Identità, famiglia, memoria: potrebbe essere uno slogan di Le Pen. Sono invece i termini chiave per comprendere l’ultimo romanzo di Yasmina Reza, Serge. Un romanzo breve, un romanzo-sceneggiatura, come molti altri dell’autrice. Al centro del libro, la famiglia Popper. Il narratore è Jean, un uomo di mezza età che in fondo non riesce del tutto ad affrancarsi da un’infanzia triste, trascorsa con i genitori e i fratelli Serge e Nana. La generazione precedente, composta dal padre Edgar e dalla madre Marta, è di origine ebraica ungherese e ha perso genitori e fratelli durante l’Olocausto. La famiglia Popper è quindi allo stesso tempo figlia e vittima di una cesura. Figlia, malgrado tutto, perché senza di essa nessuno sarebbe chi è: i genitori non si sarebbero incontrati, i loro figli non sarebbero francesi. Vittime, ovviamente, perché la rottura della continuità intergenerazionale comporta perdite economiche ed esistenziali incalcolabili, crisi d’identità e dolori famigliari che confinano con l’indicibile.
Serge è quindi in prima battuta un romanzo famigliare; ma è anche un esempio di quella letteratura ebraica che ha operato per secoli su una scala transazionale e ha in Isaac Bashevis Singer e Saul Bellow, per dirne due, alcuni dei suoi principali riferimenti canonici del Novecento. L’ultimo libro di Reza è quindi tragico per temi, ambientazione, contesto; ma è anche ricco di umorismo, momenti di involontaria comicità. I membri della famiglia Popper ben si prestano a questo tipo di empatica, ma sorridente rappresentazione autoriale. Jean è un uomo, ma è essenzialmente un ragazzino pieno di dubbi nei confronti della vita e della sua condizione di padre. Guarda al fratello maggiore Serge, l’antieroe eponimo del libro, con la stessa sudditanza con cui lo guardava da bambino. Dopo la morte della madre Marta, Nana è da poco diventata la donna più anziana della famiglia. È sposata con un francese di origine spagnola, Ramos Ochoa, con cui ha un figlio, Victor, che nutre ambizioni piuttosto concrete nell’ambito della gastronomia stellata. Ramos vive grazie a reddito di cittadinanza, assegni familiari, lavori saltuari e mal pagati. Gli snob Jean e Serge, pur piuttosto progressisti sulla carta, guardano a Ramos e alla famiglia di Nana, dove “sono tutti di Podemos” e “si sentono fieramente pezzenti”, con estrema sufficienza e malcelato disprezzo.
Serge è burbero, scontroso, per nulla di facile o piacevole compagnia. Se la prende con la figlia Joséphine che vuole fare l’estetista (la make-up artist, dice lei) e che pronuncia male Auschwitz: “Il fallimento dell’istruzione!”, grida Serge. Si lamenta di tutto e di tutti: le sue frasi sono spezzate, una serie di improperi e di considerazioni pungenti, più che segmenti di un discorso coerente. Risulta spesso odioso e anacronistico nelle sue convinzioni maschiliste e classiste: come quando, verso la fine del libro, lancia insulti omofobi al figlio della sua ex compagna italiana (Valentina), reo di indossare un paio di occhiali rosa mentre balla alla sua festa di compleanno. È questo l’evento che segna una rottura significativa, anche se non decisiva, dei rapporti tra Jean e Serge. Serge ha avuto mille donne, tra mogli ed amanti. Ha avuto certamente qualche successo importante a livello lavorativo ed economico durante la sua esistenza, ma il tempo della cuccagna è terminato. Ha come unico obbiettivo quello di supportare, di malavoglia, le ambizioni (a suo dire spiantate) della figlia Joséphine. Più di tutto, vorrebbe lasciargli una casa.
