Il segreto è il titolo con cui, in una prima edizione per La tartaruga, nel 1999, e successivamente nel 2010 per Dalai Editore, è stato pubblicato un romanzo che l’autrice, Clarice Lispector, voleva avesse un altro nome. Lo si legge in una lettera[1] del 1944, indirizzata all’amico poeta Lúcio Cardoso, che Lispector invia da Napoli, dove si trovava per accompagnare il marito, Maury Gurgel Valente, diplomatico assegnato al consolato della città partenopea.

A settembre di quest’anno il romanzo ha finalmente riconquistato il suo nome, Il lampadario, grazie ad Adelphi e alla nuova traduzione a cura di Virginia Caporali e Roberto Francavilla. La scelta del titolo mette l’accento su un elemento focale nella poetica di Lispector: l’attenzione verso le «cose (insignificanti)», come le definisce Sandra Petrignani nel suo saggio Lessico femminile (Laterza, 2019); elementi di poco conto, quotidiani e, in quanto tali, paradossalmente, tracce materiali, prove di prima importanza di quello che è la vita. Sono come pietre che spuntano dall’acqua di un fiume; la loro presenza è messa in rilievo da una voce narrante che, per contrasto, non ha nulla di ordinario ed è felice la definizione che riporta Claudia Durastanti in una presentazione dell’autrice in occasione dell’anniversario dei cento anni dalla sua nascita: la scrittura di Lispector è un movimento di «ascesa verso il basso»[2], fatto di una sintassi spezzata, che frantuma le scene descritte rincorrendo le percezioni di Virginia, la protagonista, mimando il suo sguardo e le sue sensazioni interiori. Una resa complessa che contrasta con l’uso attento della ripetizione, che va da singole frasi ravvicinate a termini che ritornano in tutto il testo in una tensione unitaria, come “vento”, “vorticoso”, “asciutto”. L’incipit del romanzo potrebbe essere preso a manifesto di poetica, perché già staglia il microcosmo che poi si dispiegherà nel romanzo:

«Per tutta la vita lei sarebbe stata fluida. Ma quello che aveva dominato i suoi contorni e li aveva attirati verso un centro, quello che l’aveva illuminata contro il mondo e le aveva dato intimo potere era stato il segreto. Non sarebbe mai stata in grado di pensarci con chiarezza, nel timore di invaderne l’immagine e dissolverla. Il segreto aveva comunque formato dentro di lei un nucleo remoto e vivo, senza mai perdere la magia – la sosteneva nella sua indissolubile vaghezza come l’unica realtà che, per lei, avrebbe dovuto essere sempre quella perduta. I due si sporgevano dal ponte fragile e Virginia sentiva i piedi nudi vacillare d’insicurezza come fossero liberi sopra il mulinare placido dell’acqua. Era una giornata violenta e asciutta, in larghi colori fissi; gli alberi scricchiolavano al vento tiepido, increspato da fredde raffiche. Il vestito liso e sdrucito di bambina era attraversato da brividi di fresco. La bocca seria premuta contro il ramo morto del ponte, Virgínia immergeva gli occhi distratti nell’acqua. All’improvviso si era immobilizzata, tesa e lieve:
«Guarda!»
Daniel aveva voltato rapidamente la testa – impigliato a un sasso c’era un cappello bagnato, pesante e scuro d’acqua. Il fiume scorreva e lo trascinava con energia, ma quello resisteva. Finché, perdute le ultime forze, fu portato via dalla corrente leggera e a salti sparì fra spume quasi allegre» (p.5).

