali e sui meccanismi della percezione.
Ricostruzione (1931) di Paola Masino prende le mosse da una situazione impossibile – una ragazza deceduta che cerca di ricostruire le circostanze della propria morte – mostrando però il suo focus in un’analisi a ritroso, uno scavo nella memoria che si va disgregando. Il testo mostra una certa matrice modernista, visti la struttura frammentaria e il forte interesse per i meccanismi percettivi della mente. Esso mantiene però una certa insistenza su particolari lugubri, il cui uso oscilla tra il fantastico di maniera e il simbolico: il “peso” che impedisce alla ragazza di trapassare totalmente è costituito da un fazzoletto ceduto dall’amante infedele, e che le è stato sistemato nella bara dai genitori ignari. E se la protagonista muore “d’amore” (p. 79), uccisa dal dolore causato dai sentimenti traditi, è particolarmente significativo che le lettere del giovane crudele vengano da lei conservate dentro una copia dell’Orlando Furioso, il testo della pazzia d’amore per eccellenza. La discussione di genere è presente anche qui, passando per il disprezzo raggelante con cui il giovane infedele tratta non solo la defunta, ma anche la sua nuova donna, originaria proprietaria del fazzoletto chiuso nella bara.
Anche nel racconto di Gilda Musa, Memoria totale (1972), troviamo un viaggio a ritroso, questa volta attraverso la memoria ancestrale. La mente della protagonista affonda in una serie di immagini quasi casuali, rivivendo le esperienze di uomini e donne di ogni epoca passata, e addirittura di specie viventi che hanno preceduto gli esseri umani. L’allucinata estremizzazione dei meccanismi ricettivi rende incapaci di distinguere la realtà dalla finzione e il passato dal presente, conducendo a una fine tragica.
Questi rischi della percezione non si manifestano in Ragazza che passa (2011) di Chiara Palazzolo, un racconto dai toni forse più ironici ma, in un certo senso, non meno amari. Nel testo un uomo, durante una noiosa e stressante serata con la famiglia, si lascia ingannare sia dagli effetti speciali di una discoteca sia dai propri desideri inespressi. La fanciulla che appare e scompare tra i giovani al centro della pista sembra rappresentare le occasioni perdute, gli amori mai provati, tutta quella vita che questo padre scontento non ha vissuto e che rimpiange intimamente; ma c’è anche qualcosa di più sfumato e lontano, la sensazione di una libertà impossibile che sfugge continuamente, e che in un certo senso parodizza l’ideale della donna salvifica dei racconti più datati.
Proprio il senso di una rivelazione in agguato, o mancante, è ciò che accomuna gli altri racconti.
Al centro del testo di Anna Maria Ortese, un estratto da L’infanta sepolta (attinto dalla riedizione del 2000), c’è un senso di attesa – e di libertà tradita – focalizzato sulla statua di una Madonna che appare come imprigionata in sé stessa. Il brano si presenta come un breve scorcio sulla religiosità popolare, ma anche come una riflessione sulla costrizione che coinvolge le donne su ogni scala, e alla quale non sfugge neanche una figura divina. La risoluzione sfiora l’epifanico – la statua sembra davvero viva, la Madonna davvero sepolta viva – ma sconfina infine in una contemplazione del catastrofico e della rovina.
Un’epifania sfiorata si trova anche in Il gigante (2020) di Paola Capriolo, il testo più lungo della raccolta. Il narratore è un ufficiale che viene posto al comando di una prigione isolata, nella quale un’interna guarnigione custodisce un unico prigioniero. Il criminale è responsabile di qualcosa di tremendo e inusitato, una colpa che però non viene mai descritta e delineata solo tramite ominose allusioni. La moglie del narratore resterà sempre più affascinata dalla personalità del prigioniero, che si esprime unicamente attraverso le note di violino che questi suona dalla sua cella; accompagnandolo al pianoforte, la donna diverrà sempre più ossessionata dall’esecuzione della melodia, fino a cadere in una profonda apatia e infine morire.
Anche qui troviamo dunque una riflessione più o meno implicita sulla condizione femminile. La moglie è imprigionata al pari del misterioso criminale, e la differenza tra i due sta solo nel tipo di vincoli: materiali per lui, familiari e sociali per lei. Cedere all’ossessione rappresenta al contempo sia una forma di libertà (la donna aveva nella musica uno dei suoi pochi piaceri) sia una costrizione alternativa, ulteriore, che attraverso il filtro del fantastico giunge ad apparire quasi esistenziale.
Il racconto può far pensare al Buzzati del Deserto dei Tartari, con una guarnigione militare isolata e abbandonata ad un’attesa infinita; il legame però risiede più nel profondo, e nello specifico nel senso di epifania mancata e mancante, la rivelazione che si manifesta per qualcun altro ma non per noi.
Il racconto è pervaso da una sensazione minacciosa, dalla percezione di qualcosa di inafferrabile che incombe sui personaggi. È possibile che il grande crimine del prigioniero, quello mai raccontato, potesse consistere proprio nella capacità di trascinare fuori di sé le persone, soprattutto quelle più assoggettate. Ma è anche la mancanza di precisione a rendere questo racconto così particolare; si tratta di un fantastico lontano da quello ottocentesco, sia nei termini della vaghezza (l’ambientazione è verosimile ma non definita, e non ci sono anni o nomi precisi), sia nei termini della risoluzione fallace, tutta raccolta in un vuoto più che nella manifestazione dell’impossibile.
Come si vede, Le scrittrici della notte offre una grande varietà di tipologie di fantastico, e questi resoconti narrativi acquistano un peculiare valore se si considera la condizione di alcune autrici, quali quelle in attività a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo, già costrette dal contesto socio-culturale ad una posizione di marginalità. È possibile che questa stessa marginalità comporti una maggiore ricettività verso le correnti più sotterranee della letteratura? O forse sarebbe più giusto ammettere che certe pulsioni non sono mai davvero nascoste, mai davvero secondarie, e che semplicemente la letteratura stessa si manifesta in forme e situazioni che esulano – devono – dalle etichette di genere, narrativo e non?
Le scrittrici della notte dà a suo modo una risposta a questi interrogativi. Una risposta che passa per l’oscurità della notte e gli anfratti della coscienza e che evoca fantasmi dai quali non vogliamo davvero separarci.
Le scrittrici della notte, a cura di L. Lipperini, il Saggiatore, Milano 2021, 208 pp. 19,00€