Era una maestra, mi dice Margherita, si è buttata nel canale per una delusione d’amore, ma chissà se è vero poi, non c’è da credere a tutto quello che si dice. Che si è buttata non ci crede? No, per carità, non ci credo che era una maestra! Tempo fa non c’era una scuola da andarci a piedi lì. E ora c’è? Ora sì che c’è, a Scardovari, dove è crollato il tetto, e a Ca’ Tiepolo anche.
Sono seduta su una sedia al centro di una stanza piena di luce e il soffitto altissimo, il tavolo è un’asse che poggia su quattro torri di pietra mozze. Un tempo, questo posto era una stalla, ora è la sala comune dove gli ospiti di Margherita si riparano dal vento che qui, sulla strada che collega San Basilio a Taglio di Po, in provincia di Rovigo, oggi soffia con la forza impietosa di 36 nodi. Mentre aspetto che si sciolgano, le racconto le strade che ho percorso in bici, con i loro nomi che nascondono misteri insicuri, di cui non esiste riscontro sulla cronaca locale. La strada che da Ca’ Tiepolo scende fino a Santa Giulia, qualche metro sotto il livello del mare, riparata dall’argine del Po della Donzella, si chiama via di Po di Gnocca e, se la bici è buona per farci gli sterrati, è possibile percorrerla restando sull’argine. In aprile l’erba è lunga, si infila tra i raggi, ma il tracciato resta visibile e solo ogni tanto è necessario scendere sull’asfalto per poi salire a rivedere il fiume. La strada è lunga una dozzina di chilometri, in cui il Po si trasforma e cambia nome: da Po di Venezia diventa Po della Donzella poco prima di perdersi nella Sacca.
È difficile tenere a mente tutte le diramazioni, con i fiumi non è come con le strade: se il ponte non c’è, di là non si passa. Venezia lo insegna ai pedoni, il Delta del Po ai ciclisti che vogliono evitare di ammazzarsi sulla Romea con lo Scirocco che li spinge verso il centro della carreggiata. Quasi tutte le energie le impiego per impedirglielo e non ne rimangono molte per ricordarsi dove svoltare, se lì il ponte è fermo o è mobile, se in fondo al canale c’è una bretella che ti riporta su o c’è una strada che finisce, non gira, non risale, e non rimane altro da fare che invertire la rotta. Il Po della Donzella, dunque, chissà se questa storia della maestra morta è vera, mi viene in mente quel film di Mazzacurati girato in un posto perso tra Padova e Chioggia, in cui la maestra finisce morta ammazzata in un canale di scolo, chissà che nome ha preso quel canale, se ne ha uno suo o è solo il Brenta di qualcuno, chissà se esiste ancora o si è seccato per sempre.
Sulla cartina la Donzella è un’isola circondata dal Po che si squaglia e cambia nome: il Po di Venezia a Nord che poi diventa Po della Pila; il Po della Donzella a ovest, il Po delle Tolle a est, la Sacca salmastra degli Scardivari a sud. Mentre confronto la carta della provincia di Rovigo su Maps con una riproduzione francese del Polesine datata 1885, mi rendo conto che c’è un altro ramo del Po con un nome misterioso: Google lo chiama Po di Maistra, ma la riproduzione ottocentesca non lascia dubbi: il corso d’acqua che da Ca’ Venier si stacca a nord per raggiungere l’Adriatico – proprio di fronte a Ca’ Tiepolo, sulla sponda sinistra del Po di Venezia, spalle alla foce occhi al mare – si chiama Po della Maestra. Possibile che Margherita si sia sbagliata? Che la donzella delusa e suicidata sia forse la maestra di Ca’ Venier? E che la donzella della nostra isola non sia invece un’acrobata capace di camminare sugli argini a occhi chiusi con un abito al ginocchio e una fascia di chiffon? Mi ripropongo di sciogliere questo dubbio più avanti, magari sbriciando tra i diari di Celati, che a suo tempo raccontò in un testo scomposto un viaggio verso la foce.
Gli Scardovari sono dei pescatori di palude. Dico sono, perché lo sono ancora oggi, anche se la Scardova (o Scardola) non è più così importante come in passato. È un pescetto d’acqua dolce con la bocca storta e le pinne rossastre, raggiunge di rado i 35 centimetri, e il suo corpo è pieno di lische. Non tiene pasto, insomma, e immagino che non lo tenesse nemmeno alla fine del Settecento, quando alcuni pescatori, con le loro famiglie, costruirono un pugno di capanne di canna palustre sopra un bonello e cominciarono a pescare le Scardove, perché non avevano i mezzi adatti per la pesca di mare. Puntavano sulla quantità e di Scardove ce n’erano in abbondanza.
