In attesa della cerimonia di premiazione della XXXVIII edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 30 aprile alle ore 18 in Sala Piatti di Città Alta (qui tutte le istruzioni per partecipare), proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Dopo Francesco Bianconi ed Elisa Ruotolo, parliamo oggi con Andrea Inglese, in cinquina con La vita adulta (Ponte alle Grazie 2021).
Il tuo romanzo racconta il mondo dell’arte in tutte le sue facce e in tutte le sue latitudini: dagli atelier scalcagnati di Milano agli spazi postindustriali di Berlino fino alle gallerie di rilievo internazionale di New York. Questo mondo lo leggiamo con gli occhi di due personaggi, Nina Dumo e Tommaso Zappa, una performer e un critico: come mai ha sentito il bisogno di raddoppiare (o sdoppiare) lo sguardo su questo microcosmo?
Il raddoppio di sguardo mette in luce cose diverse. In Nina, vi è malgrado tutto un’attitudine eroica, lei riesce in parte a vivere l’arte come esperienza radicale, ma questo la situa su una china sempre incerta tra il grande successo e la marginalità, tra la “star” dell’arte internazionale e l’anonima sperimentatrice dell’undeground metropolitano. In altre parole, sia caratterialmente sia dal punto di vista degli ambienti che frequenta, Nina è votata agli estremi. E noi la cogliamo in una fase di questa oscillazione, ma scopriamo che ha avuto anche un passato diverso, opposto. Tommaso invece rappresenta, da critico, ossia da lavoratore dell’intelletto, un’esperienza di medietà. Egli è l’uomo del compromesso, ma ovviamente un compromesso che quasi sempre subisce. Inoltre, vive in una condizione piccolo-borghese o di ceto-medio. Ha una vita normale, nonostante frequenti – e non solo per ragioni professionali – il mondo degli artisti. Il suo sguardo illumina la sfera non-eroica – se vogliamo, banale – dell’universo artistico, che diventa semplicemente un ambito come un altro del diffusissimo lavoro culturale delle nostre società attuali. Questi due protagonisti incarnano un po’ le facce diverse di una stessa medaglia: l’esistenza dell’uno custodisce un frammento di verità a cui, normalmente, l’altro non ha accesso. Per questo è importante, a un certo punto – quando tutti i nodi di ognuno dei due, presi separatamente, vengono al pettine – il loro incontro. Entrambi sono variamente prigionieri del contesto professionale in cui vivono, ma anche dei loro propri fantasmi. E l’incontro costituisce una forma intensa, seppure fugace, di reciproco riconoscimento…
Tante sono le pagine nel corso della Vita adulta in cui la narrazione lascia il posto alla riflessione: talvolta questa è espressa con le parole di Nina e Tommaso, talvolta con quelle del narratore che – come già accadeva in Parigi è un desiderio – si dimostra molto propenso alla concettualizzazione. Tu sei anche autore di saggi e interventi di carattere militante (su «Nazione Indiana» e anche raccolti in alcuni volumi): in quale misura, secondo te, il romanzo si presta a ospitare una riflessione puntuale sul presente? Qual è il tuo punto di equilibrio tra racconto e saggio?
Parto dall’ultima domanda, strettamente tecnica. Non so quale sia il punto di equilibrio tra racconto e saggio. Sarà il lettore, anzi saranno i lettori a poter dare una risposta su questo, in termini di plausibilità o meno. Sull’argomento, però, che per me è davvero importante, posso intanto dire questo: la mia necessità di scrivere romanzi è nata da una sorta d’insoddisfazione profonda per la mia esperienza di saggista “militante”. Con questo termine, voglio indicare due cose: una mia tendenza al saggio etico-politico di taglio non specialistico. Quello che predicava un Fortini, per intenderci. Una pretesa esorbitante, me ne rendo conto, per tanti motivi che sarebbe qui lungo spiegare. Di certo, riguardano mancanze e limiti miei, individuali, ma non solo. Ci sono anche circostanze collettive: oggi mancano contesti che permetterebbero (eventualmente) a certi discorsi di acquisire un loro valore d’uso. Inoltre – e questo vale anche per la poesia, altro genere che pratico – trovo che il romanzo possegga le caratteristiche adatte per uno “sgonfiamento” umoristico (a volte comico, a volte satirico) delle posture eroiche: quella del poeta (particolarmente il poeta “lirico”), ma anche quella del saggista. Per semplificare uno dei tanti geniali concetti di Bachtin: il territorio romanzesco si trova alla frontiera – mai coincidente – tra quello che il personaggio dice e quello che il personaggio fa. I protagonisti de La vita adulta, come tante