In attesa della cerimonia di premiazione della XXXVIII edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 30 aprile alle ore 18 in Sala Piatti di Città Alta (qui tutte le istruzioni per partecipare), proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Dopo Francesco Bianconi, Elisa Ruotolo e Andrea Inglese, parliamo oggi con Maurizio Torchio, in cinquina con L’invulnerabile altrove (Einaudi, 2021).
L’invulnerabile altrove è un romanzo che esplora una zona di margine della psiche umana, quella in cui la logica che siamo abituati a definire “naturale”, e che permette a ogni individuo di essere attivo e agente nella società, si altera, lasciando spazio a una diversa logica, più stringente ma che progressivamente isola l’individuo, lo lascia in preda di se stesso e delle proprie voci interiori. Da dove è nata l’idea di questo libro?
Leggendo cose sul transumanesimo sono incappato in un libro di John Gray, The Immortalization Commission, che parlava anche della Society for Psychical Research e di spiritualismo (termine che ha un’accezione un po’ diversa nel mondo anglosassone). I fondatori della Society for Psychical Research, in età vittoriana, erano eccellenti intellettuali che non cercavano un contatto con l’aldilà per sanare lutti privati, ma per capire cose sul mondo. Anzi, sui mondi. Non davano per scontato che il centro di tutto fossimo noi, i pochi viventi. A un certo punto, ad esempio, si convinsero di essere parte di un esperimento organizzato da un gruppo di scienziati morti… Insomma, l’aldilà non come riflesso depotenziato dell’aldiqua. Ha una sua autonomia, un suo sviluppo. Esiste una società dei morti.
Questo per me è stato estremamente stimolante.
Se cominci a immaginarti un aldilà, devi fantasticare anche su un sacco di altre cose. Ad esempio: dove nessuno muore, di cosa si ha paura? Se nessuno ha fame, di cosa si ha bisogno? Come cambiano le relazioni, sia fra gli umani che con le altre specie? Come si coevolve, come si fiorisce, con un tempo potenzialmente infinito a disposizione? E via così…
A partire da qui, dal soprannaturale, si è innestato il tema del disagio. La voce narrante sente una seconda voce in testa, una voce che sostiene di appartenere a una donna morta da più di cent’anni… Inevitabile si chieda: sta succedendo qualcosa di straordinario o sono soltanto malata? E che cos’è questa malattia? Riguarda solo me o anche l’altra, la donna dell’altrove? Riguarda il corpo, la mente, lo stare insieme… È contagiosa? È una colpa?
Guarire significa diventare più soli o meno soli?
La protagonista è una donna dei nostri giorni: è ancora giovane, ha un compagno e un amante, un lavoro da impiegata. La donna che parla dal Dopo, Anna, è a sua volta una donna: è morta in giovane età, ha lavorato nelle difficili condizioni a cui erano costretti operai e operaie d’inizio Novecento, ha avuto tanti figli e ha vissuto anche per strada. Questi due personaggi hanno caratteri ed esperienze di vita diversissime. Scegliere due donne per questo romanzo è stata una scelta spontanea o è l’esito di un preciso ragionamento? Ha comportato difficoltà per te calarsi in un’identità femminile – per di più sdoppiata?
È stata una deriva.
Entrambe hanno o avevano uomini. C’era spazio per molteplici triangoli, anzi poligoni amorosi, a cavallo fra l’aldilà e l’aldiqua – con quel che di fantasmatico che è proprio di tutte le relazioni, anche le meno soprannaturali. Questo all’inizio mi incuriosiva. Con l’evolvere del libro però gli uomini sono diventati sempre più marginali, strumentali. L’unica intimità che davvero contava era quella fra le due voci femminili.
Certo resta la domanda: perché proprio donne? Forse perché i maschi non sono in grado di far spazio a un’altra vita dentro di sé? I maschi sciamani di solito vanno nell’aldilà, fanno cose, e poi tornano. Per mantenere aperto un canale mi è venuto spontaneo pensare a due donne. O è un pregiudizio da inquisitore? Non lo so.
Quanto alla difficoltà… ha preoccupato molto anche me. Poi però mi sono detto: questo è comunque un libro arrischiato, inutile smussarlo. Ci sono lettori che apprezzano un doppio salto mortale, anche con qualche sbavatura, più di un inchino perfettamente eseguito.
L’invulnerabile altrove è anche un romanzo sull’aldilà, o comunque su una dimensione altra rispetto a quella della vita; e tra le cose che colpiscono di più c’è proprio il mondo del Dopo, quello da cui parla Anna. In alcuni passaggi ne abbiamo una descrizione più precisa, ma generalmente conosciamo questa dimensione ulteriore per frammenti e brevi illuminazioni: si tratta di una landa desolata, in cui il vento alza la sabbia di distese desertiche, bagnate da sporadici fiumi, mentre giorno e notte si alternano secondo ritmi diversi da quelli circadiani. A quale immaginario hai attinto per realizzare questo mondo? Ci sono state letture o visioni che ti hanno ispirato, e di che tipo?
Il deserto è uno degli altrove più a portata di mano che abbiamo. Lì c’è posto per lo straordinario, per le rivelazioni. Io non l’ho mai trovato angosciante, né standoci dentro né guardandolo da fuori (Herzog è fra i miei registi preferiti).
Il deserto l’ho sempre associato alle origini, non alla fine.
E così è nel libro. Chi, come Anna, è morto da poco più di cent’anni, è comunque fra gli ultimi arrivati. Sta muovendo i primi passi. Il deserto non è una maledizione, e nemmeno serve ad espiare alcunché. È piuttosto un luogo di decantazione, di chill out, tra il frenetico calpestarsi del Prima e le nuove relazioni da costruire, per tentativi, attraverso gli eoni, nel Dopo.
Infine, una domanda più leggera che da sempre rivolgiamo ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?
Beh… dipenderà da quanti giurati apprezzano i salti mortali.