Un manipolo di redattori, collaboratori e amici della Balena condivide alcuni degli ascolti che hanno accompagnato quest’anno di navigazione “per lo gran mar de l’essere”. Chiudete gli scuri, versatevi da bere e pigiate play: Yo-ho-ho.


Cigno, Morte e pianto rituale, autoprodotto, 2022 (Giacomo Micheletti)

Nove esorcismi sonori ispirati alla dimensione catartica della pratica rituale, così come descritta da Ernesto de Martino nel libro che presta il titolo al disco di Diego Cignitti. Incrociando blues, industrial catacombale e atmosfere desertiche con una robusta dose di filosovietismo “fedele alla linea”, l’esordio di Cigno ripensa la canzone d’autore nostrana nel solco di una tradizione alt-folk che da Ferretti e Capossela arriva a Iosonouncane e Mai Mai Mai, evocando un mediterraneo pagano e barbarico.

La litania a cassa dritta con improvvisi divampi stoner di Protestanti o l’omelia per catene e bidoni de La terra del rimorso (una perla di tarantismo goth-demartiniano) introducono subito al sincretismo di Cigno, mentre il groove blues space-sahariano di Pietra sprecata e le nenie mistiche di Kabul, disturbate dal turbinare di elicotteri synth, incorniciano i due inni “contro” de La classe operaia va in paradiso (“Lavorare lavorare preferisco il rumore del mare”) e Postcapitalismo: omaggio in odore di pastiche ai CCCP di Live in Pankow, con lo slogan “Ridatemi le passeggiate la voglia di Togliatti e le granate”. Del resto, è lo stesso Cigno a urlarlo: “postcapitalismo: nero nero manierismo”.


King Gizzard & The Lizard Wizard, Omnium Gatherum, autoprodotto, 2022 (Michele Farina)

Nella piena consapevolezza che – secondo l’aforisma di Frank Zappa – scrivere di musica è come ballare di architettura, mi cimenterò in un quasi-encomio di Omnium Gatherum, l’ultimo album dei King Gizzard & The Lizard Wizard, la prolifica formazione australiana che da circa un decennio porta avanti una crociata lisergica in favore del sincretismo musicale: chi non li conoscesse è invitato a rimediare quanto prima. Omnium Gatherum costituisce l’ultima tappa di questo percorso, sfoggiando un campionario di pezzi molto (troppo?) variegato, un caleidoscopio in grado di soddisfare mood e palati molto diversi.
L’uscita dell’album è stata anticipata dal singolo Magenta mountain, pezzone rock psichedelico di atmosfera orientaleggiante, e dalla virtuosa suite neo-prog The Dripping Tap. L’album sorprende con bruschi cambi atmosferici, sciorinando riff grevi e cerebrali (Gaia; Predator X), che ricordano band col pallino della matematica come i Meshuggah o i Tool, groove di sapore funk hip-hop à la Beastie Boys (Sadie Sorceress; The Grim Reaper) e acidi easter-egg come The Garden Goblin, che pare partorito da un recesso particolarmente buio della mente di Lewis Carroll. Proprio per la sua verve polifonica l’album manca forse di una fisionomia definita, pur riuscendo divertente nel suo vandalismo visionario. Nel complesso, un discreto trip.

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Orchestre Massako – Orchestre Massako (Limited Dance Edition Nr. 14), Analog Africa, 2022 (Francesco Vara)

Nel Gabon c’è una religione antica, più antica della paura di morire: il Bwiti.

Officiante e tramite fra noi e l’Altrove è la radice misterica di iboga: gli antenati ti sussurrano all’orecchio il passato, ti spalancano il futuro e ti chiarificano il presente. È un segreto della foresta e tutti, nella foresta, assumono l’iboga; i cinghiali sognano a occhi aperti per sette giorni e sette notti, il porcospino si sdraia per vedere le stelle. L’iboga fa danzare la vipera cornuta.

Con l’avanzare del tempo, del colonialismo e dell’Occidente i segreti della foresta si nascondono ancor più nel fitto di essa. Nel 1971 le forze armate del Gabon, forse per dimenticare le brutture e ricordare le meraviglie, decisero di formare una propria band e reclutarono come leader Mack-Joss, leggenda della musica gabonese: nacque l’Orchestre Massako, che divenne l’orchestra nazionale del Gabon.

Analog Africa, etichetta tedesca dedita al recupero di gioielli nascosti nel passato del mondo, ci fa scoprire 4 tracce di patina tropicália e trance parossistica e travolgente, grazie anche alla voce di Amara Touré, altra leggenda della musica gabonese.

Come trascorrere un’estate lunga diecimila anni.

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Witney K, Hard to Be a God, Maple Death Records, 2022 (Massimiliano Cappello)

Si definisce un fedele del vagabondaggio, Whitney K; e in effetti fino a cui la sua parabola artistica si è rivelata un tentativo di trovare e mantenere operativi quanti più varchi possibili tra questo e altri spaziotempi. Minimo comune denominatore: potercisi dire liberi o veri. La sua musica (e, aggiungerei, la sua poesia) sembra volerci ricordare che certi spettri esistono con molta più insistenza dei vivi; ma che solo i vivi possono parlare in loro vece. Perché altrimenti riassemblare nel 2022 un incantevole mostruoso EP-frankenstein con “brani” da Kris Kristofferson, Lou Reed, Leonard Cohen, David Bowie, Bob Dylan? Non ci bastavano i loro, di dischi? Evidentemente no. C’è qualcosa, nella costruzione di una voce, che ha quanto mai bisogno di sorgere dalle carcasse del passato per parlare al presente. Anche solo per potersi ammettere che al fondo di ogni sixties organ, nelle viscere di un mix d’antan magistralmente riprodotto, al volgere di ogni stralunato verso al ritornello, sta qualcosa di inconfessabilmente irreplicabile, il senso di un’operazione solo adesso comprensibile. La differenza, d’altronde, non l’ha mai fatta il reperto in sé, ma il suo riuso

