Leggendo quello che si scrive di Antonio Moresco, a volte sembra quasi che si stia parlando dell’autore come di un re nudo i cui vestiti, però, indubitabilmente esistono, anche se (quasi) nessuno li ha davvero avvistati. Con la sua trilogia Giochi dell’eternità, Moresco sembra aver incuneato nella storia della letteratura italiana un oggetto inqualificabile per stranezza e novità, di cui si fatica a parlare in modo sistematico.

Di Moresco si sono molto commentate le tribolazioni editoriali, raccontate nelle Lettere a nessuno, a volte lasciando da parte le sue opere: la storia di un autore non pubblicato che finalmente riesce a emergere, infatti, è tanto più rassicurante, cinematografica e commercializzabile di quanto non lo siano i tre romanzi che compongono i Giochi dell’eternità. Si è (giustamente) molto scritto del secondo volume, Canti del caos (2009), tralasciando talvolta Gli esordi (1998) e Gli increati (2015), di conseguenza perdendo di vista l’architettura generale della trilogia, concentrandosi più spesso sull’immaginario allucinato di Moresco piuttosto che sulle sue sperimentazioni formali. La biografia di Moresco, però, rimane inseparabile dalla sua opera letteraria, come lui stesso ha sottolineato più volte: Gli esordi racconta infatti l’arrivo di Moresco alla scrittura, descrivendone l’esperienza di seminarista cattolico, militante nella sinistra extraparlamentare e infine aspirante scrittore; Canti del caos, alternando il piano della finzione e quello della realtà fino a farli collassare insieme, narra invece la vicenda di scrittura ed emersione proprio dei Canti del caos, animando una folla sterminata di personaggi e situazioni che ruotano (letteralmente) attorno alla campagna pubblicitaria per un libro che non è ancora stato scritto; Gli increati chiude la trilogia mettendoci di fronte a una post-biografia (o pre-biografia, o entrambe, secondo la metafisica interna al libro) di Moresco con il resoconto di un suo lunghissimo viaggio nel regno dei morti. Si tratta di libri, dunque, in cui la vita dell’autore viene esaminata, integrata e oltrepassata nell’invenzione della scrittura, e la cui disposizione in una trilogia dimostra un’intenzionalità espressiva comune.

Esistono, quindi, o no, gli abiti di questo stranissimo re che è Antonio Moresco? Il re non è affatto nudo, anzi. Ma per vedere i suoi abiti bisogna assumere una prospettiva adatta: la stessa che Moresco stesso, attraverso la sua trilogia, cerca di far assumere ai suoi lettori, nel tentativo di far avvertire loro la presenza di qualcosa che non si vede. La questione del percepire qualcosa che non c’è (ma che non per questo non esiste) e del trovare il modo di parlarne è infatti uno dei nuclei centrali dei Giochi dell’eternità.

Prendiamo quindi come punto d’inizio per un’interpretazione di Moresco il seguente problema filosofico (mi perdoneranno i critici per l’evasione di campo e i filosofi, spero, per il semplicismo): in che senso possiamo nominare qualcosa che non c’è? Molte delle cose di cui parliamo ogni giorno, in senso stretto, non esistono: tra queste troviamo le cose che non esistono più, come tutto ciò che riguarda il passato, e le cose che non esistono ancora, come tutto ciò che riguarda il futuro, ma anche le cose che non esistono e basta, come le creature di fantasia, i sogni, le ipotesi selvagge, e una buona parte di ciò che normalmente consideriamo finzione. Ciò che non esiste, però, come ci ricordano alcuni filosofi antichi, non dovrebbe poter essere nominato né descritto: non c’è nulla da dire del nulla. Tutto ciò di cui possiamo parlare, dunque, deve avere un contenuto esistenziale di qualche tipo. Se, nel momento in cui mettiamo qualcuno a parte di una storia inventata o di un ricordo, ci riferiamo a qualcosa, allora c’è qualcosa a cui ci stiamo riferendo – qualcosa che “in un certo senso” esiste. Ma che cosa? E in che senso?

La questione è notoriamente spinosa, e una delle possibili soluzioni è quella di riqualificare il significato della parola “esistere”, ammettendo, per esempio, che si possa esistere secondo gradazioni o modalità diverse, in modo da poter dire che una creatura reale esista “di più” rispetto a una creatura immaginaria – che pure esiste, a modo suo, ma solo nella nostra mente, qualunque cosa voglia dire. Là dove un filosofo, però, cercherebbe di qualificare l’ontologia di questi oggetti immaginari, passati o potenziali con una trattazione teorica sofisticata, Moresco ha invece prodotto un’opera attraverso cui è possibile percepire direttamente lo scarto tra ciò che generalmente definiamo reale o irreale, come anche le diverse gradazioni o modalità di esistenza che caratterizzano queste due categorie, e persino le relazioni e reciproche influenze che intercorrono fra la realtà reale delle cose che esistono e la realtà irreale, non più reale o non ancora reale di quelle che non esistono. I Giochi, infatti, non si limitano a flirtare con un vecchio problema filosofico, ma lo esplorano concretamente nei suoi effetti diretti sulla vita nella sua dimensione individuale e globale.

