Nei primi di aprile lo Strehler di Milano ha accolto Il Purgatorio – la notte lava la mente, tappa iniziale di una lunga esplorazionedella Commedia, intrapresa da Federico Tiezzi (che ne ha curato la regia), sulla linea del testo riscritto in chiave moderna da tre grandi poeti del secondo Novecento: Mario Luzi (per il Purgatorio), Edoardo Sanguineti (per l’Inferno) e Giovanni Giudici (per il Paradiso). Sin da subito colpisce la scelta registica di non seguire il tradizionale corso della narrazione, partendo da questa cantica di mezzo, per rendere conto di un certo intuibile intento che soggiace allo spettacolo. Esso potrebbe essere espresso riflettendo in primis sulla radice etimologica della parola purgatorio: la stessa del latino purus (puro) e del greco pyr, pyros; il fuoco, l’elemento purificatore per eccellenza, attraversato da Dante insieme a Stazio e Virgilio (Purg. XXVII), poco prima del congedo da quest’ultimo. Ciò che si percepisce infatti è che l’intera pièce, tramite un’attenta virtualizzazione teatrale, tenta di immettere lo spettatore in un tempo transitivo, che sembra proprio accompagnarlo a quel passaggio del fuoco compiuto dai poeti. Il Purgatorio è la cantica del tempo, l’unico mondo ultraterreno nel quale «il tempo esiste» – come afferma il poeta Mario Luzi –, perché si percepisce nel suo trascorrere e nella sua tangibile sospensione. Di contro, all’interno delle altre due cantiche vige l’eterno, l’eterna dannazione o l’eterna beatificazione; perciò il Purgatorio è il più terrestre dei mondi creati da Dante. La terra rappresenta per Tiezzi il punto di partenza, non il refugium peccatorum; è sulle rive di un mondo trasfigurato dal sogno e dalla grazia divina, che si sperimenta il tempo: siero che cura le anime. Il viaggio in quest’ottica potrebbe essere inteso, non solo in qualità di momento transizionale, ma anche come vero e proprio rito di guarigione, celebrato in risposta al vivido e comune desiderio di purificazione, che solo un cerimoniale sacro, il teatro o una grande opera letteraria possono adempiere.
D’altronde la rappresentazione prende avvio proprio in una sorta di sanatorio, di sala d’aspetto ospedaliera. Della solita spiaggia di cui ci hanno tanto parlato a scuola non c’è traccia, nemmeno di quella vagheggiata durante le nostre letture solitarie. Piuttosto si assiste alla messa in atto di un luogo dimenticato, interiore e liminare, illuminato da un grigiore asettico delle prime ore mattutine; luogo in cui, come sonnambuli smarriti e avvolti in coperte termiche – simili ai corpi aurei e astratti di Klimt –, le anime “profughe” vengono smistate e si preparano a scontare la propria pena (inevitabile riferimento ai flussi migratori, alle morti che ne vengono). Accompagnate da un angelo nocchiero da una sola ala – espediente costumistico che trasmette sin da subito alla scena un senso di disequilibrio e incompletezza (la stessa vissuta dal pellegrino come dai penitenti) –, esse si uniscono in un unico corpo, cantano e danzano, nel fruscio che sostituisce al frastuono infernale un’aria sacra di sospensione.
La musica, per l’appunto, è un elemento fondamentale dell’inframondo della Commedia, e Tiezzi sembra esaltarlo con l’inserimento di sketches, che spaziano dalle composizioni per liuto del periodo elisabettiano di John Dowland, ai Radiohead. Il riguardo riservato al canto, però, risiede in primis nel ritorno alla parola voluto dal regista, ad un testo vivo riproposto – non a caso – nella versione riscritta da un poeta di eccezione come Mario Luzi. Il capolavoro di Dante in fondo, nel contesto culturale trecentesco in cui nasce, era già destinato alla lettura ad alta voce, alla declamazione nel rispetto della prosodia, che muta il testo poetico in canto. Un ritorno alle origini quello di Tiezzi? Certo, ma anche un lavoro di aggiunta e originale riformulazione, che permette allo spettatore di accedere a territori dell’immaginario inediti e a dimensioni dell’opera mai visitate.
A conferma di ciò, si potrebbero menzionare alcuni quadri particolarmente incisivi: la prima apparizione della montagna purgatoriale, la vertigine suscitata in questa scena da semplici assi di legno sollevati in verticale, su cui tutto crolla: la scenografia, insieme ai relitti della vita – la scenografia di un’intera vita! –; gli oggetti, i bagagli, i luoghi familiari, che si abbandonano per potersi consegnare ad un lento mutamento e in fine all’approdo di un nuovo vuoto. Come dimenticare poi la Beatrice di Tiezzi (resa viva da un’intensa Leda Kreider), questa donna-porta di luce, composta in veli bianchi dall’aria di regalità aliena – la porta. Ancora una volta il tema del passaggio, da leggere stavolta soprattutto in rimando all’imago Christi,che l’angelicata non ha mai smesso di significare: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore (…) Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10 1-10).
