Si chiude con il terzo capitolo il diario dalla 79. Mostra del Cinema di Venezia della nostra inviata Jessica Puliero. Si parla di “The Banshees of Inisherin” di Martin McDonagh, “Gli orsi non esistono” di Jafar Panahi e “Siccità” di Paolo Virzì
Oltrepasso la cornice marchiata Campari e dal terrazzo osservo le file di capanne chiuse, gli arabeschi disegnati dai trattori sulla sabbia, il mare d’argento. “Fa brutto?” chiedo all’unica persona presente, uno spazzino d’arancio vestito; poi mi accorgo che tiene il cellulare puntato sull’orizzonte e allora la metto a fuoco anch’io: una linea bitorzoluta, troppo distante per far paura, scende verticalmente da nuvole basse e scure, cordone ombelicale che unisce cielo e mare.
“Tromba d’aria” dice lo spazzino senza staccare gli occhi dallo schermo, aggiungendo che lì dov’è farà sicuramente danni, ma di star tranquilla, tanto da noi non arriva niente. Ah beh, allora. Ripenso a Jack Gladney, quando dopo l’esplosione e il diffondersi della nube tossica diceva che in un evento estremo a contare è la posizione: “La nube è lì, noi siamo qui”; quasi il privilegio fosse nella distanza da cui osserviamo come entomologi le pene degli altri, e il mistero stesse nel perverso godimento celebrato dall’ammirazione della morte.
Comunque ha ragione lui: anche oggi non pioverà. Mi siedo su un disco volante abbandonato nel piazzale del Casinò e aspetto l’ora del prossimo spettacolo. Sarà che quest’isola nell’isola non è poi tanto grande, sarà che dopo dieci giorni nello stesso posto non è raro incontrare facce già viste, ma d’un tratto mi accorgo che lì c’è anche il mio amico bolognese, sempre intento a spulciare il suo programma. Gianni (che è di Modena, mica di Bologna) mi dice che poi il tanto atteso film su Marilyn (Blonde) l’ha un po’ deluso. Il problema è che nel libro da cui è tratto c’era tutta una parte sull’infanzia di lei e sul rapporto con la madre che dava profondità al personaggio, gettando nuova luce sulla Marilyn icona mondiale; e purtroppo, questo aspetto nel film pare sia mancato completamente. Delusione.
“E di Banshees, che ne pensi?” “Eh, bello ma strano.”
Strano? Ambientato nel 1923, in un piccolo paese sulla costa irlandese, The Banshees of Inisherin è il quarto lungometraggio di Martin McDonagh, una black comedy eccentrica che mette in scena la rottura dell’amicizia tra Pádraic e Colm, le conseguenze che ha sulla vita di questi due uomini e più in generale su quella del paese. Che a monte della rottura non ci sia alcuna incomprensione o litigio evidente, ma semplicemente, come la sorella di Pádraic gli dirà in una delle scene iniziali, un “Magari non gli vai più a genio”, è tipico nella scrittura di McDonagh. Disorientato e afflitto dalla perdita dell’unico amico con cui passa il tempo, Pádraic tenta di recuperare il rapporto in ogni modo, finché Colm non gli oppone un ultimatum terribile: ogni volta che cercherà di parlargli, lui si taglierà un dito. Sullo sfondo di questo piccolo conflitto tra uomini semplici, si staglia la guerra civile, che ci raggiunge soltanto col rumore attutito delle sue esplosioni, mentre attraverso lo sguardo distante dei protagonisti osserviamo alzarsi colonne di fumo nel cielo d’Irlanda.
Come nei precedenti lavori del regista irlandese, le risate si alternano agli spargimenti di sangue, il nonsense alla Coen caratterizza scene e dialoghi, e una certa tristezza di fondo riverbera nell’aria quanto la musica di Colm. I temi, poi, sono tanti e pesanti: la necessità dell’arte di fronte alla dissoluzione della morte, la solitudine, la disperazione, la violenza in risposta a qualcosa che non si comprende né accetta; ma l’intelligenza e la leggerezza usate per trattarli, tenendo ogni cosa sospesa tra commedia e tragedia, tra normalità e follia, sono il tratto più caratteristico di questo regista così singolare nel panorama europeo. Azzeccato anche il ritorno alla coppia d’oro Farrel-Gleeson, entrambi perfetti nel rendere le sfumature dei protagonisti, le loro derive emotive, fosse con un mugugno, una smorfia o una semplice occhiata di traverso.
Strano? No, stranissimo, ma vale la pena.
