Julie che ride, Julie che corre, Julie che piange, Julie che pubblica articoli senza aver mai scritto una riga in tutta la vita, Julie che s’innamora, Julie che pensa (forse, tenta?) di tradire il suo compagno, Julie che cresce, Julie che, per selezione, dice “No”. Circa otto mesi dall’uscita de La persona peggiore del mondo (The Worst Person in the World) di Joachim Trier (Oslo, 31.august, 2011; Segreti di famiglia, 2015; Thelma, 2017) nelle sale italiane, ma la lista delle azioni della protagonista che rimangono appicciate addosso, ancora, non si esaurisce. Nel mezzo, e nelle puntate precedenti: la sua interprete Renate Reinsve vince come miglior attrice a Cannes 2021, e il film viene candidato agli Oscar 2022 in due categorie, Miglior Film Internazionale e Miglior Sceneggiatura Originale. Otto mesi dopo parliamo ancora di Julie, di come la sentiamo affine e aliena, di come l’amiamo e la detestiamo.
Perché la storia di Julie è normale, così stucchevolmente comune. Riassumendola per blocchi: Oslo, oggi. Ragazza nei vent’anni sperimenta con le basi del proprio futuro. La ragazza sembra decidersi per una strada e ripudiare i modelli pressanti di famiglia e società. La ragazza s’innamora di un uomo di 15 anni più grande, un artista (Aksel, interpretato da Anders Danielsen Lie), presto accusato di sessismo e antifemminismo nelle sue vignette. La ragazza si trova imprigionata nel riciclo generazionale che aveva programmaticamente scansato (o credeva di aver scansato). La ragazza vuole prendere in mano la sua vita, a cominciare da nuovi incontri, nuovi volti (tra cui quello del giovane barista Eivind, interpretato da Herbert Nordrum). Forse la ragazza ce la farà, forse no.
Con tale perfetta acciaieria di sottofondo, La persona peggiore del mondo avrebbe potuto fermarsi lì, e fermarsi al fornire inquadrature e giochi di mano registica sufficientemente dilettevoli (per quanto stilisticamente facili) a giustificare la presenza fissa di un paio di occhi sullo schermo, per circa due ore totali, in qualsiasi genere di narrazione. Trier sembrerebbe giocare pulito. Eppure c’è qualcosa, in questo film facile, digeribile, che stringe alla perfezione tutti i suoi fili, che risulta subdolo, opaco. Qualcosa che tiene aggrappati oltre la pura piacevolezza senza pretese. Un centro di gravità che ci fa indagare alla ricerca di senso. Che ci fa sospettare un qualche ingegnoso trucco da parte di Trier.
Perché La persona peggiore del mondo, smembrato, non è un granché. Curata la fotografia, patinata. Colonna sonora che strizza l’occhio all’emozione. No: ciò che tiene insieme il tutto è Julie, anzi, Reinsve, attrice sconosciuta fuori dalla Norvegia e che, il giorno prima di ricevere l’offerta della parte, aveva deciso che recitare l’annoiava, e che avrebbe fatto la falegname. A fronte di tale informazione, sappiamo due cose: che esiste un universo parallelo ripieno di improbabili sedioline in stile Ikea, forse un po’ traballanti, a firma di Renate Reinsve, e che poi esiste il nostro, dove La persona peggiore del mondo è uno dei film più piacevoli e romantici di, a spanne, gli ultimi cinque anni, con una protagonista che ci viene passata come coincidente al personaggio, che ci calza come un guanto, e che non fa che aggiungere a questo afflato di romanticismo.
Perché il film di Trier è radicalmente romantico, a cominciare dalla sensualità della lingua norvegese, che suona di controllati boccioli, piccole esplosioni a ogni giro di dialogo, e che trova continuazione nella grazia con cui l’interpretazione di Reinsve si articola scena dopo scena. Piuttosto, forse, uno stato di grazia, questa, appunto, coincidenza parziale, che apre in Reinsve lo sguardo che Elton John avrebbe associato al wide-eyed wanderer di Can You Feel The Love Tonight: sono qui, per la prima volta, penso mi piaccia, ma non so bene che farmene. A venti-trent’anni, forse, ci siamo sentiti tutti così.
Con lo stesso spirito, de La persona peggiore del mondo, a pelle, si è follemente innamorati, per quanto non si sappia bene che farsene. Anti-esplorazione decentemente superficiale degli anni di formazione di una giovane donna, rimandi piazzati allo stato di gioventù del Nord Europa – che, vedasi Sally Rooney (Normal People, Dove sei mondo bello, Conversazioni tra amici), emerge sulla scena della cultura contemporanea come l’icona dei vizi (molti) e delle virtù (poche) degli squinternati squattrinati inconcepibilmente sexy Millennial – , e questo amore, questa affinità strabordante, trasportante che si sente anzi no, si vive per Julie anzi forse no per Reinsve, che si osserva vivere da Julie e Reinsve – aspetta: anche io mi sono sentit*, a un certo punto, come se il mondo non mi meritasse, che non riuscissi a imbeccarne una, i miei amici hanno letteralmente Bio di Instagram che parlano di questionable life choices, magari è una posa? Magari sono loro, le persone peggiori del mondo, quelli che condividono le terrificanti scelte di Julie? – ma intanto i minuti battono, le scene fluiscono e questi romantici ancora lì a ingabbiarci sullo schermo, che ce ne venga fornito di più, anche se la tecnica è semplice, la storia prevedibile, nessun Tony Soprano di ambivalenza…
Joachim Trier, un borderline Millennial-Gen X, ha sobbollito a fuoco lento la rivelazione più spaventosa di tutte: che forse anche noi potremmo star meglio a incidere legno che a dannarci dietro carriera, successo, aspettative, introspezione. Julie ci parla perché riconosciamo gli errori, i pensieri, le rogne di poco conto, gli sguardi e le parole che ci hanno reso fieramente unici, segretamente uguali a tutti gli altri. E chissà se Reinsve ne farà un altro, di film. Proprio lei è la prima ad ammettere di non saperlo. Di non sapere se, effettivamente, ne voglia fare un altro. Noi, almeno, su un volere le siamo avvantaggiati: sappiamo di aver voluto avere La persona peggiore del mondo davanti agli occhi, di aver voluto che parlasse di noi. Di aver voluto piangere, alla fine, per quella sequenza di corsa che gira su tutte le locandine: quella dove il mondo si ferma (le comparse si sono letteralmente immobilizzate per i tempi di ripresa) e l’unica cosa è correre, correre avanti perché vogliamo, correre verso qualcosa che vogliamo.
Non sarebbe male se tutti i lungometraggi un po’ né carne un po’ né pesce avessero la forza di farci regredire a questo stato di scomposta euforia infantile. E anche, evidentemente, di ossessionarci.