Percorro la Strada Belvedere partendo da sud, mi fermo all’altezza di via Cesare Battisti, dove la Pineta della Cassella mi invita a un anello, per rientrare verso il Po di Gnocca da cui sono venuta. Declino l’invito e al bivio tiro dritto, c’è un Jack Russell che controlla l’incrocio, si aggira solo per lo sterrato che separa l’argine dalla pineta, per un po’ mi accompagna correndomi appresso; il vento è forte, il cielo viola. A destra c’è la sacca salmastra del mare che insidia la terra e le rèste con le corde a mollo nell’acqua, su cui i mitili crescono fino a formare grappoli di 25 kg o anche meno se i granchi arrivano prima dei pescatori; a sinistra le vasche degli allevamenti di cozze. Il Belvedere resta in alto rispetto all’acqua e si trasforma presto nella Provinciale 38 che sfila tutta intorno alla Sacca, percorsa da qualche ciclista, sparuti pedoni e dalle auto dirette verso Scardovari o di rientro a imboccare la Romea. Una volta arrivata a Scardovari decido di piegare all’interno e raggiungere la Strada Arginale del Po, restando al di qua, risalendolo sulla sponda che costeggia i comuni di Porto Tolle e Ca’ Tiepolo, per raggiungere Taglio di Po e poi sotto, la stalla-stanza di Margherita.
Raggiungo la Strada Arginale dopo una ventina di chilometri e quando finalmente riesco a salirci, mi rendo conto che quello che ho alla mia sinistra – e che ho appena attraversato – è la traccia ancora visibile e devastante di un disastro. Questa strada si chiama 4 novembre 1966, anche se Google non lo riporta; lo riporta invece un piccolo cartello inchiodato a un palo di ferro, che ogni tanto ritorna, perché l’argine può essere risalito a varie altezze. Il Po alla mia destra, questa volta spalle alla foce, è basso, bassissimo, convalescente da un inverno lungo e da una primavera senza pioggia. A sinistra invece fabbriche dismesse, auto interrate per metà, binari che non vanno da nessuna parte, scale di cemento senza approdi, erba verde brillante che finisce quando inizia il lato b di una casa in cui non vive più nessuno.
Il 1966 si ricorda soprattutto per l’alluvione di Firenze, ma a 15 anni dall’alluvione del Polesine del 14 novembre del 1951, in questa terra che ancora aggalla alla mia sinistra, ci fu un’altra alluvione: il Po era in piena e, gonfio di pioggia, fu spinto da un vento di Scirocco che schiacciò l’Adriatico verso l’interno, rompendo gli argini, allagando l’Isola della Donzella e sommergendo Ca’ Tiepolo e tutta l’area intorno a Porto Tolle. Dopo due settimane, anche Scardovari andò sotto. Si salvò solo Santa Giulia grazie a un argine rinforzato a furia di sacchi impilati. Anche adesso piove, o meglio, pioviggina e sembra uno scherzo visto il livello che il fiume ha raggiunto qui alla mia destra. Sull’argine non c’è nessuno, mi accorgo che per raggiungere Taglio di Po dovrò scendere, passare il ponte sulla provinciale, e tornare sull’argine. Lo faccio di malavoglia, perché ho il terrore dei ponti in bicicletta, ho il terrore di perdere il controllo perché il vento è imprevedibile e, nonostante ne si conoscano direzioni e temperature, nessuno può sapere quando arriverà la prossima folata.
La prima scuola di Scardovari risale al 1875, la donzella dunque poteva sì essere una maestra. La scuola fu costruita ancora prima della luce elettrica, della farmacia, dell’ambulatorio medico, prima addirittura del mercato del pesce e di tanti altri servizi a cui i pescatori, riuniti nella cooperativa del Delta Padano, diedero vita dal 1935 in poi. Lo scriverò a Margherita, per tranquillizzarla sulla bontà delle sue leggende, ma non ora: ho lasciato la stanza di luce a mezzogiorno, nonostante il vento, non potevo più aspettare. E ora, stanca come non ricordavo si potesse essere dopo appena 40 chilometri, mangio una tartina di pesce appoggiata a uno spigolo, mentre aspetto il traghetto che mi porterà a Pellestrina. Intorno, Chioggia e il suo dialetto trascinato, Chioggia piena di luce che si fa bella per la sera nei vicoli, Chioggia che è Venezia, ma con le macchine.
Prendo uno degli ultimi traghetti della giornata, quando arriva scendono tutti, saliamo solo io, la mia bici per cui ho pagato regolare biglietto e un’amica più furba, con la Brompton in borsa e nessun surplus, che mi accompagna perché lei, Pellestrina, la conosce bene. Non ci sono turisti, e gli abitanti dell’isola che vengono a Chioggia per il mercato sono già tutti rientrati, così come i pescatori, mancano solo coloro che prestano servizio sui battelli della laguna e che infatti sono tanti, su questo battello semi-vuoto che per loro è un po’ lavoro e un po’ ritorno a casa. Dal traghetto – dall’acqua, finalmente – guardo la terra che lascio e poi subito quella che sta per arrivare e mi chiedo se avremmo potuto noi esseri umani vivere così, guardandola da lontano senza toccarla mai, quella terra di cui siamo ospiti o se il suo mistero ci avrebbe comunque fregati e a un certo punto qualcuno, per troppa hybris, se ne sarebbe approfittato, tenendo il segreto per sé e gustandosela tutta.
Trascorro venti minuti così, con quest’isola stretta che mi galleggia accanto, una striscia di terra larga da mille metri a ventitré, che si srotola per undici chilometri tra mare e laguna.