Queste alcune creazioni e trovate registiche particolarmente accattivanti, ma in effetti, dall’inizio alla fine, la rappresentazione tiene accesa la curiosità negli incontri, cerchio dopo cerchio, personaggio dopo personaggio: da Casella a Belacqua, da Manfredi a Sordello, da Adriano V a Stazio, da Pia de’ Tolomei a Matelda. Un breve accenno a «la Pia», la triplice Pia de’ Tolomei, riproposta in un quadro più espanso dell’originale, che si ripete in tre figure attoriali, le quali fanno eco a quella stessa voce intrappolata in un loop. Chi, tra i lettori di Dante, non ha mai desiderato almeno una volta quei versi splendidi si protraessero, anche solo per qualche terzina ancora? Tiezzi si fa testimone di tale impossibilità, portando alla luce da una parte i capricci del lettore, dall’altra sollevando una questione sull’autorialità – tutt’altro che capricciosa, anzi complessa e delicata –, su ciò che in arte è riproduttivo, ciò che è rielaborativo. Una vera opera è quella che nessun altro – al di fuori del suo stesso autore – potrebbe continuare? E cosa vuol dire allora continuare, inserirsi all’interno di un canone letterario e artistico? Non c’è tempo, non c’è risposta.
Come non citare poi Belacqua, il personaggio tanto amato da Beckett, che ne aveva fatto archetipo disperato dei suoi Valdimiro ed Estragone, anche loro espulsi dalla vita, fissati in una attesa inesorabile e definitiva. «Come l’ubriaco aspira al penultimo ultimo bicchiere (quello della sazietà) e non all’ultimo (quello della perdita della coscienza), così i dannati di Beckett sono creature penultime, che la vicenda, teatrale o narrativa, porterà alla fine. Penultimi sono i “giorni felici”, penultima è la giornata di Estragone e Vladimiro, penultime sono le posture dei personaggi beckettiani, capaci di penultima felicità, penultima attesa, penultima disperazione». Cito dalla nota introduttiva di Ginevra Bompiani a L’esausto di Gilles Deleuze (Nottetempo, 2015), saggio che rende davvero consapevoli di quanto gli esausti, i seduti, gli sdraiati beckettiani debbano al personaggio di Belacqua e di quanto questo sentimento di penultimità, scovato da Deleuze in Beckett, sia in effetti una costante di tutta la cantica del Purgatorio.
Ad ogni modo, di personaggi degni di nota ce ne sarebbero molti, tutti intercalati in cornici scenografiche minimaliste, ma sempre di gran effetto e incisività. Uno tra questi Adriano V, l’avaro (nell’interpretazione del multiforme e instancabile Salvo Drago), non solo schiacciato al terreno come nel testo originale, ma legato alle caviglie, prigioniero del vizio, che lo aveva trasformato in poco più di una bestia. Stazione dopo stazione, i due poeti – Dante (magistralmente interpretato da Sandro Lombardi) e Virgilio (sotto le vesti di un energico Giovanni Franzoni) – si muovono a tentoni, come i ciechi di Bruegel, l’uno con la mano sulla spalla dell’altro, l’uno il maestro e l’altro il discente, l’uno il padre e l’altro il figlio, senza sapere alla fine chi è l’uno, chi l’altro. Tanto è vero che Virgilio è costretto a farsi da parte, per permettere a Dante di superarlo, di compiere il suo destino, per il quale il pellegrino, nella realizzazione teatrale di Tiezzi, finisce con il ritrovarsi su un lettino da psicoanalista! Ironia tragica, anche questa. È possibile che proprio dietro la figura dello psicoanalista si celi lo spettro di un dio infigurabile che tutto muove o le postreme parole (preghiere?) di un uomo sulla soglia del suo pentimento e della sua possibile rinascita sono consegnate al nulla? Di certo questa matrice freudiana dello spettacolo fa riflettere sulle false divinità che l’uomo del nostro secolo è in grado (rischiosamente) di crearsi; oltre a far valere parallelamente il tema del sogno tanto caro a Dante, quanto a Tiezzi. D’altra parte se, come scrisse Singleton, il pellegrino Dante Alighieri rappresenta l’«everyman», anche noi avremmo la possibilità di sognare attraverso lui, di sognare il sogno d’ogni uomo, di ogni tempo.