Le preposizioni e gli avverbi di luogo sono usati sempre più di frequente per definire spazi al contrario totalmente dematerializzati come i social network (quasi tutti siamo da almeno un decennio “amici solo su” di persone che in realtà non abbiamo mai incontrato). Anzi, sembra proprio la mancanza di materialità a permetterci di concepire il social come uno spazio, appunto, in cui entrare. Allora pare calzante, in un momento di lucidità (come se dal social, in realtà, si uscisse), la domanda “che ci faccio qui?”. È questo il titolo del volume appena pubblicato per la casa editrice Italo Svevo, che raccoglie i dialoghi di Maria Teresa Carbone con alcuni scrittori e scrittrici intorno al loro rapporto con la post-fotografia e in particolare con Instagram.
Nella sua autointervista a mo’ di introduzione al volume, Carbone spiega di aver adottato questo titolo perché sentiva di aver assunto, di fronte al tema, la stessa postura «del viaggiatore che non nega il proprio spaesamento di fronte alla novità, consapevole che la vertigine non è nel luogo in sé ma nella propria presenza lì» (14). Il progetto di questo volume nasceva già qualche anno fa per poi approdare, nel 2018, su “Le parole e le cose” con il titolo Perché sono su Instagram. Allora il fatto che Carbone abbia scelto di intitolare la rubrica con un’affermazione (“Sono su Instagram perché…”) e il libro successivo, che la espande, con una domanda, mi sembra confermi quel senso di spaesamento che si vive quando la ricerca comincia a dare i suoi frutti: meno assertivo e più dubitativo è l’atteggiamento di coloro che, in realtà, cominciano a darsi delle risposte.
Carbone sceglie sedici scrittori e scrittrici da intervistare sulla base di un paio di criteri fondamentali: bisogna che siano su Instagram (Giulio Mozzi nella sua intervista dichiara di rifiutare l’uso di questa preposizione, preferendogli in, come non volesse restare in superficie, bensì entrare) e che abbiano una galleria creativa, non meramente autopromozionale. Ognuna delle quindici interviste – di cui una doppia – è accompagnata da quattro fotografie, quella che è stata pubblicata per prima in ognuno degli account e altre tre a scelta. Quattro fotografie per quattro domande uguali per tutti intorno a un prima e a un dopo Instagram, alla scrittura, alla fotografia e al social network in questione. La quinta domanda, anticipata dal pronome Tu, cambia per ogni autore, anche se di fondo ha lo stesso nucleo tematico, ossia: come ciascuno di loro abbia fatto interagire scrittura e fotografia nelle proprie produzioni letterarie, saggistiche, traduttive, poetiche.
Si delinea così un quadro fatto di variazioni dello stesso tema, di autori molto diversi tra loro che rispondono in maniera più o meno analoga alle domande dell’intervistatrice, in particolare a quelle riguardo la piattaforma. Molti scrittori dichiarano, direi rivendicano, la loro incompetenza, la loro estraneità alla tecnica fotografica: Sarchi trova le sue fotografie «piuttosto mediocri» (215), Pecoraro «sempre pessime» (167), Mozzi non è «capace di usare una macchina fotografica» (146); Pincio non si considera affatto un fotografo, così come Bortolotti che dichiara: «I primi tempi, quando fotografavo, capitava che a volte non guardassi neanche cosa inquadravo: muovevo il braccio e scattavo, l’idea era di prendere pezzi di paesaggio, di spazio, e meno erano intenzionali e meglio era» (24). Alcuni addirittura hanno cominciato a scattare fotografie quando hanno avuto il loro primo smartphone (Janeczek, per esempio) e non si sono mai interfacciati con una macchina analogica: Nativo «una sola volta h[a] provato a usare una macchina analogica di [suo] padre ma, sviluppato il rullino, vennero fuori solo enormi macchie di luce» (154). Solo qualcun altro a parte Ragucci, l’unica fotografa di professione, dichiara una passione pre-social per la fotografia (per esempio Orecchio: «ho iniziato da bambino», 159). Molti fotografano spazi urbani, meno sé stessi, anche se, ci dice Pincio, «ogni foto pubblicata diventerà comunque un autoritratto, qualunque sia il soggetto dell’immagine» (179-180).
Altro elemento condiviso da diversi autori è l’insignificanza delle fotografie (Mozzi, 149), talvolta la loro bruttezza, spesso rivendicata come scelta a priori, prima dello scatto, nel segno di «un’estetica nell’anestetica», «fotografia del nulla»(Pecoraro, 170). Ancora, sebbene molti di questi autori abbiano lavorato con le immagini, si percepisce sempre chiaramente una distinzione formale tra i due linguaggi: «Tra scrittura e fotografia non esiste una relazione nella pratica, piuttosto nell’intenzione (Nativo, 156); «Se esiste una relazione fra ciò che fotografo e ciò che scrivo sta forse nei soggetti che prediligo» (Sarchi, 215).