Le attracchiamo in braccio, dopo aver navigato accanto a una riserva naturale e a un forte che non vedo, ma che scopro essere stato un avamposto di controllo in entrata al porto di Chioggia, costruito a metà Ottocento, controllato e armato a cannoni sia dagli austriaci che dai francesi, e ora mangiato fuori e dentro dall’edera. La riserva LIPU di Ca’ Roman, invece, situata su una delle più importanti rotte migratorie d’Italia, conserva uno degli ambienti dunali più integri di tutto l’alto Adriatico.
Percorro in bicicletta la strada asfaltata che attraversa il centro di Pellestrina, diretta verso la parte nord dell’isola, dalla cui estremità si vede il Lido di Venezia; voglio arrivare in fondo prima che faccia buio. Sull’isola le strade sono due, parallele: quella su cui pedalo corre lungo il litorale lato laguna, l’altra, la Strada Comunale dei Murazzi, è sul lato che dà sull’Adriatico, o meglio, sta sotto l’argine dal quale si diparte un’ampia spiaggia sgombra, battuta dal vento, che si sdraia verso il mare.
La strada si interrompe davanti alla scuola elementare che immagino trabocchi di maestre, e diventa pedonale e ciclabile per un lungo tratto; le auto – pochissime – possono tagliare l’isola in orizzontale e usare la strada che corre parallela al mare.
Costeggiamo il paluo, una pozza salmastra che scopro essere il motivo per cui la strada per le auto è interrotta, proprio nei pressi di un campo di calcio, e ci ritroviamo in un posto che la mia amica mi dice chiamarsi San Pietro in Volta. Finora ho visto solo case, pescherecci, un ristorante aperto e uno chiuso, la Coop; San Pietro è più piccola, ha una piazza protesa verso la laguna, panchine, qualche vicolo acciottolato e spazi nel complesso più raccolti rispetto a Pellestrina che invece si srotola in linea retta schiena al mare faccia alla laguna. La mia amica mi dice che qui, a San Pietro, le persone parlano diverso, più veneziano e meno chioggiotto, mi fa degli esempi, mi perdo tra le palatali e le velari e le dico di sbrigarsi, che il cielo è arancio e il vento ci sta seccando le mani.
Arriviamo in fondo: le due strade parallele si uniscono e improvvisamente la laguna e il mare sono lì a portata di sguardo. Qui, in quello che mi sembra un posto disperso, lontano da ogni possibilità di ripensarci, c’è una casa di riposo. Si chiama Santa Maria del Mare, il mare che osserva dall’alto, appollaiata su un costone di pietra. Negli anni Ottanta ci venivano ricoverati – esiliati? – i malati di AIDS. La struttura è, se non fatiscente, quantomeno invecchiata, e a guardarla la tristezza mi invade e così la voglia di andarmene. Poco oltre la cancellata che cinge Santa Maria del Mare un improbabile chiosco vende patatine e aperitivi; intorno solo una pompa di carburante e il molo d’attracco dei traghetti che portano al Lido.
Il sole è sceso, invertiamo la rotta e ripercorriamo in silenzio la prima parte della Strada Comunale dei Murazzi. Prima di raggiugere il bivio e di imboccare la via a sinistra per salire sull’argine noto in lontananza dei container, tutti uguali, all’interno di quello che sembra un cantiere. Chiedo alla mia amica se sa cosa siano e lei mi risponde che sono gli alloggi per gli operai e i tecnici che lavorano al Mose. Le chiedo se si vede, il Mose, da qui. Lei mi dice che sì, si vede la struttura e il Mose quando è alzato, ma dovremmo tornare indietro e io non ho voglia di ripassare davanti alla casa di riposo. Tiriamo diritto allora, scendiamo dalle bici per issarle sull’argine. Una volta salite le lasciamo a terra e superiamo le dune di sabbia a piedi, per poi ridiscendere sulla spiaggia, lei davanti io dietro, il vento sempre più forte, il buio calato, il mare grigio e nessuno in giro.
La risposta che cerco leggendo Celati non la trovo; ma è un altro scrittore a venirmi in aiuto, si chiama Gianni Vidali e in questi anni ha scritto diversi libri ambientati in Polesine. È lui a svelarmi che la donzella era la figlia di un possidente terriero che a inizio Novecento abitava nell’area intorno a Porto Tolle. Era una donzella e non una donna, perché era ancora da maritare e una donna senza marito non era degna di questo nome.
Sfortunatamente la donzella si era innamorata del figlio di un bracciante che lavorava per il padre. Questo rapporto tra la prole di padrone e sottoposto non era però ben visto dal padre che per allontanarla dal ragazzo minacciò di inviarla in collegio a Venezia. Fu così che la donzella, venuta a conoscenza delle intenzioni del padre, mise fine alle sue pene gettandosi nel Po. A quella ragazza senza nome, che non fu mai maestra né fu permesso di essere donna, non rimase altro che divenire il nome di un’isola. Un’isola che, ogni tanto, senza preavviso, il grande fiume torna a riprendersi.