Sono stati da poco annunciati i vincitori della Berlinale 2022, un’edizione ridotta, dall’atmosfera anomala, ma che è stata pensata come il primo festival dell’era post pandemica, quasi a voler chiudere uno dei momenti più bui dell’industria dello spettacolo (e non solo) dopo essere stata l’ultima kermesse in presenza nel 2020, prima delle pesanti restrizioni. Dopo l’edizione digitale dello scorso anno, con i film da vedere in streaming disponibili per la stampa nell’arco di soli cinque giorni, quest’anno si è optato per una versione in presenza a due fasi: la prima di sei giorni perlopiù per gli accreditati e una seconda per le proiezioni aperte al pubblico. Ma l’allerta è rimasta altissima e le misure di prevenzione non hanno di certo reso la vita facile a pubblico e soprattutto ad accreditati. Questi ultimi infatti, oltre a essere in possesso di un green pass valido – o meglio EU Covid Digital Certificate – dovevano presentare un test negativo effettuato nella stessa giornata, valido per non più di ventiquattro ore. Era consuetudine quindi imbattersi ogni mattina in file di persone con zaini e badge al collo di fronte ad autobus riadattati a centri per tampone antigenico. Ma anche questo era un ben più che accettabile sacrificio per poter tornare ad apprezzare uno dei festival cinematografici tra i più vitali, densi e politici che si trovano in circolazione. Anche quest’anno con un programma ricco di film senza compromessi e dalle tematiche urgenti. Qui trovate le recensioni di alcuni dei film visti questa settimana, molti dei quali segnati da un tema comune: la speranza.
La ligne
Produzione franco-svizzera per l’ultimo film di Ursula Meier, che mette in scena le difficili dinamiche all’interno di un gruppo di donne della stessa famiglia. il film si apre con una lite furibonda mostrata in slow motion, mentre un’aria d’opera rende l’atmosfera dell’intero quadro ancora più straniante. Margaret è in preda a una furia incontrollabile e tenta in tutti i modi di afferrare la madre (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi). Quando finalmente ci riesce, la schiaffeggia violentemente, fino a farla cadere sul pianoforte. A quel punto gli uomini presenti sulla scena afferrano Margaret e la scaraventano fuori, lasciandola al freddo di un paesaggio innevato, mentre continua a sbattere sul vetro della porta finestra nel vano tentativo di rientrare. A causa dell’accaduto la donna subisce un ordine restrittivo che la costringerà a osservare una distanza di almeno cento metri dalla casa materna. In quest’opera quasi del tutto al femminile sono misurate diverse tipologie di distanze, da quelle fisiche a quelle sentimentali, mentre i personaggi cercano disperatamente un linguaggio comune che possa riavvicinarli. Alla fine giungerà insperata la musica – legame invisibile – a riportare le donne in conflitto a una dimensione più corale. Valeria Bruni Tedeschi è una convincente madre egoriferita e insicura, mentre Margaret è interpretata da una bravissima Stéphanie Blanchoud, che restituisce al pubblico tutta la violenza e l’amore di una donna spezzata in grado di esprimersi solo attraverso la musica. Da segnalare anche la partecipazione del musicista Benjamin Biolay nei panni dell’amico (ex amante?) di Margaret.
Rimini
Tra le pellicole di certo più curiose in concorso c’è Rimini del cineasta austriaco Ulrich Seidl. La trama è semplice: Richie Bravo, una vecchia gloria della musica austriaca simile al nostro Bobby Solo, vive a Rimini e tira a campare con serate revival per vecchi turisti suoi connazionali e favori sessuali elargiti alle sue fan. Quando entra in scena la figlia – di cui ricordava a malapena l’esistenza – a reclamare soldi e attenzione, Richie dovrà decidere se accettare il cambiamento o rimanere nel suo limbo di ricordi e depravazione. A colpire subito lo spettatore è la rappresentazione di una Rimini anonima e oggettivamente brutta, avvolta in una perenne nebbia lattiginosa. La città sembra lontana anni luce dall’immagine dorata e gioiosa che attirava moltitudini di turisti d’oltralpe nei decenni passati. Ora è appunto un luogo spettrale, dove il nostro Richie Bravo si aggira come il re dei fantasmi, tra locali anni ottanta, slot machine e misteriosi gruppi di giovani africani accovacciati per terra o sdraiati su una panchina: anonimo arredo urbano. Il film mescola un registro da commedia grottesca con una vena più tragica, raccontando il purgatorio di un uomo e una generazione entrambi ancorati a un mondo finito ormai da tempo, mentre nuove generazioni reclamano il proprio posto.
Un été comme ça
Alla quarta partecipazione alla Berlinale Denis Côté è ormai una mascotte del festival. Per chi vi parla è uno dei registi più enigmatici del panorama mondiale, spesso intento a demolire le nostre certezze in termini di categorie e generi cinematografici, senza però darci in cambio valide controproposte, ma lasciandoci solo con enormi dubbi. E la sua ultima opera non fa eccezione. Dopo aver parlato di fantasmi e città che diventano esse stesse fantasmi in Ghost Town Antology nel 2019 e aver firmato uno dei più interessanti esperimenti di film girato in piena pandemia intitolato Social Hygiene, decide di affrontare il tema dell’ipersessualità femminile. E lo fa a modo suo. In una magnifica tenuta nella campagna canadese, tre donne affette da questo disordine decidono di partecipare al progetto sperimentale di alcuni studiosi del tema. Per ventisei giorni le donne vivranno insieme nella tenuta seguendo le regole della casa, ma senza particolari restrizioni in tema di uso di sostanze o obblighi di astinenze di alcun genere (tranne il telefono, il cui uso viene proibito e ammesso solo per brevi lassi di tempo). A osservare le tre donne ci sono Octavia, una ricercatrice tedesca e Sami, assistente sociale e unico uomo in casa. In un’atmosfera carica di tensioni, Denis Côté ci porta in un mondo sospeso, le cui atmosfere ricordano quelle del capolavoro Picnic a Hanging Rock di Peter Weir mescolate con una certa aria bergmaniana. Il sesso e il suo potere deformante sono al centro della narrazione, eppure non è quasi mai sulla scena ma il più delle volte evocato nei racconti delle tre giovani, nei loro lunghi monologhi, dove si profondono in descrizioni le più dettagliate possibili. Il confine tra paziente e curatore si fa sempre più sottile, si fonde, e alla fine dell’esperimento ogni cosa resta irrisolta, ma pacificata.