Un ulteriore principio comune a diversi scrittori e scrittrici si oppone – sia pure un paradosso – a quello del social network qui al centro dell’attenzione: altro che istantaneità, c’è sempre un processo, una distanza temporale dallo scatto a Instagram. Penso al diario differito di Falco o all’affermazione di Ragucci: «sono stata qui, ma non ora, non adesso, qualche volta paleso la data, una data che non è adesso, è già stata (è il mio modo di sottolineare che si tratta sempre di un’immagine)» (201); penso a quello che Pincio ha definito, parlando del suo lavoro, una posterità (181), uno scarto temporale – e spaziale – tra lo sguardo e l’immagine, tra l’immagine e la scrittura. E questa distanza si percepisce nel momento in cui le stesse fotografie, prima su Instagram, finiscono ora, dopo attenta selezione, stampate nel libro. La loro posizione già di per sé mi pare degna di nota: le interviste si susseguono ma le quattro foto scelte per ogni scrittore non sono collocate alla fine di ciascun dialogo, come spiegazione, illustrazione. Tutte sono invece raggruppate e costituiscono un capitolo a parte, centrale, che separa la prima parte delle interviste dalla seconda (pur non figurando nell’indice). In alcuni casi, quindi, le fotografie seguono le parole dei loro autori, in altre le precedono, dando due direzioni distinte alla ricezione delle stesse. Peraltro, esse stesse sono talvolta accompagnate da altre didascalie autoriali. Siamo di fronte a un iconotesto che parla di iconotesti: la parte scritta e quella fotografata sono il prodotto e allo stesso tempo lo spiegano, sia nella modalità dell’autocritica (gli scrittori si auto-descrivono) sia in quella dell’esposizione di sé in quanto soggetti fotografanti.
Inoltre, come notava già Joan Fontcuberta in La furia delle immagini, saggio edito nel 2018, nell’era post-fotografica vive il «fascino nei confronti delle fotografie salvate dalla distruzione o dall’oblio, che implica un gesto da archeologo tipico della Modernità. In una fase di saturazione delle immagini, l’enfasi si rivolge verso la serie e la collezione». Infatti, diversi sono gli autori qui intervistati che dichiarano di usare le foto scattate e postate come un modo per fissare qualcosa che altrimenti cadrebbe nell’oblio – archivio, annotazione, taccuino sono sostantivi che ricorrono –. Trevi definisce Instagram un contemporaneo «teatro della memoria» (219), che mi pare un’etichetta alquanto interessante in un momento come quello attuale, in cui ciò che si verifica è piuttosto una tendenza all’oblio. Tutto ciò che non è registrato viene dimenticato o sembra non essere stato neppure esperito: Pecoraro confessa di essersi iscritto a Instagram non appena uscì da Facebook perché gli «sembrava di non esistere più» (168); pregno di senso è quindi, al contrario, l’annuncio di una «periodica spinta a cancellare tutto» (33) di Carbè, nel segno di un rivendicato diritto delle immagini all’oblio.
Questo volume si rivela di grande interesse non solo perché dà un saggio della poetica di ciascun autore presentato singolarmente, ma anche perché mostra una tendenza, soprattutto della prosa italiana, all’uso dell’immagine fotografica e post-fotografica nella/a partire dalla scrittura. Già Carbone in introduzione nota: «a una prima ricerca empirica la presenza “autoriale” di scrittrici e scrittori su Instagram è molto più diffusa in Italia che in altri paesi» (11). Non è un caso, quindi, che la parola iconotesto appaia in più di un dialogo (spesso, peraltro, a definire oggetti diversi) e non è un caso che molti di questi scrittori abbiano lavorato con la fotografia anche al di là di Instagram: Ragucci e Falco con Condominio oltremare e Flashover, Pincio con Lo spazio sfinito, Mazzoni con I destini generali, Janeczek con La ragazza con la Leica, Trevi con Sogni e favole (di cui l’autore qui rifiuta parzialmente l’integrazione figurale). Senza dimenticare quelle operazioniassai interessanti, quali Il mondo vivente di Mozzi o Città distrutte di Orecchio, in cui il testo non appare più solo sulla pagina ma anche nelle foto, creando un ulteriore livello di mise en abyme, di ipertestualità.
Come per il social qui protagonista, come per gli iconotesti menzionati, così Che ci faccio qui? fa in fondo quello di cui parla, è un libro che dimostra la modularità della scrittura odierna e la sua interazione con l’immagine – anche quella digitale – in quello che Isotta Piazza ha chiamato lo spazio mediale e, ormai, post-mediale. E infatti anche il testo, così costituito, stampato, ancora un oggetto-libro, auspica sin dall’introduzione un ritorno alla rete: Carbone alla fine della sua autointervista pensa di fare di questo libro, nato nel web da una rassegna su un blog nata a sua volta da Instagram, «un sito, magari, o una mostra» (15). Mi pare così che con quest’opera assistiamo a una tensione e alla sua stessa resistenza: da una parte, l’uscita dal testo, l’opera che si fa ipermediale, dall’altra una indefessa imposizione del libro di carta, che riporta tutto al materiale, al toccabile.
Come dice Carbone, è difficile capire le cose mentre (ci) succedono, ben venga dunque quel senso di spaesamento cui segue sempre la tensione a orientarsi, quindi a cartografare. Ne vedremo (e ancora, mi pare, ne leggeremo) presto le evoluzioni.
Maria Teresa Carbone (a cura di), Che ci faccio qui? Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia, Italo Svevo, Roma 2022, 248 pp., € 20.