Tre politici, grigi e incupiti come solo i politici democristiani sapevano essere, arrivano trafelati in un ospedale. Chiedono informazioni su un uomo che è stato portato lì poco prima. Dalla prospettiva di quest’ultimo, steso su un letto, vediamo i loro volti. Riconosciamo tre maschere che negli anni Settanta erano su tutti i giornali: Andreotti, Cossiga e Zaccagnini. L’uomo che osservano è Aldo Moro, e la sua voce fuori campo ci dice che è alle Brigate Rosse che deve la sua salvezza. Esterno notte comincia così, con questo gioco dell’immaginazione che ribalta il reale, tragico epilogo del caso Moro: una disinvoltura nel cambiare il corso degli eventi che richiama senz’altro esperimenti ucronici come quelli di certi film di Tarantino; ma che, unita all’attenzione per le figure di sfondo della vicenda e all’esplorazione di momenti non raccontati della storia, porta la manipolazione della materia narrativa dell’affaire Moro a un più alto livello di libertà, tipico della nuova serialità televisiva e cinematografica. Come se i 55 giorni del sequestro fossero il frutto dell’immaginazione di uno sceneggiatore; come se tra gli “anni di piombo” e il Marvel Cinematic Universe non ci fossero differenze sostanziali.
Un paragone, il nostro, che può sembrare una volgarizzazione dell’impressione di Leonardo Sciascia che «tutto nell’affaire Moro accada, per così dire, in letteratura»; un accostamento irrispettoso, anche, a fronte di una vicenda così tragica, il trauma fondativo – l’ossimoro ne dice molto – della Repubblica Italiana come la conosciamo oggi. Eppure, ci sembra una chiave che risulta sempre più efficace per comprendere la proliferazione di narrazioni dell’affaire, diffuse su più media e distribuite uniformemente nell’arco dei quarant’anni che ci separano dalla vicenda, a dispetto del cliché di una rimozione di Moro dall’immaginario collettivo su cui si è appoggiato in parte il lancio promozionale della serie. Narrazioni che vanno dagli ormai innumerevoli epigoni sciasciani in letteratura (il più recente è Il dio disarmato di Andrea Pomella, ma la Renault 4 rossa compare in bella vista anche sulla copertina dell’ultimo romanzo dei Wu Ming, Ufo 78), passando attraverso il fumetto (a partire da 16 marzo), il teatro, il cinema, la televisione, il podcasting e persino le provocazioni trap (vedi alla voce P38 Gang). Per di più, esibendo una varietà di linguaggi che va dalla celebrazione sacrificale al registro parodico-satirico, come dimostrano da subito In questo Stato di Alberto Arbasino e la vignetta del «Male» che muta una delle foto del presidente DC recapitate dalle Br ai giornali nella pubblicità di un marca di vestiti. Insomma, se c’è una cosa su cui si può dissentire dall’instant book redatto da Sciascia a pochi mesi dal delitto, è il dato che l’affaire «vivesse ormai in una sua intoccabile perfezione». All’affaire, invece, complici le zone d’ombra che si porta dietro, hanno in seguito messo mano in molti: per aggiustare, per correggere, per aggiungere, per sottrarre; per colmare i vuoti e per raccontare la stessa storia da prospettive inedite. Così come si mette mano a un concept nel contesto di quel modello produttivo, citato in apertura, che gli studiosi del panorama mediale contemporaneo definiscono “ecosistema narrativo” con una metafora biologica o “media franchise” usando la terminologia del marketing.
Il lungometraggio di Marco Bellocchio, prodotto da The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction e Arte France Cinéma, e concepito per essere trasmesso in sei puntate in prima serata su Rai1 a partire dal 14 novembre, sembra confermare la validità di questa chiave di lettura. Il regista torna infatti sul caso Moro già raccontato in Buongiorno, notte (2003) per portare sullo schermo il suo film definitivo sull’argomento, potremmo dire; e, nel farlo, aggiorna la tecnica narrativa alle serie televisive di nuova generazione che Jason Mittell ha riunito sotto l’etichetta di Complex Tv. In un gioco di equilibrio tra l’adattamento alle specificità del medium – di una vicenda di cronaca e non di un testo finzionale in questo caso – e l’espansione della storia in molteplici direzioni, non manca neanche un sapiente dosaggio tra quelli che Mittel definisce centrifugal e centripetal storytelling: il primo dei quali consiste in un’esplorazione di storie alternative, possibilità ipotetiche, sconfinamenti dal canone (cioè dalla storia dell’affaire per come sappiamo essere andata), mentre il secondo approfondisce momenti rimasti fuori dalla narrazione principale e la psicologia dei personaggi, sviluppando le loro backstories.Ecco allora che il racconto di Bellocchio si apre proprio con un What if? che si ricollega al finale onirico di Buongiorno, notte, mostrandoci i tre gerarchi democristiani al capezzale di un Moro liberato dalle Br; mentre alla domanda What is? che regola le logiche dello storytelling centripeto risponde l’architettura complessiva del film-serie, dove a ogni episodio corrisponde il punto di vista specifico di un personaggio. Una massima vuole del resto che i film siano fatti per raccontare storie, le serie per raccontare personaggi.
