In questa seconda puntata dal Lido di Venezia la nostra inviata Jessica Puliero ci racconta l’ultimo film di Guadagnino, Athena di Gavras e The Whale di Aronofsky.
Stamattina ho dovuto accompagnare un’amica a prendere il treno molto presto così, quando arrivo a Lido, trovo l’isola ancora semiaddormentata. Lascio perdere i monopattini a noleggio e scelgo di farmi una passeggiata in spiaggia fino alla Cittadella del Cinema. In fondo al Gran Viale c’è l’ingresso dello stabilimento balneare Blue Moon, un edificio stondato più rosa smorto che blu, esteticamente tra i più discutibili che ci siano da queste parti: da qui si entra in quella che una volta era una spiaggia libera e si possono raggiungere, senza mai far ritorno sull’asfalto, i dintorni del Casinò.
Cammino con lentezza verso sud, godendomi la sabbia fresca e l’indolenza della risacca. È una porzione di mondo separata, abitata precariamente da runners, cani che si rincorrono sulla riva sotto gli occhi assonnati dei padroni, addetti che spazzano le passerelle, riforniscono d’acqua i secchi delle capanne, sistemano i lettini per i bagnanti in arrivo. L’ultima cosa che inquadro prima di uscire in strada è un uomo dai capelli bianchissimi che si immerge nello sfavillìo dell’Adriatico, dà due bracciate, poi scompare in un riflesso accecante.
Mi aspetta una colazione tosta con Bones and all, di Luca Guadagnino. “Da guardare a stomaco vuoto” sentirò dire qualche ora dopo a una ragazza, “ma per Timmy vale tutto”; dove Timmy sta, ovviamente, per Timothée Chalamet, attore in stato di grazia e coprotagonista del film. Con Maren – personaggio centrale da cui tutto parte e alla fine confluisce – condivide una pulsione irrefrenabile, il cannibalismo, qualcosa che li avvicina prima e unisce poi, dividendoli però dalla maggior parte dell’umanità. Due adolescenti soli, in un mondo in cui gli adulti ancora una volta appaiono incapaci di fornire un modello di vita equilibrato, sgomenti di fronte a una diversità che non comprendono e quindi rifiutano. Dopo l’abbandono del padre, Maren decide di attraversare il Midwest per cercare l’ultima persona che, forse, le è rimasta al mondo: sua madre. Un road movie horror che è anche storia di formazione – ogni città diventa luogo dell’avventura, con personaggi e ostacoli necessari agli eroi per imparare qualcosa su di sé, sulla propria tragica diversità – e storia d’amore, dove Eros e Thanatos sono avvoltolati a un punto tale che i momenti ad alta tensione erotica finiscono sempre in un bagno di sangue, o meglio, in un pasto! Sì perché in Bones and all il desiderio trascende il possesso e porta, letteralmente, a divorare l’altro, si tratti dell’amante di una sera o del primo amore della vita.
Eppure, nonostante il pathos apparente, nonostante un’ambientazione anni Ottanta ben costruita, capace di strizzare sempre un po’ l’occhio alla nostalgia (di nuovo, quante strizzate d’occhio da un po’ di tempo in qua), ho faticato a entrare nelle vicende dei due protagonisti, a interessarmi realmente a cosa sarebbe loro successo. Forse la mescolanza di più generi, diversamente da White Noise, porta a un certo straniamento, forse è tutto troppo detto e facilmente giustificato (vedi Lee che confessa di aver mangiato il padre, ma era un violento ubriacone e dunque arriva immediata l’assoluzione di Maren, e la liberazione), però insomma nel complesso mi ha convinta poco, quasi quanto i dieci minuti di applausi della prima.
