Il gruppo di lettura torinese Sul ponte diVersi propone per «La Balena Bianca» una serie di interviste a critici letterari di poesia contemporanea italiana. L’occasione offerta dall’intervista permette di articolare meglio un dialogo che non dimentica di coinvolgere e interrogare i critici selezionati e parte delle loro opere e produzione, in modo da circoscrivere di volta in volta gli argomenti enucleati e proiettarli verso ambiti problematici più ampi e generali. Apparirà evidente, così facendo, quanto nessuna ricerca critica sia inizialmente concepibile se non, volendo chiosare un’affermazione di Gianfranco Contini, «come esercizio sui contemporanei».
Nella terza intervista (qui e qui le prime due), Federico Masci e Jacopo Mecca del gruppo Sul Ponte diVersi dialogano con Niccolò Scaffai, docente di Critica letteraria e letterature comparate all’Università degli Studi di Siena. Niccolò Scaffai è autore di Il poeta e il suo libro (Le Monnier Università, 2005), La regola e l’invenzione (Le Monnier Università, 2007), Il lavoro del poeta (Carocci, 2015), Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa (Carocci, 2017) e di studi sulla poesia contemporanea, la narrativa breve, e sui rapporti tra letteratura e ecologia.
1) Valutare l’utilità delle relazioni «tra poesia e lettere […] nella configurazione di un apparato critico»[1] significa, come viene spiegato nel saggio «Una frazione di parte in causa». Lettere e apparati in edizioni di poeti italiani del Novecento, dimostrare quanto «l’esistenza di un avantesto epistolare e la stratificazione delle varianti»[2] possa illuminare caratteristiche fondanti del fare poesia di alcuni autori. Se i casi di Ungaretti e Montale testimoniano due iter produttivi che, attraverso un diverso rapporto con il materiale epistolare, riflettono una diversa concezione della poesia, quali possibilità ermeneutiche si potrebbero aprire volendo rendere valido questo rapporto oggi? Quali scommesse interpretative possono darsi insomma quando il tentativo di considerare la lettera come «indizio per la ricostruzione dei processi culturali e mentali dell’autore»[3], o come possibile esempio della storia variantistica di un testo, deve confrontarsi con l’affermazione di forme più provvisorie di trasmissione scritta, principalmente digitalizzate, e quindi con configurazioni inedite del lavoro filologico?
NS: In un libro di qualche anno fa, intitolato Scrivere lettere, il grande paleografo Armando Petrucci (che conciliava a una sovrana competenza nella sua disciplina anche un’ampia prospettiva culturale) rifletteva proprio sugli effetti legati alla dispersione dei documenti epistolari e ancora di più all’instaurarsi di una diversa pratica di comunicazione nella società digitale. Le lettere, infatti, non rischiano di scomparire perché cambia il supporto: dalla carta allo schermo o al cloud. La vera causa è piuttosto la diversa attitudine con cui comunichiamo per scritto: l’uso dell’email moltiplica i messaggi, ma ne riduce l’ampiezza e la rilevanza, che non sono paragonabili in genere a quelle di una lettera tradizionale. Non è sempre così, naturalmente, ma la tendenza è questa.
C’è inoltre la questione della conservazione e dunque della trasmissione di quei documenti per gli studi presenti e futuri; per quanto fragile, la carta è assai più facilmente archiviabile, o meglio è più compatibile con i protocolli archivistici che si adottano comunemente per i fondi degli autori moderni e contemporanei. Alcuni enti e università si stanno attrezzando per la conservazione e la fruizione di documenti digitali e nel campo delle digital humanities esistono figure e progetti in quest’ambito. Ciò detto, credo che la dimensione digitale non sia solo un problema da risolvere; è tale se restiamo legati a un’idea novecentesca. La comunicazione digitale, per esempio, è multimediale: basti pensare a quante volte alleghiamo immagini, file, link alle nostre mail e ai messaggi. Ebbene, questo repertorio audio-video-testuale rientra nel ‘lavoro del poeta’ che il critico è chiamato a ricostruire; l’espressione che ho usato (impiegandola anche come titolo di un mio libro del 2015) proviene da Sereni, che in una conferenza del 1980 definisce il lavoro del poeta come «quella serie di operazioni microscopiche e silenziose che uno compie dialogando con se stesso, in ciò favorito dal caso, stimolato da un incontro fortuito, da un volto, da un gesto, da un suono, da una rivelazione improvvisa che muova da un oggetto magari passato inosservato in precedenza, e perché no? da una lettura (di una riga piuttosto che di un capitolo, di una pagina aperta a caso piuttosto che di un libro intero)».