Il desiderio di lasciarle una casa: la necessità di lasciare qualcosa in eredità, il segno tangibile di un lascito intergenerazionale che possa sopperire, almeno in parte, alla mancanza di un’eredità morale e famigliare altrettanto tangibile. Che cosa hanno lasciato i genitori, e in particolare i modelli di riferimento maschili, a Jean e Serge? Il padre Edgar era violento con i figli e con la madre Marta. Convinto sionista, litigava spesso con la moglie accusandola della irreligiosità dei figli, a cui ricorda che i peggiori antisemiti sono proprio gli ebrei (c’è una genealogia culturale perversa dietro certi stereotipi e tic verbali che ci potrebbero apparire, proprio in questi giorni, come soltanto attuali). Gli ha insegnato che in casa l’uomo deve comandare, se necessario a cinghiate, e deve sempre avere ragione. Maurice, un lontano cugino di Edgar, è stato uno sciupafemmine; ora si trova in un letto di ospedale, circondato da una turba di vecchie amanti ed ex mogli. Pensa che le donne siano “crocerossine nell’anima, adorano rimboccare le coperte e stendere il lenzuolo funebre sui morti”. Per il resto, nella sua ultima degenza, che non sembra avere altro sbocco che la morte, “si rompe le balle”.
Come mettere una pezza a questo “mal d’identità”, come lo ha chiamato l’autrice in un’intervista, che affligge i personaggi di Serge? Come sopperire a quel vuoto famigliare, morale, sostanziale, che ne impedisce la crescita e un’apprezzabile maturazione? La memoria, simulacro della ricostruzione di un’identità e della permanenza di storie collettive ormai perdute, sembrerebbe offrire una risposta. Joséphine esprime a un certo punto il desiderio di andare ad Auschwitz. Serge, Jean, Nana e Joséphine acconsentono e tutti insieme visitano Auschwitz e Birkenau. Il viaggio è il nucleo centrale di Serge ed è costellato, come il resto del libro, di momenti paradossali e non privi di una certa comicità. L’ultimo romanzo di Reza è, vale la pena ribadirlo, un’opera molto luminosa. Altrove, nella produzione narrativa di Reza, piccole bagatelle e lievi incomprensioni rivelavano a poco a poco la naturale ferale dell’uomo e del consorzio civile. Qui, si opera in senso opposto: il Male assoluto (con la M maiuscola per definizione) dei campi di concentramento nazisti svela, nella generazione della postmemoria, tratti di irriducibile umanità, per quanto nascosti nelle pieghe delle reciproche incomprensioni e delle mute antipatie che innervano sensibilmente i rapporti tra i personaggi. Apparentemente, la visita nei campi di concentramento sembra allontanare ancora di più i membri della famiglia Popper (Serge e Nana in particolare). Forse, invece, è ciò che garantirà un legame più duraturo tra di loro, come il proseguimento del libro e il finale in particolare potrebbero suggerire.
Sulla memoria, però, Jean ha parole cariche di dubbio:
Riprendiamo a girovagare nei vialetti del campo. Ricordati. Ma perché? Per non rifarlo? Ma lo rifarai. Un sapere che non è intimamente in relazione con sé è vano. Non ci si deve aspettare niente dalla memoria. Questo feticismo della memoria è un simulacro. […]
Questi onnipresenti filari di pioppi! Probabile che in inverno offrano lo spettacolo di un’aridità più dignitosa. È pulita questa caserma, geometrica, ben tenuta. È un museo. Un quadrato di limbo riorganizzato a beneficio del visitatore contemporaneo. Un nobile gesto che opacizza.
E ancora, a viaggio terminato:
Non ho saputo comportarmi emotivamente in questi luoghi dai nomi cosmici, Auschwitz e Birkenau. Ho oscillato tra la freddezza e una ricerca di commozione che altro non è che un certificato di buona condotta. Allo stesso modo, mi dico, tutti questi ricordati, tutte queste furiose ingiunzioni di memoria non sono forse altrettanti sotterfugi per spianare l’evento e riporlo in buona coscienza nella storia?