Virginia e Daniel sono due fratelli. All’inizio del romanzo sono bambini. Si trovano nella selva misteriosa che circonda la casa di Granja Quieta, a Brejo Alto, luogo incantato come sono sempre gli spazi in cui si è attraversata l’infanzia. Il segreto che li unisce è un cappello trascinato dalla corrente del fiume, correlativo oggettivo della morte, che non viene però nominata, resta sottotraccia, ma guida la tensione che attraversa tutto il libro. Perché si nasconde in ogni oggetto che Virginia fissa, in attesa di una rivelazione che è sempre sul punto di arrivare, in una transustanziazione mistica, paradossalmente sempre rivolta verso il basso, che accomuna tutte le cose. Questa capacità di sguardo, che è la sua intelligenza, fa sì che Virginia non assecondi il ruolo femminile, subalterno, a cui la società in cui vive la relegherebbe, come è accaduto a sua madre, specchio di Virginia, che da quando si è sposata vede la propria vita come un luogo inospitale: «era uno dei motivi che più ricorrevano nella sua esistenza, di non abitare a casa propria ma in quella di suo marito, in casa dell’anziana suocera. Sì, sì; prima si legava agli eventi tramite fili gioiosi e adesso quei fili si ispessivano appiccicosi e si spezzavano, e lei sbatteva violentemente contro le cose. Tutto era così irrimediabile» (p.15). Virginia, al contrario vive «al bordo delle cose» (p.11), non si fa sopraffare da ciò che la circonda ma ne diventa osservatrice.

Che cosa ha a che fare la morte, si chiede Sandra Petrignani in Lessico femminile, con le «cose (insignificanti)»? Risponde ricordando un episodio che accomuna la biografia dell’autrice alla morte di un’altra scrittrice, Ingeborg Bachmann: entrambe, stordite da un uso eccessivo di medicinali, hanno accidentalmente appiccato un incendio nella propria casa, addormentandosi con la sigaretta accesa. La Bachmann morì nel rogò, nel 1973; Lispector, nel 1966, sopravvisse, pur riportando gravi ustioni. Questo per dire che «quasi mai si muore in modo grandioso, eroicamente. Si muore in genere in modo insignificante, nella normalità di una malattia, e per sbaglio, per distrazione, per solitudine» (p.42)

Tra le «cose (insignificanti)» degne di nota, si deve citare la scatola dove Daniel nasconde ai genitori i ragni di cui è collezionista. Un giorno, in uno dei suoi atti dispotici verso la sorella, costringe Virginia a osservarli da una fessura della scatola. Da quel giorno l’occhio le diventa «impercettibilmente strabico e meno vivace, più lento e umido, più smorto dell’altro» (pp. 30-31). Virginia ha uno sguardo obliquo, così come è eccentrico il suo personaggio. È con quell’occhio che spia spaventata il lampadario che dà il titolo al romanzo, descritto proprio come un «grande ragno» che avvampa e illumina la casa in cui si consuma l’infanzia della protagonista, un’età in cui tutto accade in una sua perfezione onnipotente e che trova il suo cardine nel rapporto esclusivo tra fratello e sorella, che sfiora l’incesto e impedisce a Daniel e Virginia di poter costruire, in futuro, una vita e un amore adulti. Daniel e Virginia parlano un linguaggio che possono capire solo loro e fondano insieme la Società delle Ombre, composta da loro due soltanto e che ha due regole: la solitudine e la verità.

Lo stesso lampadario si ripresenta verso il finale del romanzo, ma in assenza. Virginia, ormai adulta, con il corpo divenuto grande e pesante, simile a quello della madre, torna a Granja Quieta per la morte di sua nonna. Inizialmente pensa che il suo ritorno potrebbe essere definitivo, ma presto capisce «senza neppure comprenderlo che il posto dove si è stati felici non è il posto dove si può vivere» (p. 258). In treno, nel viaggio di notte che la riporta in città, si rende conto di essersi scordata di guardare il lampadario e le viene in mente il respiro di sua nonna, «inspira, espira, inspira, espira, morte e resurrezione, morte e resurrezione» (p. 263). 

Il lampadario è il secondo romanzo scritto da Clarice Lispector, considerata l’autore più importante della letteratura brasiliana del ‘900, nonostante le sue origini siano ucraine e la lingua della sua famiglia, arrivata in Brasile quando Clarice era piccolissima, sia lo yiddish. Forse è questa sua origine, questa commistione culturale che fa sì che Lispector abbia una scrittura che non assomiglia a quella di nessun altro. E che Il lampadario sia uno dei libri più belli che io abbia mai letto.


[1] https://www.pangea.news/clarice-lispector-il-lampadario-lettere-napoli/

[2] https://www.youtube.com/watch?v=HSYtIOzAZcI

Clarice Lispector, Il lampadario, traduzione di Virginia Caporali e Roberto Francavilla, Adelphi, Milano 2022, pp. 282, 19,00 €