In questo senso, la dimensione digitale non nega quell’idea di ‘lavoro’ (potremmo anche chiamarlo, tra mille cautele, ‘ispirazione’) espressa da un grande poeta novecentesco, ma semmai la conferma, le dà “movimento e luce” (per dirla ancora con Sereni). È probabile che gli stessi poeti, non solo i critici, debbano ancora mettere bene a fuoco questa potenzialità.
2) Nel saggio «Non cogito, non ergoe niente sum». Personaggi e tempo nella poesia contemporanea viene istituita una relativa continuità tra le esperienze poetiche moderniste e la modernità più recente. Il rapporto è motivato dal riconoscimento delle strategie espressive che i poeti tardo-moderni hanno ereditato dagli esponenti primonovecenteschi «per superare un istituto plurisecolare come l’io lirico e insieme ridare consistenza alla poesia in un sistema dei generi letterari decisamente sbilanciato a favore del romanzo»[4]. Se «il tema anticartesiano dello sconfinamento dell’io e ciò che è fuori di esso»[5], con tutte le sue conseguenze rappresentative, non può essere solo «costretto dentro gli argini della più recente contemporaneità»[6], in che modo diventa possibile utilizzarlo come categoria capace di mappare un territorio minoritario ma comunque presente nello spazio letterario del Novecento, legato alla definizione di una poesia essenzialmente non-lirica? E quali sono gli esempi italiani più espliciti di tale presenza?
NS: Nel modello-canzoniere l’evoluzione nel carattere del protagonista e del/della deuteragonista procede nel solco dell’intertestualità e dell’imitazione. Le identità dei personaggi variano, ma sul piano relazionale: alla svolta nel carattere di una delle due figure principali corrisponde una determinata reazione nell’altra figura. Questo sistema, che ho molto drasticamente riassunto nelle poche frasi precedenti, entra in crisi e collassa nel Novecento, sottoposto a varie tensioni; lo stesso Montale, che pure è il poeta forse più emblematico rispetto alla forma-canzoniere nel Novecento (con Le occasioni) contribuisce a far cedere quel paradigma, dalla Bufera in poi. Tra le ‘vie di fuga’ ci sono l’ampliamento e la drammatizzazione del sistema dei personaggi; le derive della soggettività; la riflessione del soggetto sul proprio statuto. Ora, questi processi si sono sviluppati in due direzioni apparentemente, o tecnicamente, opposte; ma spesso poeticamente e ideologicamente complementari: da un lato, l’annullamento, la scissione o la moltiplicazione del soggetto si associano a forme di macrotesto caratterizzate dall’assenza, o dall’estrema debolezza, della progressione, sostituita da un opposto criterio di modularità o giustapposizione; dall’altro, si sono prodotti incroci di forme e modi lirici con forme e modi di altra natura, specialmente epico-narrativa.
Credo che una delle principali prospettive da cui osservare la questione, anzi il nodo di questioni che la domanda poneva, riguardi proprio il rapporto tra lirica ed epica nella poesia moderna e contemporanea. In questo quadro si può collocare una sorta di ‘funzione Eliot’, che (anche attraverso la ‘mediazione’ montaliana, con la sua tensione verso l’oggettività) lega il modernismo anglosassone alle poetiche del secondo Novecento italiano, in nome di un superamento dei confini tra i generi letterari e di una ristrutturazione del personaggio lirico in personaggio ‘epico’. La forma poematica, l’estensione fino alla misura del poemetto e oltre (penso, nel secondo Novecento, a Pagliarani, Majorino), la forma continua del romanzo lirico in versi (Bertolucci) sono gli esempi più canonici, e tutt’ora evocati più o meno opportunamente come modelli per i poeti contemporanei.
3) Concentrandosi sulla forma del canzoniere nell’accezione petrarchesca[7], nella seconda metà del Novecento, dopo i primi i primi tre libri di Montale per intenderci, rari sono gli esempi di libri che potrebbero essere individuati come «casi di petrarchismo tematico-strutturale»[8] che rispettano, combinandoli tra loro, determinati criteri strutturali, retorici e tematici. Per «riflettere sull’esistenza e la portata di una “funzione Petrarca” presso gli autori dei libri di poesia contemporanei»[9] tracce di questa funzione vengono da lei riscontrate in Raboni, Cavalli e nelle Cento quartine di Valduga. Di Valduga il discorso potrebbe valere anche per Medicamenta, almeno per l’impianto retorico e tematico? E forse la forma del canzoniere petrarchesco non potrebbe valere anche e ancor più per un libro come Variazioni belliche di Rosselli? Quali altri esempi potrebbero essere fatti?
