Fabrizio Venerandi, classe 1970, scrittore poeta programmatore, è uno dei pionieri italiani della poesia elettronica. Il suo ultimo libro, edito da Argo con la cura e la creatività grafica a cui ci ha abituati questo editore, porta il titolo spiritosamente programmatico di Niente di personale e raccoglie diversi esperimenti più o meno ludici accomunati, appunto, dall’eclissi dell’io lirico: dietro la macchina e l’algoritmo, che hanno consentito l’assemblaggio di questi testi, ma soprattutto dietro la collettività anonima del Web, che ne ha fornito la materia. Va da sé che, come in tutte queste scritture più o meno ostentatamente impersonali, l’intervento decisivo dell’autore il cui nome appare in copertina c’è eccome, in fase di pianificazione e alla plancia di comando.
Il libro consta, in realtà, di due parti molto diverse: la prima si fonda su un lavoro di montaggio, la seconda su uno di smontaggio. Aprono la raccolta quattro sezioni che riassemblano materiali ‘ignobili’ provenienti dalla Rete: messaggi d’errore (error poetry), spam (spam poetry), annunci commerciali (news poetry), e autentiche frasi inserite in motori di ricerca (You are looking for you), queste ultime a comporre un vero e proprio «porno-poemetto» (così la quarta di copertina: il tema pornografico è in effetti dominante, anche se non esclusivo, come si vedrà). L’ultima sezione, Words from the afterlife, propone invece l’intera Commedia dantesca risequenziata in ordine alfabetico, punteggiatura compresa.
La prima parte del libro si differenzia dall’altra anzitutto perché è possibile (e, a seconda dei gusti, piacevole) leggerla. In effetti, è una lettura che fa più volte scoppiare a ridere. I migliori esiti della letteratura di ricerca contemporanea sono spesso di ordine comico, come provano – fra gli altri – molti libri di Marco Giovenale, molti testi di Manuel Micaletto, e come ha capito Leonardo Canella nelle sue Nughette. A parte il caso di Canella, che di quelle scritture ha accortamente selezionato la componente più leggera e umoristica, si tratta di autori che intrecciano a questo filone uno più ‘serio’, filosofico e/o lirico, vuoi in pubblicazioni parallele, vuoi mescolato nella stessa pagina. Ma tutti ottengono questi effetti mettendo tra virgolette il mondo e il linguaggio, in modo da farne percepire l’insensatezza: ne risulta una comicità fredda, un deadpan metafisico.
Un simile effetto di straniamento producono gli accorti montaggi di Venerandi, in modo ancora più smaccato considerato che il materiale di partenza in questo caso è già vilissimo di suo. L’operazione, infatti, non è tanto decontestualizzare cose, situazioni e parole per farne percepire la presunta assurdità (gioco fin troppo facile, dato che qualunque significato dipende da un contesto), ma – quasi all’opposto – creare un contesto per la spazzatura più desolatamente dozzinale, estraendone le potenzialità ritmiche, comiche, imaginifiche.
È un gioco che a livello meno impegnativo abbiamo fatto in tanti. Diversi blog, per strappare una risata ai lettori, pubblicavano periodicamente liste delle chiavi di ricerca più buffe; e una ‘poesia’ messa insieme con gli oggetti della spam a tema pornografico l’avevo scritta anch’io a vent’anni, né credo di essere l’unico. Un poeta di talento come Simone Burratti, che dei googlismi fa un uso mirato, ha fatto la stessa cosa in Cronologia, un testo del suo notevole Progetto per S. (2017). Ma Venerandi prende sul serio il suo gioco e realizza un vero poema, dimostrando un orecchio strutturale molto fine nella selezione e nella composizione. Pescando esclusivamente in un materiale ‘trovato’, fa emergere pattern ricorrenti, dissemina il testo di refrain, ottiene effetti di bathos da giustapposizioni inattese («ho visto dio | erezione non si abbassa»), suggerisce piccole azioni drammatiche grottesche («mio figlio mi spia | perche’ molte donne coprono la serratura del bagno | mi masturbo e penso mio figlio»). Certe figure dell’immaginario pop ritornano ossessivamente (papa Wojtyła, Simona Ventura, Lara Croft, Lapo Elkann…), e alla filigrana pornografica s’intrecciano temi secondari, ora occasionali e ridicoli (il galletto amburghese), ora ricorrenti e significativi, come quello della scrittura e della cultura ‘alta’ («la filosofia della composizione di poe», «laborinthus ii berio»). Non mancano frammenti che in mezzo al becerume producono un effetto incongruamente lirico-espressionistico («mangiare la ghiandola pineale», «sento il cervello che si contrae»). Ma esempi isolati non rendono giustizia a un testo che vive di variazioni nella ripetizione. Si tratta di un’opera che si presterebbe molto bene a una sapiente esecuzione orale, e non mi stupisco di apprendere che Venerandi è anche performer.