Questo territorio in cui Moresco cerca in tutti i modi di avventurarsi attraverso tre libri si può definire, prendendo in prestito una sua espressione dalle Lettere, come «la zona viva innescata che non ha ancora forma e che ha dentro di sé ogni forma». Si tratta, a tutti gli effetti, di un territorio o di una regione dell’esistenza che di solito percepiamo solo liminalmente, tramite la memoria e l’immaginazione, e che Moresco tenta di esplorare attraverso l’invenzione letteraria, tanto nell’uso del linguaggio, quanto nella costruzione e rappresentazione dei personaggi e, infine, anche nell’arco più grande della struttura narrativa dei volumi della trilogia.

Il linguaggio, di cui Moresco lamenta spesso l’inadeguatezza espressiva, può aiutarci a comprendere in maniera immediata e capillare la grande novità dei Giochi dell’eternità proprio grazie alla sua fragilità e debolezza. È infatti il linguaggio a subire per primo la pressione della «zona viva innescata» di cui parla Moresco, ed è nel linguaggio che questa pressione si manifesta in maniera più evidente. Uno degli aspetti più spiazzanti della trilogia, a livello linguistico, è infatti il ritornare martellante di alcune parole o espressioni all’interno delle opere. Penso, ad esempio, al modo in cui moltissime figure femminili all’interno dei Canti del caos vengano descritte con l’aggettivo «profumata», o come se ne sottolinei ogni volta l’avere le «unghie dipinte», o all’uso della parola «incernierato» all’interno de Gli increati. In altre opere di narrativa e non, Moresco dimostra di poter perfettamente fare a meno della ripetizione, quindi il suo farne uso all’interno dei Giochi ha certamente un fine estetico intenzionale. Quanti di noi hanno fatto l’esperimento mentale, da bambini, di ripetere una parola nella propria mente, riducendola a puro suono, spezzettandola in sillabe? Quello che accade in questo caso non è tanto la distruzione del significato della parola, quanto il superamento del suo significato convenzionale: ci si accorge, giocando con la parola ripetuta, che essa può evocare impressioni e associazioni diverse da quelle che evoca normalmente. Moresco, con le sue ripetizioni, sembra voler compiere un esperimento simile, spingendo la parola a sfondare e oltrepassare i suoi significati convenzionali.

In che senso sono «profumate» le figure femminili dei Canti del caos? Non viene mai spiegato apertamente, ma il ritorno costante sulla stessa parola in un romanzo di un migliaio di pagine produce un effetto estetico per cui la parola cessa di significare ciò che significa nel quotidiano e comincia a trasmettere l’impressione di alludere a qualcos’altro, a un significato nuovo e diverso del termine «profumata» che, attraverso contesti sempre cangianti, cerchi di emergere dalla convenzionalità dei nostri modi di esprimerci. La parola di Moresco, in questo senso, si potrebbe definire una parola “esordiente” o “fantasticante”, ovvero una parola consapevole del fatto di star sempre alludendo, come ogni parola, a una dimensione extra-linguistica, ma che, allo stesso tempo, vada “fantasticando” costantemente riguardo al proprio significato, immaginandolo nelle sue forme molteplici anziché accettandone quelle più convenzionali, e che sia quindi sempre sul punto di “esordire”, ovvero di manifestare più di un significato possibile.

Se poi si presta attenzione a un altro esempio fondamentale di ripetizioni all’interno di tutta la trilogia, ovvero quello dell’uso dei futuri, con la loro potenza ritmica per l’accento che ricade sull’ultima sillaba (sarà, avrà…), si può forse cominciare a costruire un’ipotesi sul linguaggio dei Giochi. L’idea centrale nel modo in cui vengono utilizzati i futuri, in particolare ne Gli increati, in cui spesso vengono ripetuti al termine delle frasi pronunciate dai personaggi («chissà perché non mi era mai venuta in mente prima, non mi verrà?») sembra essere quello di dare una sfumatura potenziale all’azione descritta, anche quando essa sia già stata compiuta. L’essenziale però non è mai l’attualizzarsi di queste potenzialità, quanto il lasciare che il lettore ne percepisca la pressione diretta sul linguaggio, avvertendo, di conseguenza, che il nostro linguaggio quotidiano non è che l’attualizzazione di una fra le molteplici possibilità che giacciono all’interno di ogni singola parola e premono per venire alla luce. Il linguaggio di Moresco è quindi un linguaggio cosciente del fatto di essere la superficie di qualcosa di indicibile, la parte emersa di un coagulo di possibilità espressive fra cui, per convenzione, solo alcune riescono a trapassare dal regno delle potenzialità a quello dell’attualità.