NS: Credo che l’assetto ‘petrarchistico’, la forma-canzoniere che unisce a un alto grado di organizzazione macrotestuale l’evidenza del rapporto, tematico e strutturale, con un ‘tu’, abbia risentito di quegli stessi fattori di crisi di cui ho parlato nella risposta precedente. Lo confermano gli esempi (Raboni, Valduga, Cavalli) che avete ricordato, per i quali la persistenza delle tracce del genere ha una componente metaletteraria: si tratta cioè di un recupero allusivo, che non arriva né aspira a rifunzionalizzare il modello, ma a assumerlo come un’allegoria: allegoria di un codice, del codice come vero linguaggio della poesia, prima ancora che struttura dell’esperienza. Del resto, la sopravvivenza del canzoniere in senso post-petrarchesco è legata proprio alla possibilità di codificare il lessico, facendo di ogni lemma fondamentale un richiamo ad altra poesia. Se accade questo, non è necessario che vengano attivate tutte le costanti del modello-Petrarca, del resto irripetibile nella contemporaneità; il codice, cioè, è più importante del tema. Ciò detto, esistono oltre agli autori e autrici che abbiamo ricordato, altri esempi di avvicinamento per adesione o per straniamento a quell’idolo canonico che è il canzoniere petrarchesco o petrarchista: penso ai primi libri di Stefano Dal Bianco o, tra le autrici delle generazioni più recenti, a Giulia Martini (che ha come riferimento prossimo appunto Patrizia Cavalli).
4) Nel corso del Novecento e soprattutto del secondo Novecento, alla forma del canzoniere petrarchesco, riformulato e adattato, sembra essere stata preferita, per numero di occorrenze, la forma del libro-summa. Il Canzoniere di Saba, Vita d’un uomo di Ungaretti, ma anche La vita in versi di Giudici oppure A tanto caro sangue di Raboni sono alcuni degli esempi che vengono in mente quando si pensa a libri che raccolgono, sotto la volontà dell’autore, l’arco della produzione fino a quella data di pubblicazione. È interessante notare però che gli esempi citati, ma ripetiamo potremmo farne altri, non presentano come titolo il più riassuntivo e globale Poesie, ma titoli pensati e scelti che attribuiscono, attraverso un esplicito riferimento alle intenzioni autoriali, un senso complessivo e ulteriore alla produzione poetica raccolta; titoli che indicano quindi una nuova chiave di lettura. In questo caso, data anche la possibilità variantistica retrospettiva messa in campo a volte dal poeta che raccoglie la propria produzione, queste forme libro sono ancora, secondo lei, soltanto libri-summa o sono anche, allo stesso tempo, qualcosa di diverso e di nuovo?
NS: In effetti no, se si intende il termine summa come pura giustapposizione di elementi preesistenti; in questo caso, il libro è un raccoglitore concretamente o idealmente postumo rispetto all’autore o autrice. Il suo allestimento dipenderà più da un curatore che dall’autore stesso. Se invece consideriamo la summa un consuntivo, le daremo il valore che credo debba avere, cioè di consapevole riconfigurazione della propria opera da parte di un poeta che si affida al libro complessivo sia per collocarsi (o farsi collocare) nel campo, sia per dare coerenza e continuità alle proprie ragioni, sia infine per segnare uno snodo (o l’esito) di una carriera. Queste tre ragioni non ne escludono altre, né si escludono a vicenda. In questo senso, il libro-summa è un organismo nuovo, che ha un valore diverso e spesso maggiore rispetto all’addizione degli elementi preesistenti: nuovo soggettivamente, rispetto all’immagine dell’autore e alla postura inevitabilmente canonica che gli conferisce; nuovo oggettivamente, perché i testi che formano il libro presentano spesso varianti (anche introdotte ad hoc) e perché il volume stesso raramente è un repertorio del già edito, ma include inediti e testi ausiliari (autocommenti, interviste e altri apparati) che non hanno solo un valore critico-esegetico, ma servono anche a definire e trasmettere un’immagine autoriale.
Tutti gli esempi novecenteschi che avete ricordato si collocano, ciascuno a proprio modo, nello spazio compreso tra queste coordinate. Diversi, oltre agli specifici assetti delle edizioni dell’uno o dell’altro autore, sono i profili autoriali che ne risultano; anzi, diversi sono i rapporti che si istituiscono fra l’immagine che l’autore dà attraverso il libro e la sua vita stessa: in più di un caso illustre (Ungaretti, Giudici) questo parallelo è esplicitato, con enfasi o per paradosso, nei titoli dei volumi.