Un altro modo di leggere questa operazione è come confronto con la tecnologia. Venerandi, infatti, fa per Internet quello che le varie avanguardie avevano già fatto per altre forme di comunicazione partorite dalla modernità: la Neoavanguardia di fronte alla lingua di plastica della televisione, certo, ma già Palazzeschi aveva trascritto nella sua futuristica Passeggiata le réclame di primo Novecento (e si sa quanto questa poesia, similmente all’omonima Passeggiata di Soffici, debba alla Grande Complainte de la ville de Paris di Jules Laforgue, datata 1884); anche un provocatore isolato e bizzarro come Antonio Delfini attorno al 1940 componeva poesie con titoli di giornale ritagliati e incollati. Si potrebbe ipotizzare, insomma, che ogni volta che il nostro sistema nervoso viene bombardato da nuovi media e va in sovraccarico, di modo che il flusso di dati sembra perdere ogni significato, nasce come reazione un’arte che cerca di riprodurre in vitro quel caos, vuoi per denunciarlo, vuoi per ricondurlo a un senso. La tarda modernità, in particolare dopo la rivoluzione digitale, ha accorciato i tempi di questi cambi di paradigma, moltiplicando le occasioni per le rielaborazioni artistiche del trauma. Così, a un livello più profondo i collages digitali di Venerandi si possono leggere come una riflessione sugli algoritmi che ormai organizzano le nostre vite.
Diverso, e complementare, è il significato della Commedia atomizzata che occupa l’ultima parte del libro. In questo caso, contrariamente alle prime sezioni, si tratta di un testo che non è possibile né piacevole leggere: il suo valore sta tutto nell’idea, secondo la più pura tradizione dell’arte concettuale. Se dunque è possibile – e forse preferibile – leggere la spam poetry e il porno-poemetto per i piaceri testuali che possono offrire, scordandosi delle eventuali implicazioni sociologiche, in Words from the afterlife la poesia sperimentale pre(te)nde quella natura di installazione artistica (sia pure con materiale verbale) riconosciutale, fra gli altri, da Paolo Giovannetti.
Va notato, anzitutto, che anche in questo caso l’idea non è nuova: dieci anni fa, l’oulipiano Ambroise Perrin aveva già compiuto la medesima operazione sul capolavoro flaubertiano, in Madame Bovary dans l’ordre (2012). In un mondo di digital humanities, quella di Venerandi (e di Perrin) può sembrare la parodia di certa critica neopositivistica che fa analisi lessicostatistiche sui corpora. Ma, come nota Julian Barnes a proposito della fatica di Perrin, si tratta di un’operazione «vaguely witty, yet mind-numbingly useless», perché, a differenza degli indici effettivamente concepiti come strumenti di lavoro per gli studiosi, omette i luoghi testuali: possiamo imparare che Flaubert usa ecchymoses una volta in tutta la Bovary, e adultère(s) undici volte, ma non dove li usa; Venerandi ci insegna che nel poema dantesco abbiamo un pelato e due Argo – ma dove?
Non so se Venerandi intendesse effettivamente fare una sorta di parodia della critica; ma certamente Words from the afterlife invita a riflettere sulla natura della creazione poetica. Se la Commedia è una cattedrale gotica, Venerandi ce ne presenta le singole pietre accuratamente allineate sul sagrato, divise per colore e dimensione. Per mettere insieme quelle pietre ci voleva un Dante; ci vuole uno scaltro ed esperto sabotatore come Venerandi per avere l’idea di disassemblarle: ma saprebbe rimetterle insieme? No, come d’altronde nessuno di noi umani del XXI secolo, temo, saprebbe più concepire un lavoro analogo in nessun medium, mentre ancora cent’anni fa un Proust era capace, in prosa, di erigere una cattedrale degna di sfidare quella dantesca.
Dunque, per certi versi questa parte del libro è, come già detto, il rovescio della prima: là Venerandi mostrava talento di scrittore nel montaggio di scorie impoetiche; qui si esibisce in un’opera di smontaggio che non richiede alcun talento linguistico-letterario, e anzi implicitamente ne rivendica l’assenza (almeno a confronto di quello dell’Alighieri). La seconda parte è stata quindi inserita solo per contraddire la prima, e come irriverente e antiretorico contributo al settimo centenario dantesco, o c’è una concordanza profonda fra le due anime del libro? Per Gabriele Esposito, «le nude parole dall’aldilà, private completamente dal loro contesto, vengono messe in contrapposizione a parole che provengono da altri mondi altrettanto alternativi al nostro quanto potrebbero esserlo Inferno, Purgatorio e Paradiso», cioè le varie dimensioni di Internet. Mi sembra una chiave di lettura corretta, a patto di ricordare che per l’uomo medievale i tre regni dell’oltretomba non erano affatto ‘irreali’ o ‘alternativi’ alla realtà terrena, bensì lo specchio di essa: e come Esposito ricorda, la copertina di Niente di personale ha un effetto a specchio. Nei mondi ultraterreni di Dante è eternata in tutti i suoi vizi la società fiorentina (e non solo) del suo tempo; noi siamo raccontati, impietosamente, dalle nostre ricerche su Google. Ecco il senso del titolo You are looking for you: l’insieme di queste ricerche ci mette di fronte a noi stessi, le nostre ossessioni e perversioni, le pulsioni i tic e il ciarpame di tutta una civiltà.
Saremo dunque ricordati come quelli che cercavano compulsivamente «ingoio sperma bambine» e «culo spappolato da oggetti»? Come tutti i ritratti satirici (per tornare, etimologicamente, dalla comedìa alla comicità), quello qui imbastito è necessariamente unidimensionale. I procedimenti antiumanistici della poesia di ricerca, potenziati dall’informatica, hanno consentito a Venerandi di costruire un originale Inferno contemporaneo. Ma sarà un caso che in questo libro manchi un Paradiso? Sarebbe interessante capire se, con le stesse tecniche, si riuscirebbe a scriverne uno.
Fabrizio Venerandi, Niente di personale, Ancona, Argolibri, 2021, €15.