La pressione esercitata dal potenziale sul reale, cioè la pressione della «zona viva innescata che non ha ancora forma e che ha dentro di sé ogni forma» sulla realtà in cui queste forme arrivano a manifestarsi, anima poi anche la caratterizzazione dei personaggi e le vicende descritte all’interno dei Giochi. I personaggi di Moresco, infatti, assomigliano alle sue parole: la maggior parte di essi sembra faticare a rimanere nei propri panni. Una costante fra gli accadimenti all’interno di tutte e tre le parti dei Giochi dell’eternità è infatti quella dello svelamento o della confusione delle identità, per cui un personaggio si rivela essere qualcun altro, a volte comparso in pagine o addirittura in libri precedenti. Tra la folla di figure che si disvelano in altre figure, si riconoscono principalmente tre agenti: un protagonista che, nelle vesti di seminarista, scrittore e defunto percorre il mondo della narrazione dei Giochi; un’amata che compare nelle spoglie della Pesca, della donna nella carta stagnola e poi nelle vesti della sposa dei morti, il cui ruolo sembra essere quello di attirare e guidare l’autore; infine un “ostacolatore”, che riveste i ruoli di prefetto del seminario, editore e tentatore del protagonista.

Queste molteplici incarnazioni di uno stesso personaggio sono un modo di accerchiare, descrivendolo da diverse prospettive, qualcosa di indicibile riguardo a ciascuno di essi. Ma, ancora una volta, l’innovazione all’interno del libro non è il poter tradurre l’indicibile in dicibile, quanto il fatto che il continuo alternarsi di questi avatar e il continuo confondersi e riconoscersi dei personaggi punti a qualcosa che li oltrepassa. Per quanto si possa essere tentati dal leggere allegoricamente queste apparizioni nominate molto spesso per epiteti (la Pesca, il Matto, la Musa…), i personaggi di Moresco non sono in nessun modo riducibili ad altro se non alle loro identità alternative, spesso rivelate da loro stessi o da altri all’interno dei Giochi. Afferrare l’identità di uno qualsiasi di questi personaggi richiede quindi il percorso cumulativo del vederli attraversare le loro diverse incarnazioni, del vederli ricomparire in vesti ogni volta differenti. Sono però proprio i loro movimenti, svelamenti e riconoscimenti reciproci, nonché le loro sovrapposizioni, a generare l’impressione che oltre la scorza del personaggio ci sia un’altra dimensione dell’identità umana a cui ciascun personaggio rimanda.

Ciò che il testo cerca di far avvertire, dunque, col suo continuo mettere in moto dall’interno personaggi e situazioni, non è una teoria o spiegazione o interpretazione del loro movimento, quanto l’osservazione e la percezione diretta del movimento e della sua causa soggiacente, che è sempre da rintracciare, appunto, in quella «zona viva innescata che non ha ancora forma e che ha dentro di sé ogni forma». I personaggi di Moresco, come le sue parole, sono superfici, e in quanto superfici rimandano automaticamente a qualcosa di cui sono la superficie e la cui presenza diventa inevitabilmente avvertita solo nel momento in cui essi stessi sono considerati e raccontati come superfici. Pensiamo, ad esempio, alla parte centrale dei Canti del caos, nella quale tutte le figure all’interno del libro cominciano a disporsi in coppia e a viaggiare contemporaneamente, tracciando nei loro viaggi un’unica parabola centripeta verso il luogo in cui si sta tenendo il meeting per la campagna pubblicitaria del libro di cui fanno parte; oppure alla struttura de Gli increati, dove la narrazione si dispiega in un’unica grande corsa lineare di personaggi che cercano di sfondare il fronte di una guerra, lanciandosi attraverso il buio delle prime sezioni verso il punto di fuga lontanissimo e luminosissimo degli ultimi capitoli. Anche in questi casi, la ripetizione dei gesti e delle azioni e il loro articolarsi su linee parallele è un meccanismo di catalizzazione dell’attenzione verso i sommovimenti che animano nascostamente la narrazione. Se i personaggi vorticano verso un centro, allora è questo vorticare che il libro vuole far avvertire; se corrono verso un punto di fuga luminoso, allora è a questo correre che dobbiamo rivolgere lo sguardo. Il lettore che si soffermi a smantellare l’allegoria possibile di un’azione o di un personaggio, o che legga questi romanzi come “grandi metafore” di qualcosa, rischia la svista dell’allievo zen a cui si chiede di guardare la luna e che guarda invece il dito che punta alla luna. C’è ovviamente un aspetto metaforico delle vicende, come c’è un dito che indica la luna, ma l’innovazione formale di Moresco è nel fare in modo che ogni parola, ogni personaggio e ogni avvenimento debba essere avvertito e osservato in parallelo ai propri sosia, per percepire, attraverso di essi, la forza da cui emerge il loro movimento comune.