persone che conosco, e non solo provenienti dal mondo intellettuale, riflettono sul mondo in cui vivono, si costruiscono delle teorie, lo giudicano, però anche ci vivono, con tutte le loro ambivalenze e contraddizioni. Rimane comunque vero, che m’interessa veicolare attraverso la forma romanzo non tanto un messaggio (I would prefer not to), ma degli elementi di conoscenza su determinati ambienti della società contemporanea, questo sì. Quanto all’archetipo del grande romanzo realista ottocentesco (non certo del romanzo-saggio novecentesco), ossia Balzac – penso a Illusioni perdute letto recentemente –, ci presenta molto spesso esempi di narratore-saggista a oltranza, che non ha paura di dilungarsi in un monologo di un paio di pagine, se c’è qualche “meccanismo sociale” da illustrare con minuzia e completezza. In questi casi, il narratore onnisciente non esita a concedere la parola a un qualsiasi personaggio principale o secondario, perché spieghi, durante un’amena conversazione, come i direttori di teatro a Parigi, ad esempio, intrattengono il favore dei critici, regalando loro quantità di biglietti, che questi stessi critici rivenderanno, creando un complemento di salario rispetto alla loro professione principale. Ciò che trovo interessante in questo procedimento balzacchiano, è che una pretesa verità sul mondo non venga né da un misurato narratore onnisciente manzoniano né da uno spassionato narratore naturalista, ma da qualcuno che è di parte, moralmente e emotivamente, in quanto implicato in quel mondo e quindi, assieme a una serie di dati di realtà, veicola anche le proprie ossessioni e i propri pregiudizi.
Nonostante l’alta temperatura speculativa, La vita adulta è anche un romanzo dall’alto tasso comico-parodico: le vicissitudini di Nina e Tommaso hanno un che di picaresco e, dietro i drammi (veri o presunti) delle loro vite, noi lettori scorgiamo sempre un sorriso sornione del narratore. Credi che il comico sia una cifra di questo romanzo e, in generale, uno strumento utile a fare emergere i caratteri salienti di una storia o di uno scenario? Ti rifai a una precisa tradizione per questo che è un tono ricorrente della tua narrativa?
Nella lunga risposta alla seconda domanda ti ho già in parte risposto. Quindi vedo di essere più succinto. Nel 2016, quando uscì, sempre per Ponte alle Grazie, il mio primo romanzo Parigi è un desiderio, ebbi la fortuna di essere presentato a Napoli da un amico studioso che stimo molto, Giancarlo Alfano. In quello stesso anno, Giancarlo aveva pubblicato un saggio importante e novatore: L’umorismo letterario. Una lunga storia europea (secoli XIV-XX). Fu lui, in qualche modo, presentandolo come tale, che mi rese consapevole di questo legame con la tradizione umoristica. Non so se Giancarlo consideri anche La vita adulta come un romanzo umoristico, io però sarei propenso a considerarlo tale. La chiave dell’umorismo romanzesco non è solo la capacità di far emergere aspetti comici nei personaggi o nelle situazioni, ma di scuotere la nostra fede nelle coordinate sufficientemente stabili riguardanti la realtà stessa. Nell’ultimo romanzo, il lavoro umoristico investe soprattutto la fisionomia dei due personaggi principali, tale da sollevare molti dubbi su ogni pretesa compiutezza che “la vita adulta” dovrebbe significare per entrambi. L’umorismo, investe, poi anche “i discorsi strutturati”, di cui è insuperato maestro Thomas Bernhard. I dialoghi non sono per me quella specie di collante narrativo che deve garantire una specie di sottofondo continuo, il ronzio della verosimiglianza. I miei personaggi fanno soprattutto delle “tirate”, amano “pontificare”, e in questo, che sia o meno percepibile per il lettore, vi è un uso “umoristico” della parola parlata, perché innanzitutto si costruisce in modo “anti-mimetico” e in secondo luogo può dare adito alle considerazioni più acute come alle più grande sciocchezze nel giro di una frase. Insomma, spero bene che appena prendano la parola, gli uni e gli altri, protagonisti come personaggi secondari, sul volto del lettore si disegni subito un piccolo sorriso d’incredulità, come quando si ascoltano, a fine pasto, certi discorsi fluviali che vorrebbero proporci una verità definitiva sul mondo.
Infine, una domanda più leggera che da sempre rivolgiamo ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?
Qui entriamo nel puro terreno delle fantasticherie. Io direi questo: lo sguardo del narratore nei confronti dei suoi personaggi, uno sguardo che è al contempo chirurgico e affettuoso, implacabile e fr