Tra storia e memoria vige un rapporto dialettico e per nulla pacifico. Ne hanno già parlato in tanti: Todorov ed Enzo Traverso su tutti. Ciò non impedisce che nell’ambito dello scontro/incontro tra storia e memoria si giochino ancora molte delle diatribe etiche e politiche dell’Italia: foibe, giornata del ricordo, celebrazioni e contro-celebrazioni del 25 aprile… Senza eccessivo moralismo, occorre sottolineare che dalla critica gentile di Reza, per nulla connivente con le istanze reazionarie dei revisionismi di parte, c’è qualcosa da imparare.
Memoria, famiglia, identità: sono termini ambigui, politicamente connotati, forse irrimediabilmente corrotti. Reza ne è ovviamente consapevole, eppure nel suo Serge dà voce a una generazione (che è anche la sua, date le vicende famigliari dell’autrice) che appare realmente priva di appartenenza, realmente deprivata di un’identità intergenerazionale, nazionale, famigliare. Ciò che per altri, nel mondo della destra identitaria in particolare, sono metafore forzose, per i Popper è verità letterale. Una verità che emerge dalle dissonanti voci dei membri della famiglia. Serge, nonostante il titolo, è un’opera corale. Le voci dei diversi personaggi sono distinguibili, ognuno parla un suo linguaggio, riconoscibile e a sé stante — tratto caratteristico della narrativa di Reza in generale. Perché questo titolo, allora? Perché Serge e non Jean o Nana? Serge è l’esemplare di una specie in via d’estinzione (sembrerebbe). Un tipo di uomo (soprattutto nel senso di ‘maschio’) al tramonto. Le sue credenze, le sue prospettive di vita, fragili e ricavate da un’educazione storta e da una storia famigliare a dir poco complessa, sono in crisi e nemmeno i suoi fratelli sono più in grado di condividerle (o, semplicemente, di sopportarlo).
Serge si rende conto di ciò e si lascia cogliere, in maniera progressiva ma sempre più evidente nel corso del romanzo, dal cupio dissolvi. Fantasie e atti di autodistruzione si incarnano simbolicamente in un episodio. Ricordandosi di un passaggio de Il blasfemo di Singer (il romanzo che Serge si porta dietro durante il peregrinaggio ad Auschwitz), in cui l’autore racconta di un incontro in una tavola calda dove si parla di “conoscenti che l’ultima volta che ho visto mangiavano budino di riso e prugne cotte e adesso sono sottoterra” , Serge si intestardisce nel voler trovare un ristorante che offra budino di riso e prugne cotte nel menù, rovinando in tal modo la pausa pranzo a tutti i suoi famigliari. Serge di Reza va quindi letto come un esempio di letteratura ebraica, umoristica e disperatamente tragica allo stesso tempo. Inoltre, Serge è anche un tentativo di letteratura memoriale. Il racconto che il narratore Jean imbastisce, per nulla celebrativo o nostalgico nei confronti del tipo di uomo che con Serge tramonta, ha però come obbiettivo (forse utopistico) quello di ricostruire un nesso intergenerazionale tra chi i Popper erano, chi sono e chi saranno. Per sopperire infine a quell’incapacità del figlio piccolo di Jean, Luc, che quando legge una favola che appare come un’evidente mise en abyme della storia dei Popper, è tanto preso dalla concentrazione necessaria per leggere che non riesce a memorizzare che cosa ha appena letto:
Legge correttamente, ma spesso senza capire. Gli dico, devi rispettare i punti, quando vedi un punto ti fermi e respiri. Fa una prova a voce alta, Al maggiore andò il mulino, al secondo l’asino, al terzo non rimase che il gatto. Dico, punto!… Si ferma. Prende un bel respiro e butta fuori dalla bocca un soffio lungo lungo. Quando riparte, Quest’ultimo era dispiaciuto che gli fosse toccata un’eredità così misera, nessuno sa più di cosa si sta parlando.
La fatica e le ambivalenze della cesura, appunto.
Yasmina Reza, Serge, trad. D. Salomoni, Milano, Adelphi, 2002, 186 pp. 19,00€