5) Rimanendo infine sempre sul piano della forma libro, quali considerazioni fare su due casi estremi di libri-summa usciti nel primo decennio degli anni Duemila? Pensiamo a due esempi limite come Umana gloria di Mario Benedetti, che riunisce e rimaneggia fino a stravolgere molte delle poesie pubblicate in libri e palquettes pubblicati dal 1982; e Il costruttore di Vulcani di Carlo Bordini che rimodula la struttura del libro-summa, facendo saltare l’ordine cronologico e cercando, tramite riprese, ripensamenti, variazioni e microfratture, una nuova forma libro secondo quella che l’autore ha chiamato una «struttura musicale»[10]?
NS: Si tratta di due fra i libri italiani di poesia più importanti di quel decennio (e del nuovo secolo), che hanno sancito l’ingresso dei rispettivi autori, da poco scomparsi, in un canone; di più: che ne hanno elevato il rango da poeti di rilievo a figure quasi di culto per i lettori e i critici, specialmente delle generazioni più giovani. Libri, appunto, non semplici raccolte: gli autori cioè vi hanno riorganizzato e riformulato le proprie opere, introducendo varianti e restauri, e nel caso di Bordini anche producendo volontarie iterazioni e sfasature. Sul piano critico, Umana gloria e I costruttori di vulcani vanno perciò considerati come macrotesti originali e d’autore; ciò non toglie che lo studio di quei libri possa essere condotto e dare risultati anche sul piano variantistico, cioè attraverso il confronto tra la prima e la nuova versione di singoli testi e sezioni o libri già editi.
Profili bio-bibliografici.
Niccolò Scaffai è docente di critica letteraria, letterature comparate, e direttore del Centro Interdipartimentale di Ricerca Franco Fortini in “Storia della tradizione culturale del Novecento” presso il dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature antiche e moderne (DFCLAM) dell’Università di Siena. Si è occupato, tra le varie cose, della poesia moderna e contemporanea, cui ha dedicato alcuni volumi (Montale e il libro di poesia, Pacini Fazzi, 2002 ; Il poeta e il suo libro, Le Monnier Università, 2005; La regola e l’invenzione, Le Monnier Università, 2007; Il lavoro del poeta, Carocci, 2015), di narrativa breve, e dei rapporti tra letteratura e ecologia (Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, 2017).
Sul ponte diVersi è un gruppo di lettura di poesia e critica letteraria, nato a Torino dall’impegno di Riccardo Deiana, Federico Masci, Jacopo Mecca e Francesco Perardi. Organizza da marzo 20218 incontri con i poeti italiani contemporanei nel contesto della libreria indipendente Il Ponte sulla Dora. Collabora con «L’Indice del libri del mese», «Avamposto» e più recentemente con «La Balena Bianca». Da questo link (https://www.facebook.com/pontediversi) si può accedere alla pagina Facebook del gruppo.
[1] Niccolò Scaffai, Il lavoro del poeta. Montale, Sereni, Caproni, Carocci editore, Roma, 2016, p. 122.
[2] Ivi, p. 119.
[3] Ivi, p. 113.
[4] Niccolò Scaffai, La regola e l’invenzione. Saggi sulla letteratura italiana nel Novecento, Le Monnier Università, Firenze, 2007, p. 86.
[5] Ivi, p. 88.
[6] Ibidem.
[7] Il canzoniere nell’accezione petrarchesca «designa un libro di poesia qualificato da una tematica erotica […] canonizzata nei Rerum vulgarium fragmenta e da questi trasmessa alla lirica occidentale. Elemento imprescindibile del canzoniere di derivazione petrarchesca è la presenza di una figura deuteragonistica, sia questa congiunta al poeta che la canta o, più frequentemente, invocata, rimpianta, celebrata in morte o in assenza. La successione delle varie liriche descrive una sorta di narrazione, certo non ortodossa come un romanzo o un racconto tradizionali, basata sull’evoluzione interiore del protagonista e sul trapasso dell’amata dalla condizione di personaggio “in vita” a quella di personaggio “in morte”». Niccolò Scaffai, Il poeta e il suo libro. Retorica e storia del libro di poesia nel Novecento, Le Monnier Università, Firenze, 2005, p. 2.
[8] Niccolò Scaffai, La regola e l’invenzione, cit., p. 4.
[9] Ibidem.
[10] Carlo Bordini, Il costruttore di vulcani, Sossella, Roma, 2010.