In che senso, quindi, per tornare alla questione iniziale, possiamo nominare qualcosa che non c’è? Non possiamo. Ma osservando la superficie mobile di ciò che c’è, possiamo avvertire in che modo essa sia animata dalla tensione a emergere di ciò che non c’è. La superficie dei personaggi e delle azioni, ovvero ciò che è reale all’interno della narrazione, si manifesta come la superficie visibile di un enorme sommovimento che avviene al di sotto di essa e che innesca, in parallelo e senza rivelarsi mai, le vicende dei personaggi. Questo passaggio da reale a irreale e questa pressione della dimensione fantastica, potenziale, inesistente, su quella esistente è presente in tutti e tre i romanzi della trilogia, manifestandosi prima, ne Gli esordi, come pressione del destino personale di scrittore del protagonista, poi, nei Canti del caos, come pressione del potenziale sull’attuale, dell’immaginario del romanzo (ma non solo) sul reale, e infine, ne Gli increati, come pressione dell’inesistente sull’esistente. Ma tutte queste dimensioni, da quella della vita personale di Moresco alla realtà in cui cerca di emergere la sua letteratura e, infine, alla vita e all’esistenza intera, sono il risultato della pressione e del passaggio, nell’aldiquà del reale e percepibile e attuale, di un’altra realtà che viene prima della realtà e contiene già dentro di sé tutte le realtà possibili.

Molte delle grafiche dei libri di Antonio Moresco utilizzano dipinti di Lucio Fontana, e non è un caso: le parole «cruna», «fessura» e «spaccatura» sono tra le parole cruciali ripetute dall’autore nei sui scritti, tanto all’interno come all’esterno dei Giochi, precisamente perché ciò che normalmente definiamo realtà è, per Moresco, ciò che è riuscito a emergere, con enorme fatica, aprendo una spaccatura nella membrana che separa il nostro mondo dal mondo delle cose che non esistono ancora, non esistono più, o sono solo immaginate. In questa prospettiva, i sommovimenti globali che stiamo vivendo cambiano volto: ogni grande cambiamento, in Moresco, inclusi quelli più catastrofici, è il risultato del sommovimento di qualcosa di potenziale che lotta per venire alla luce, di una realtà possibile che cerca di manifestarsi e di esordire all’interno della nostra realtà. Per percepire tutto questo, però, bisogna assumere una prospettiva radicalmente diversa, superando quella di semplici abitanti del reale e cercando di sentire come l’immediato, il reale, il qui ed ora, alludano costantemente alle proprie periferie: al potenziale, al passato, all’immaginario.

Alcune delle pagine di Moresco, nella tensione di superarsi in ciò a cui alludono, sembrano quasi echeggiare quelle di alcuni pensatori mistici (sappiamo, dal suo testo teatrale La santa e da L’adorazione e la lotta, che Moresco è un lettore di Teresa d’Avila) e hanno, come le pagine di molti mistici, la forza dell’esperienza individuale e la novità di una prospettiva non compromessa da posizioni ideologiche o filosofiche. Ma, appunto, come le pagine di molti mistici, anche quelle di Moresco conservano talvolta quel genere di impenetrabilità che costringerà i suoi lettori allo sforzo di diventare suoi contemporanei nel corso di epoche successive. Ci sarebbe molto di più da dire su di lui, ci sarà. Col tempo, stratificandosi, emergeranno da quella stessa «zona viva innescata che non ha ancora forma e che ha dentro di sé ogni forma» nuove interpretazioni della sua opera, ciascuna delle quali di certo non sarà tutto ciò che avrebbe potuto essere, ma, forse, esaminando l’opera di Moresco, giocando coi suoi Giochi, ne farà ugualmente avvertire la spinta animante. I vestiti del re ci sono, ci saranno. E pure il re! Ma come scrive di sé Moresco alla fine di Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno: «eppure non sono ancora da nessuna parte, non ci sono ancora».