Nemmeno il tempo di un caffè lungo, sorbito in religioso silenzio nel dehor cicaleggiante del Palabiennale, che è già ora di rientrare per Romain Gavras, col suo Athena. Film potente, urlato, scagliato in faccia allo spettatore come una molotov. Si comincia con un appello alla giustizia, durante un’ammenda pubblica delle forze dell’ordine dopo l’omicidio brutale del più piccolo di quattro fratelli. I colpevoli sono a piede libero e si presume siano poliziotti. Scoppia la rivolta nella banlieu di Athena, alle porte di Parigi: alla guida c’è Karim, uno dei fratelli rimasti, che non intende fermarsi finché non verranno fatti i nomi degli assassini. Gli altri due fratelli, Moktar, uno spacciatore cinico, e Abdel, un militare che inizialmente tenta di sedare la rivolta, vengono risucchiati da una spirale di violenza che non sembra poter avere altro epilogo se non quello tragico.
Per questa narrazione epica, ispirata apertamente all’Iliade, Gavras spinge sull’acceleratore fin dai primi istanti attraverso un piano sequenza lunghissimo e ricco di azione, con una musica che sovrasta e occupa ogni centimetro della sala, trascinando lo spettatore dentro lo schermo, nel bel mezzo di una guerra, con eserciti contrapposti – poliziotti e ragazzi della banlieu –, armi, strategie, prigionieri, irruzioni, sangue, morti. Ma soprattutto, la rabbia: che esplode come una bomba a mano e divora come fuoco. Una regia spettacolare, che mette in scena il tema senza tempo dell’esasperazione del conflitto, anche se la contemporaneità e la necessità del film riescono a emergere nettamente, soprattutto nel finale.
Dopo un uno-due del genere, è difficile non finire spiaggiati sull’invitante prato dietro il Palazzo del Casinò. Mentre rifletto sugli evidenti limiti narrativi del mio vegetarianesimo, si siede poco distante un tipo con gli occhiali; di lì a poco, il mio riposo e il suo tentativo di consultare i film del giorno vengono sbriciolati da onde d’urla che, a intervalli regolari, ci travolgono dalla darsena. Sono le innumerevoli, incontenibili fan di Harry Styles. Tra un’onda e l’altra riusciamo comunque a scambiare due chiacchiere sui film visti e su quello che ci aspetta più tardi; “Speriamo bene”, mi dice, “perché di solito con gli adattamenti delle pièces teatrali mi faccio male”.
Non posso parlare per il mio fast-friend bolognese, ma posso dire che a me, The Whale, è piaciuto in maniera esagerata. E lo so, più d’uno alzerà un sopracciglio, sosterrà che la parabola del professore grasso (un Brendan Fraser cetaceo mai tanto in forma) è fin troppo evangelica, che il personaggio della figlia, Ellie (vietato fischiettare Running Up That Hill), è monodimensionale nella sua perenne incazzatura adolescenziale, che la deriva melodrammatica della seconda parte serve a distogliere da una scrittura incapace di arrivare a una chiusura solida, ecc. ecc. Eppure… Sono state due ore intense come non le ricordavo da tempo e, lasciando da parte il cinismo cinefilo, penso sia questa l’essenza del cinema: farci riflettere, sì, ma emozionarci anche; catturare i nostri occhi, le nostre orecchie, i nostri pensieri, d’accordo, ma senza dimenticarsi dei nostri cuori. E la storia di Charlie lo fa. Condannato a una morte imminente (cardiopatico come l’indimenticabile Randy “The Ram” Robinson), mutilato del suo grande amore gay, quest’uomo che ricorda una balena anche quando socchiude lentamente le palpebre le tenta tutte per recuperare in extremis il rapporto con la figlia, non tanto per salvarsi dal senso di colpa, quanto per lasciare a lei e a noi un messaggio di speranza e perdono, con quella positività che gli fa dire: “Tu non hai mai la sensazione che le persone siano incapaci di non avere un cuore?”.
I titoli di coda spesso sono un momento rivelatore: c’è chi scappa di corsa come se il meglio fosse sempre altrove, chi si allontana voltandosi indietro più volte, chi resta seduto e aspetta che la sala si svuoti, prolungando la fine ancora per un po’. Con The Whale ho assistito a qualcosa che non mi era ancora capitato: lei che scende da una fila in alto, si avvicina a un ragazzo non lontano da dove mi trovo; lui si alza, le va incontro piano, lei lo abbraccia e si abbandona a un pianto silenzioso.