In attesa della cerimonia di premiazione della XXXVIII edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 30 aprile alle ore 18 in Sala Piatti di Città Alta (qui tutte le istruzioni per partecipare), proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Dopo Francesco Bianconi, parliamo oggi con Elisa Ruotolo, in cinquina con Quel luogo a me proibito (Feltrinelli 2021).
Quel luogo a me proibito racconta la storia di una rigidità fisica, determinata dalla presenza di un’ossessione psicologica profondamente interiorizzata: in che misura la mancata possibilità di un vero e proprio sviluppo narrativo influenza la forma e lo stile del romanzo?
Sì, il mio romanzo racconta cosa diventiamo a seguito delle amputazioni e delle infinite costrizioni a cui siamo sottoposti fin da piccoli, ma soprattutto la controindicazione che ne deriva: quella di restare tali (cioè piccoli) anche da adulti. Il corpo può anche assecondare la crescita, ma la sua forma sotterranea, quella impressa in origine e ribadita in seguito, impedirà il naturale sviluppo facendo di noi dei bonsai: piante innaturali, frutto di dolorosi e continui accorgimenti. Lo stile utilizzato per raccontare tutto questo non poteva che assecondare la materia. Mi capita di pensare ai libri come a degli “organismi narrativi”, dotati di respirazione, affezioni, energia, astenie e infiniti altri caratteri capaci di incarnare ciò che siamo. Stavolta, mi ritrovo ad aver usato frasi assiomatiche, pensieri che cercano di contenere ogni volta una verità. Dopo un lungo tempo di imprecisione, c’è un tale bisogno di completezza da spingere la mia voce narrante alla chirurgia della sintassi, a una semantica che contenga tutte le cure che le sono difettate (o di cui si sente incapace). Scrivere è un gioco di continui rispecchiamenti: si scrive come si vive e viceversa. Tanto sono intimamente connesse queste due dimensioni, tanto sono invadenti l’una rispetto all’altra.
Nel suo svolgimento, il romanzo si impernia su un tema e lo affronta in tutte le sfaccettature, mostrandoci la protagonista impegnata con tutte le sue energie nell’autoanalisi e nel tentativo di svincolarsi dal giogo dei precetti morali. Il banco di prova è la storia d’amore con Andrea, che di fatto finisce a causa dell’incapacità della protagonista di riuscire nei suoi intenti. Tuttavia, una maturazione in conclusione sembra verificarsi. Perciò, in che senso si può dire che la formazione della protagonista sia fallita e in che senso si può dire che sia riuscita?
L’incontro con tutti i luoghi proibiti non poteva che essere deflagrante. Andrea rappresenta ogni libertà mai concessa e tuttavia mai pretesa; è il potersi dimenticare del passato e del futuro per vivere di un eterno presente rischiando, azzerando il pensiero, giocando con il pericolo e il fallimento. Come mai la donna bonsai non arretra, non scappa innanzi ad Andrea? Probabilmente perché in lui, oltre al fascino dell’interdizione, trova un qualcosa di familiare e noto: i vincoli, i nodi. Passa da quelli invisibili e invalidanti del determinismo familiare e ambientale, a quelli reali e stringenti dello shibari; dalle legature di chi la voleva innocente, a quelle di chi la desidera diversa (non so se coincidente con la sua reale natura, ma diversa), forse imprimendo nuovi tagli. La formazione della protagonista è fallita nel tempo del non ascolto del proprio sé più intimo, mentre l’evoluzione comincia nel momento dell’esercizio della volontà e della consapevolezza. In quella che è la scena “nodale” del romanzo la mia protagonista impara a sentire il suo corpo, ad avvertire il dolore della costrizione e il bisogno di liberarsene. Lei che mai aveva scelto comincia a farlo: si sottrae ad Andrea, pur sapendo che così facendo lo perderà. In effetti non è questo l’unico luogo narrativo in cui l’obbedienza cede il posto a una decisione consapevole, la seconda occasione arriva quando la donna bonsai comincia a raccontare la propria storia. Solo allora smette di punirsi e di castigarsi dall’alto del suo sguardo giudicante: perché l’unica forma di autopunizione è il silenzio, il racconto è comprensione, è perdono.
Nel romanzo, la critica all’inautenticità della società civile borghese emerge attraverso il personaggio di Andrea, e si gioca contemporaneamente su due piani, quello della liberazione sessuale e quello del rifiuto dell’oppressione perpetrata tramite il lavoro. Che peso ha tale critica all’interno del progetto narrativo nel suo complesso? Fino a che punto la protagonista riesce a consapevolizzare e a fare propria la posizione di Andrea?
Quando si scrive si diventa minimalisti dell’immensità, e ogni personaggio più che un sé specifico rappresenta una scheggia dell’umano: è il filo che racconta il gomitolo. Andrea riproduce entrambe le dimensioni: quella dell’uomo che desidera la libertà del corpo, ma anche quella di chi vede il lavoro come schiavitù e limitazione. Forse in ciascuno di noi vi è una parte che vorrebbe una liberazione di questo tipo, ma quanti possono e riescono a perseguirla? Gide ne L’immoralista scrive: «Sapersi liberare è niente. Il difficile è saper essere liberi». Ecco, Andrea sa esserlo perché non ha rimpianti, ha un metro di giudizio privato e vive in funzione di ciò che desidera. Non credo riesca ad ammettere ragioni che giustifichino il sacrificio della parte istintiva, tantomeno ad accoglierle con rispetto, senza denigrarle. Forse attraverso la sua prossemica esistenziale ho portato in superficie il rimosso, ho messo in carne la sublimazione: ho raccontato quello che saremmo fuori dagli ingranaggi del meccanismo sociale, dando voce all’utopia. Credo di aver messo in campo due posizioni estreme: Andrea è troppo fuori dal mondo, la donna bonsai è immersa nelle sue strutture e sovrastrutture. Il senso di libertà la stordisce, avrebbe bisogno di cure e di tempo per poter interiorizzare la visione di Andrea. Ma un uomo che vive solo l’oggi può ipotecare l’avvenire? Può concedere questo tempo?
Infine, una domanda più leggera che da sempre rivolgiamo ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?
Questa è la domanda più difficile di tutte. So che il mio romanzo, anche se raccontato dalla prigionia, vuole essere un inno alla libertà. Allora vorrei che ogni lettore fosse libero di trovare le sue ragioni.