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Kelly Lee Owens, LP.8, Smalltown Supersound, 2022 (Simone Giorgio)

Addestrata nell’ambiente del clubbing londinese, Kelly Lee Owens aveva pubblicato nel 2020 uno dei dischi fondamentali dell’immediato post-pandemia, Inner Song. Per un’artista che è attiva come producer e dj, la pandemia aveva comprensibilmente segnato un punto di non ritorno; così, Inner Song aveva acquisito un forte valore terapeutico, e la miscela di ambient, techno e pop che lo contraddistingueva aveva dato l’impressione di una volontà di smaterializzare del tutto quei corpi che la pandemia aveva reso impossibili da toccare e abbracciare. In questo senso, LP.8 scava un ulteriore solco: stavolta Kelly Lee Owens spinge di più sul tasto dell’ambient, e i beat che compongono il disco, con un bpm più basso e onde sonore più rarefatte, suonano più enigmatici che liberatori; si pensi all’ambient aurorale di S.O (2), dove Owens sembra chiamare a raccolta le proprie forze; o all’intricato labirinto elettronico di Anadlu. Ma ciò che conta è la voce: se in Inner Song sembrava innalzarsi al di sopra delle miserie pandemiche, come per coinvolgerci in un rave celestiale, stavolta è usata in senso molto più ritmico, come a ricostituire quei corpi che la pandemia aveva dissolto proprio a partire dalla voce. In sostanza, LP.8 è un disco che prosegue e approfondisce il discorso di Inner Song, e sembra che l’uno non potesse darsi senza l’altro, come un’oscura coppia di gemelli.

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Nu Genea, Bar Mediterraneo, NG/Carosello, 2022 (Alessandro Freschi)

Lucio Aquilina e Massimo Di Lena sono due gentili ragazzi napoletani smilzi, uno con gli occhi neri come la pietra lavica, l’altro rosso come i fichi d’India maturi. Sono partiti per Berlino, come tanti, non con la valigia di cartone, ma con un bagaglio pieno di musica: la musica napoletana prodotta tra gli anni ‘70 e ‘80, frutto di una grande passione per la ricerca di incisioni del sottobosco musicale napoletano, che in quelle due decadi ha mostrato un fiorire di suoni pazzeschi, commistione di disco funk e afro jazz, di cui Napoli Centrale e Pino Daniele, rappresentano solo la parte emersa, come la vetta di un’isola vulcanica.

Bar Mediterraneo è il loro ultimo lavoro, ma è anche un luogo metafisico dove Napoli dialoga con Africa e Sud America, mostrando degli innesti sonori inediti e inaspettati. I brani più rappresentativi sono sicuramente Tianatè e Marechià, uscito l’anno scorso come singolo, ha fatto il giro delle radio di tutta Europa, ed è un esperimento sonoro eccezionale in cui napoletano e francese si mescolano, fondono e confondono. Insomma, con questo disco si balla e si viaggia.

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Sarai, Lucertola, Cicada Records, 2022 (Marcello Sessa)

Sarai è un’artista che a un certo punto ha deciso di volgere il suo nome proprio al futuro e di rivolgerlo all’altro: in modo schietto e diretto. Fa arte esistendo, parlando, disegnando, e poi cantando e suonando. Talvolta si concede, solo quanto è necessario, con canzoni tornite alla perfezione, senza che nulla sia lasciato al caso. In passato, con Gran Torino (2019), aveva sfogato un lato cantautorale grezzo e spontaneo: raw material per palati forti. Che ad anni e catastrofi di distanza si è riconfigurato in Lucertola (2022), trasformando l’ispirazione che è stata in espressione che è. E il suono: ora tappeto elettronico e ritmica palpabile dall’etere; e la voce: ora plasmata nel flusso musicale senza superimposizioni. Rimane, denominatore, la devozione alla parola, che Sara (che sarà Sarai) deflette agli scopi della sua persona prismatica; anima e cuore poetico restano, pur tramutati in testi che affrontano l’amore squamato dal sole. «Ma cosa ami, se / non la fiamma che / contagia anche te» sono versi quasi parlati che affondano in origine nell’omiletica di un’altra sacerdotessa: «My knees are open to the sun / And I desire». La spinta è la stessa: quella di chi non perde mai la coda.


Fontaines D.C., Skinty Fia, Partisan, 2022 (Michele Turazzi)

Era più o meno metà febbraio quando ho ascoltato i primi due singoli rilasciati dai Fontaines D.C. (Jackie Down the Line e I Love You), e ho subito pensato che c’erano moltissime probabilità che Grian Chatten e compagni stessero per consegnarci uno dei migliori album dell’anno. Ora la penso diversamente: Skinty Fia, il terzo lp della band dublinese (qui in dolorosa trasferta sotto la Union Jack), è uno di quei dischi destinati a rimanere, di certo rappresenta il momento in cui una delle realtà più rappresentative della nuova ondata post-punk supera il post-punk e ne allarga orizzonti e colori: c’è tanto rock degli ultimi quarant’anni dentro Skinty Fia – da Fall e Joy Division ai Nirvana, ma anche noise, elettronica, indie, persino mainstream (il ritornello di Jackie Down the Line si appiccica al cervello come solo gli instant classic sanno fare) –, il tutto però shakerato e rielaborato in un sound personale e fortemente identitario. Skinty Fia è un disco ipnotico, adrenalinico, cupo, esaltante. E non somiglia a nient’altro che non sia un disco dei Fontaines D.C.

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