L’immagine di copertina sorprende giocando con una Rückenfigur. Un omino di spalle vestito in abiti moderni è spinto al margine della pagina per lasciar spazio alla maestosità del paesaggio d’una Grande Mela che a prima vista assomiglia a Rio de Janeiro: lo skyline risalta per contrasto cromatico con una baia d’un ipnotico indaco misto a rosso ciliegia, mentre la punta dell’Empire State Building sfiora la scritta bianca a pennarello del titolo, rivelando un perfetto equilibrio visivo; ma a ben vedere, ci si accorge che la supposta baia non è altro che il lago d’Iseo, con Montisola a scandire la metà del percorso dello sguardo. New York era piena di zigomi (postmediabooks, pp. 200. 21 euro), primo graphic novel dell’artista e scrittore bresciano Gabriele Picco, racchiude una vicenda «vera al 99%» (così il frontespizio) che si lascia leggere in un pomeriggio, strappando risate e una punta di nostalgia, anche perché è evidente che l’America descritta risale al pre-undici settembre.

La trama è volutamente esile: Gabriele, giovane artista italiano di successo, si trasferisce nella New York d’inizio millennio per tentare il salto a livello internazionale, scontrandosi con le follie dell’art world statunitense e con le proprie idiosincrasie. Oltre alle gioie dell’eros — di qui il titolo, allusione alla prima ragazza di cui, ossessionato dai dettagli, si invaghisce — scoprirà una costellazione di personaggi improbabili (o fin troppo reali: curatori arrivisti, artisti saputi, mercanti senza scrupoli), imbarcandosi in un viaggio che lo porterà a mettere in discussione gli astratti furori che lo avevano spinto a partire per poi trovare la sua vera voce non lontano da casa. Ma a ben vedere, questo Bildungsroman alla rovescia (sette capitoli, prologo, epilogo e dedica finale) non è che un pretesto per raccontare per parole e immagini il delicato passaggio dalla pagina bianca della giovinezza alla difficile consapevolezza che accompagna l’età adulta.

Ognuno troverà in questa autofiction visuale ciò che preferisce. Gli addetti ai lavori sorrideranno nel riconoscere dinamiche tipiche del mondo dell’arte, con i tortuosi, irrisolti rapporti tra artisti, curatori, galleristi e collezionisti (si potrebbe scrivere un apposito saggio su come le rispettive figure si spalleggino o evitino a vicenda). Nei capitoli d’apertura, Nuovo Mondo e Guggenheim, la voce narrante ironizza sulla rapacità del proprio milieu riportando un dialogo avvenuto davanti a un food truck tra il sé stesso ventiseienne e un altrettanto giovane Massimiliano Gioni, all’epoca redattore di “Flash Art”, attraverso una serie di battute dispiegate sulla pagina come in una chat Whatsapp: «“Picco, vuoi sfondare a New York o cosa?” “Si. Ma tu solo quelli dell’arte?” “Avessi voluto fare il fruttivendolo magari avrei frequentato solo gli ortomercati. Che dici?” “Non fa una piega” “Ecco allora datti da fare, vai alle inaugurazioni e…”». Più avanti ci viene incontro anche Maurizio Cattelan, rivelando una sicurezza nel proprio avvenire che Gabriele sente di non avere: «Tu hai le idee cosi chiare? Io so di essere un artista. Ma voglio che la vita mi sorprenda e spesso non ci capisco una fava di niente». 

Gli appassionati di pittura invece coglieranno i riferimenti impliciti e scoperti disseminati dall’autore al proprio mondo di sculture stranianti, dipinti visionari e “disegnacci” irriverenti alla Shrigley (un solo esempio: il settimo capitolo, Italia, riporta in pagina un disegno a penna biro di Nuvola, uno dei più bei lavori di Picco). I fumettari probabilmente apprezzeranno un’impostazione che rivela una crescente padronanza dei diversi livelli del racconto visivo: mentre il ritmo della prima metà del racconto disegnato risulta lento, a causa dell’eccessiva presenza di testo e di un indugiare in assoli grafici che rivelano una formazione pittorica, la seconda metà è senz’altro più mossa, grazie alla combinazione tra minor componente verbale e uno studio più accurato delle inquadrature, con frequenti semisoggettive che portano all’immedesimazione. Il racconto diviene via via più incalzante, come se l’artista si fosse adattato alle norme d’un diverso codice — pur mantenendo la freschezza del segno tipica di chi arriva al graphic novel da ambiti limitrofi (freschezza sottolineata dalla scelta tecnica: Picco ha utilizzato di proposito soltanto la penna biro, senza alcuna aggiunta in post-produzione, e l’inventiva nasce anche dall’operare all’interno di una contrainte).

Difficile disegnare genealogie per un ‘fumetto d’artista’ volutamente anticanonico. Si percepisce una certa ammirazione per Zerocalcare e Igort, ma i principali echi sono rintracciabili (e non a caso, si direbbe, visto il doppio talento di Picco) in lavori prodotti da non professionisti della strip. Gli omaggi più ricorrenti sono tributati a un graphic novel nel complesso non tradizionale come Poema a fumetti di Dino Buzzati, cui queste pagine sembrano guardare sotto più punti di vista, dalle scelte tematiche — su tutte l’ossessione amorosa e il dialogo con l’aldilà — al lettering, o ancora attraverso veri e propri calchi visivi presenti nelle scene erotiche. Nel volto dell’impiegata delle poste di cui, tornato a casa dopo la deludente esperienza americana, Gabriele s’innamora a prima vista riconosciamo Eura, più in particolare la scena del dono dell’anello; la sensualità di Alma, la ragazza che lo ossessiona durante la permanenza newyorchese, è invece costruita a partire da quella delle ‘streghe della città’. Se comune ai due autori è l’attenzione all’eros come desiderio-di-morte, il tono sapienziale che contraddistingue certe sezioni del Poema è del tutto abbandonato a favore del comico, registro più congeniale all’animo da enfant terrible di Picco.

E il dato più convincente di New York era piena di zigomi sta proprio nell’offerta d’una testimonianza ironica e spietata della scoperta di sé unitamente all’elogio del sapersi disperdere, dell’essere più cose assieme in una società che ci vuole sempre più specializzati (il che riporta alla mente certi stralci di Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio, altro spaccato del mondo dell’arte contemporanea offerto da un insider). Restando all’interno del genere, immediato è il confronto con La profezia dell’armadillo e soprattutto Strappare lungo i bordi, epica per antonomasia della giovinezza perduta; ma in questo libro senza dubbio più artigianale, ‘sporco’ — il senso di Zerocalcare per il ritmo del racconto disegnato è inarrivabile — troviamo ciò che lì avevamo cercato invano: uno sguardo dall’interno al mondo lavorativo cui si appartiene, l’autentico spaesamento di chi il successo lo ha raggiunto precocemente, al punto da non saper che farsene. 


Gabriele Picco, New York era piena di zigomi, postmedia books, Milano 2021, 200 pp. 21,00€