Una storia vera di Nicola Feninno è la seconda uscita, dopo Cittadino Cane di Giordano Meacci, della nuova collana di narrativa breve L’invisibile, diretta da Martino Baldi per la casa editrice massese Industria & Letteratura. Il nome della collana segna il cardine del progetto editoriale: quello di accogliere dei testi che, posti sulla soglia tra fiction e non fiction, interroghino il nostro modo di fare esperienza della realtà che ci circonda, mostrandone le criticità, i punti ciechi. Dei racconti che sappiano interrogare il presente, assumendo la postura esistenziale del dubbio, per percepire l’invisibile in cui volteggia lo “spirito del tempo”.
Se Cittadino Cane ha come proprio campo di indagine la biografia immaginaria del «politico e imprenditore italiano» Carlo Cane, Nicola Feninno, direttore della casa editrice Ctrl books, sceglie di scrivere entro le maglie del genere a lui più familiare, quello del reportage narrativo, per farlo però franare dall’interno.
Il narratore si trova a Castelnuovo al Volturno, in provincia di Isernia, per assistere al rito dell’Uomo Cervo, che si svolge l’ultima domenica di Carnevale. Se spesso l’incipit è il vero finale di un racconto, troviamo nel post-scriptum di Una storia vera la prima miccia che ha suscitato nell’autore l’interesse verso questo luogo periferico d’Italia e degli indizi sulla natura del suo reportage. Feninno ringrazia il professor Tommaso Evangelisti, per avergli per primo parlato di Castelnuovo, in relazione però a un altro soggetto: il pittore francese Charles Moulin, trasferitosi a vivere da eremita sugli appennini molisani e morto a Isernia nel 1960. Di questa personalità non c’è traccia nel testo. Ci sono invece Andrea, Valeria, Ernest e Salvo, che l’autore ringrazia e a cui chiede perdono «per avere cambiato alcuni nomi, aver adattato alcune circostanze, aver aggiunto parole che non abbiamo pronunciato in quei giorni, per aver giocato con la realtà dei nostri incontri in modo da avvicinare chi legge alla verità di questa storia» (p. 63). Un’infrazione alla realtà, nella resa della voce dei testimoni, a cielo aperto, con la scusante di aver introdotto elementi di finzione per avvicinarsi maggiormente alla verità della storia. Ciò introduce il dubbio. Chi è il narratore? La domanda gli viene anche posta da Andrea, proprietario dell’unica pizzeria di Castelnuovo aperta la sera, attore dell’Uomo Cervo per otto anni di fila. Un antropologo? Un giornalista? Uno scrittore? Termine, quest’ultimo, che designa la letteratura di finzione, evidentemente. E molti sono gli elementi che ci riportano a questo genere: l’incipit in medias res, l’utilizzo del discorso indiretto libero, la costruzione di una voce narrativa cadenzata dalla fitta punteggiatura, che mette in rilievo le parole e dà davvero l’idea di un testo che deve essere letto a voce alta.
Il narratore, alla domanda, non risponde. O, meglio, svia: «Sono sceso perché mi interessano le maschere» (p. 19). Non quelle del rito pagano, però. O almeno, non solo.
Nell’ufficio del museo dell’Uomo Cervo viene infatti a sapere di un’altra storia, da un ritaglio di giornale incorniciato alla parete: il 17 giugno 1944, dopo che Castelnuovo, punto strategico perché posto proprio sulla Linea Gustav, era già stato liberato dai nazisti, l’esercito americano fa sgomberare la città e la bombarda, mettendo in scena un finto assedio registrato in un film di propaganda che desse prova del valore e della superiorità militare degli Alleati. A testimonianza dell’accaduto, l’articolo pubblica due fotografie di Castelnuovo al Volturno, una scattata prima e una dopo il bombardamento. Il centro del reportage si sposta e il narratore rivolge le sue ricerche a questo nuovo evento-incognita. Va in cerca di fonti e testimonianze. Il racconto del bombardamento viene ripetuto per tre volte, da tre voci diverse. La prima è quella di Salvo, di cui non conosciamo altro che il nome e di cui il narratore dice di non ricordare in alcun modo l’aspetto (strano, visto che più volte nel testo afferma di aver preso fotografie di tutte le persone con cui ha parlato). Salvo riporta informazioni di seconda mano, non è un testimone diretto. Afferma che il fratello di suo nonno, che viveva a Washington, aveva visto un combat film con il bombardamento di Castelnuovo e che aveva scritto una lettera per sincerarsi che tutti stessero bene. Il narratore però non chiede all’intervistato una copia del documento in suo possesso. La sua storia ci viene consegnata nel suo stato aeriforme, leggendario, e il personaggio di Salvo scompare nel testo come fosse un fantasma. Viene il dubbio che il narratore non sia poi così affidabile, se non fosse per il metodo di lavoro che esplicita nel testo: registra le voci; fotografa i volti e i luoghi. Una volta a casa, dispone le immagini sul tavolo, sbobina le registrazioni audio, nell’ansia «che nasce dal timore di aver perso, scivolato via tra le mani, il nucleo di verità che tiene insieme quelle case, quelle cose, quelle persone e le loro parole, di non saperlo restituire, di non aver conservato la lingua specifica di quella storia, la forma in cui quella lingua si oppone al silenzio dandogli dei confini, rendendolo abitabile» (p. 40). E per la seconda testimonianza di quanto accaduto, desunta da due articoli di giornale acquistati su eBay. Uno è tratto da “TV Sorrisi e Canzoni” del 1964 e riporta brevemente l’accaduto. L’altro è della Domenica del “Corriere della Sera”. Il giornalista Francesco Bastianini intervista due testimoni, Ettore Rufo e Ludovico Miniscalco, che descrivono il bombardamento a cui loro hanno invece assistito personalmente. Si tratta di una fonte diretta. Una prova della verità storica degli eventi.
Allora ci rendiamo conto che l’autore ci ha portato in una terra di confine, che il bombardamento vero di un assedio finto ha contagiato la voce che ce lo narra. È una critica a ogni lettura monumentale della storia, che è invece, per sua natura, sempre una questione aperta.
La difficoltà maggiore di chi scrive ponendosi nella posizione del dubbio è quella di dover affrontare il conflitto tra i due mondi, verità e finzione, un conflitto irrisolvibile e che crea una voragine, un vuoto di certezze di fronte al quale ci sono due possibili soluzioni: provare a nasconderlo con coperture posticce oppure provare a raccontarlo.
Feninno lo racconta attraverso la terza e ultima testimonianza, quella dei coniugi Vincenzo e Maria Miniscalco. Come nel primo caso, si tratta di una fonte non affidabile perché i due, il giorno del bombardamento, si trovavano a Modena, dove erano stati trasferiti, per ordine dell’esercito nazista, dopo un viaggio dentro un carro bestiame affine a quelli raccontati delle deportazioni nei lager. Feninno descrive la pelle dei due anziani, ci consegna le loro voci, ci fa sentire lì con loro, vicinissimi. Ascoltiamo la loro storia personale, raccontata non da vittime, accettata, nonostante le sofferenze, come cosa normale, come un destino deciso da qualcun altro. Forse dagli dèi e, il mito racconta, non si sfida mai il volere degli dèi. Il vuoto tra realtà e finzione, sembra dirci l’autore, è la distanza che separa il pastore dalla luna, il suo canto dal silenzio del cielo.
Nicola Feninno, Una storia vera, Industria e Letteratura, Massa 2022.