Saluto Gianni e mi metto sulle tracce de Gli orsi non esistono, di Jafar Panahi. La proiezione comincia con un applauso al regista iraniano, ingiustamente incarcerato per la sua opposizione al governo. Girato in clandestinità e con mezzi di fortuna, il film si snoda su tre linee narrative, con Panahi demiurgo fuori e dentro lo schermo. Nella trama principale un regista ricercato dal governo ripara in un villaggio al confine dell’Iran e da qui continua a occuparsi delle riprese da remoto; in quelle secondarie seguiamo le vicende di due coppie intenzionate a fuggire: una dal villaggio stesso, per amore, l’altra dalla capitale, per motivi politici. Un film militante sotto vari punti di vista: quello politico, perché mette in scena dei personaggi vittime tanto delle incomprensibili tradizioni locali quanto del regime; quello cinematografico, perché le scelte di stile e forma seguono evidentemente una riflessione sullo strumento in sé, sui doveri sottesi all’arte del racconto, sulle modalità di mescolare finzione e realtà e sugli effetti oggettivi che ne conseguono. Infine, è anche e soprattutto un film partigiano, in cui Jafar Panahi descrive la sua condizione di perseguitato, la sua scelta di restare per resistere e incoraggia lo spettatore a non avere paura perché: “La paura dà agli altri potere su di te”.
Mentre raggiungo il Palabiennale, realizzo che nella desolazione del red carpet, nei pochissimi giornalisti ancora in giro, nell’assenza dei nugoli di ragazzine davanti alle transenne o sciamanti in zona Darsena per un seflie, c’è la tipica quiete che precede la fine della festa. E siccome la fine della festa, qui, è sempre un po’ anche fine dell’estate, mi è sembrato significativo salutare l’una e l’altra con Siccità di Paolo Virzì.
Il film è una commedia corale con un incipit accattivante: un montaggio velocissimo ma equilibrato che presenta in pochi minuti tutta la complessità dell’intreccio, sviluppato attorno alle vicende di diversi personaggi in una Roma contemporanea, devastata dalla siccità pluriennale. Alla piaga della mancanza d’acqua, si aggiunge ben presto quella di un nuovo virus mortale che si diffonde tra la popolazione, probabilmente attraverso le blatte. Insomma, una situazione apocalittica e rimodulata, come ben si intuisce, su quanto abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo. Purtroppo tutta questa complessità strutturale fatica a filare senza inciampi: la folla di personaggi dopo un po’ risulta ingombrante e costringe a una scrittura che si muove lungo la linea stucchevole dello stereotipo (la bella attrice gattamorta, il buttafuori violento, la dottoressa gelida, lo scienziato provinciale venduto allo star system, ecc.) e delle battute facili, che strappano un sorriso senza lasciare niente. L’impressione poi è che siano stati aperti davvero troppi fronti – oltre alla siccità e alla pandemia, vanno aggiunti i temi del femminicidio e un accenno alle unioni civili – affrontati tutti con la medesima, brillante superficialità. Incredibilmente, si arriva comunque a un finale che regge, ma si resta in qualche modo insoddisfatti; consolati, forse, ma insoddisfatti. Menzione speciale per Mi sei scoppiato dentro al cuore di Mina, che stravince come colonna sonora nella scena più bella del film.
All’uscita incontro Carlo, un mio collega di dottorato a Venezia, anche lui qui per gli ultimi spettacoli; gironzoliamo nella Cittadella chiacchierando di Virzì e McDonagh, dei possibili vincitori, dei film che lui ha visto e io no; poi prendiamo da bere e finiamo a camminare sulla spiaggia. Ancora non possiamo saperlo, ma di lì a qualche ora a Bones and all verrà assegnato il premio per la miglior regia e a Banshees quello per la miglior sceneggiatura; quanto al Leone d’oro – e solo perché nessuno di noi l’ha visto – ci stupirà scoprire che a vincerlo sarà il documentario di Laura Poitras, All the beauty and the bloodshed, mentre a Saint Omer, dell’esordiente francese Alice Diop, daranno il Leone d’argento, nonché il premio alla miglior opera prima. Due registe per i riconoscimenti più importanti della Mostra, quindi, e con due film che vedono al centro personaggi femminili altrettanto forti e determinate, protagoniste di vicende controverse e terribilmente vere. E al di là del merito indiscusso viene da chiedersi se, tutto sommato, non si confermi l’idea che la finzione abbia perso buona parte del suo atavico appeal; che la letteratura e l’immaginazione, al cospetto del caos, abbiano reso l’onore delle armi per ritirarsi come vecchi nobili decaduti nella loro torre d’avorio.
Sia come sia, intanto è scesa la sera e si è portata dietro una luna incompleta ma luminosissima, che rischiara il mare quasi fosse un occhio di bue su di un palco immenso. Come due attori senza pubblico né canovaccio, improvvisiamo buttandoci nell’acqua tiepida, e mentre Carlo mi racconta di Vera, la sua pianta di rosmarino morente che forse sopravviverà all’innesto di nuova terra, mi vengono in mente le parole del marinaio Camacho quando dice al Santo: “Poniamo che tu ti ripari il tetto della casa: tu credi di star facendo quella riparazione, in realtà stai solo costruendo un ricordo; è solo questo la vita, una continua fabbrica di ricordi, il che vuol dire che anche da vivi noi non facciamo altro che morire” (La stiva e l’abisso, p. 92, ed. Einaudi ET). Non so se è per colpa della stanchezza, o di Bollani e della sua musica brasiliana lievemente triste che ci raggiunge dal terrazzo dell’Excelsior, ma all’improvviso mi sale un groppo in gola che somiglia tanto a un ovosodo, così mi tuffo ancora una volta e mi abbandono all’accogliente silenzio dell’acqua.