Se la storia delle rivisitazioni culturali dipende in gran misura anche dalla ricezione da parte del pubblico, è chiaro che la rivisitazione intrattiene un dialogo col pubblico cui si rivolge. E dal momento che le produzioni hanno una capacità inedita di sondare in presa diretta le reazioni dell’audience alle storie che mandano in onda (sui social innanzitutto), la flessibilità di questi nuovi modelli dello storytelling è funzionale agli aggiustamenti di trama secondo una bussola che trova nel pubblico il suo nord magnetico. Bellocchio ha più volte dichiarato, a proposito di Esterno notte, di aver girato la serie per raccontare il caso Moro ai ragazzi di oggi, agli adolescenti che non hanno memoria di quell’evento – e a cui quell’Italia deve apparire ora come un Paese antichissimo e perduto, come ha scritto Belpoliti su «doppiozero». Per questo, il trailer sembrava promettere un’opera diversa da quella che in realtà è: sullo sfumare del mandolino da “mistero all’italiana”, l’uso della canzone di Jeanette Porque te vas (1974) pareva declinare il film in ottica ironicamente postmoderna; e in effetti riascoltiamo la canzone nella serie, colonna sonora del momento in cui Moro è stato rapito e viene condotto al covo brigatista. Ma il trailer è, da questo punto di vista, ingannevole: da quelle immagini Esterno notte appariva come un esercizio di “tarantinismo”, e invece l’opera che ci troviamo di fronte appartiene chiaramente all’ambito della “serialità seria” che ha caratterizzato il mondo della televisione post-Breaking Bad.
È allora nel segno di una ricerca della complessità che si svolge la resa dei conti di Bellocchio con il caso Moro, consentita appunto dalle tecniche narrative della nuova serialità e specificamente proprio dall’approfondimento delle storie dei singoli personaggi, in un continuo rimare di personale e politico che sembra quasi rispondere agli slogan di quegli anni. Lotta privata e insieme politica è quella di Eleonora Moro (Margherita Buy) contro le istituzioni ostinate nella loro fermezza a lasciare il marito al suo destino sacrificale; così come anche l’allusione politica al matrimonio fallito tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista viene resa con un affondo negli aspetti privati di diverse relazioni amorose in crisi. Le storie della stessa Eleonora che rimprovera al marito una certa trascuratezza nei rapporti familiari, di Cossiga e la moglie che dormono in letti separati e di Valerio Morucci e Adriana Faranda che affrontano i loro problemi coniugali durante i 55 giorni del sequestro sono raccontate attraverso l’insistenza della macchina da presa sulle camere da letto dei personaggi, non solo a coglierli nella loro intimità, ma anche comparando ciascuna di quelle camere alla spoglia brandina della “prigione del popolo”. Molto più sfaccettato rispetto a Buongiorno, notte appare anche il punto di vista dei brigatisti a cui viene dedicato un episodio: nel film la scelta se uccidere o meno il leader Dc era interamente appiattita sull’etica personale – semplificazione necessaria a sostenere la tesi che fosse più simile Moro a un partigiano dei brigatisti che pure erano convinti di essere la Resistenza. Nella serie, invece, questa scelta viene restituita anche a una dimensione di strategia politica, attraverso la focalizzazione su Adriana Faranda (Daniela Marra) che pure in minima parte cede al topos ritrito della terrorista-madre degenere.
In questo senso, non è solo la dinamica di approfondimento psicologico dei personaggi a manifestare parentele con la serialità televisiva contemporanea, ma è anche l’utilizzo di un lessico cinematografico più ampio e variegato rispetto al semplice realismo della rappresentazione: un lessico che non disdegna di virare su tonalità grottesche e visionarie, quasi a sottolineare il carattere di messa in scena di ciò che vediamo, e a liquidarne la veridicità. Nel segno della sensazione che «l’affaire Moro fosse già stato scritto, che fosse già compiuta opera letteraria» (sempre Sciascia), Bellocchio inserisce una serie di elementi metafinzionali, inscatolando in rappresentazioni dentro rappresentazioni il racconto della vicenda simultaneo al suo svolgersi (in Buongiorno, notte la sceneggiatura omonima; in Esterno notte il regista teatrale che fa mettere in scena ai suoi allievi il rapimento ancora in corso). Per questi motivi, l’episodio più interessante e riuscito è quello incentrato su Cossiga: personaggio che nei racconti del caso Moro è sempre stato all’ombra di Andreotti, relegato in secondo piano, e che qui invece si prende la scena – anche grazie all’ interpretazione di Fausto Russo Alesi. Se da un lato il suo rapporto con l’agente americano è sintomo dell’arcinota passione postmoderna per il complottismo paranoico, dall’altro tale passione viene rovesciata e parodiata proprio tramite il personaggio del ministro, alla cui storia vengono affidati alcuni dei momenti più visualmente intensi della serie: Cossiga visita un manicomio, creduto la prigione di Moro, in una scena che, giocata sulla distorsione visiva del mondo nascosto degli infermi, rappresenta uno dei vertici grotteschi e paranoici del film; memorabile anche la scena dell’ingresso nella sala delle intercettazioni, dove decine di agenti ascoltano le conversazioni telefoniche di tutta Roma sotto il suo attento sguardo.
Il senso complessivo dell’operazione di Bellocchio nel contesto delle narrazioni transmediali del caso Moro si può infine ravvisare forse nell’ultimo episodio, incentrato sull’epilogo della vicenda del sequestro. I brigatisti concedono al presidente Dc la possibilità di confessarsi un’ultima volta a un prete. Qui, in modo simmetrico e opposto al Moro dell’episodio d’apertura, assistiamo nuovamente a un discorso del leader democristiano, che però stavolta non si rivolge più al pubblico dei suoi compagni di partito. Chiuso nella sua cella, Moro non sembra dialogare davvero neanche con il curato, sebbene questo suo sfogo sia spezzato frequentemente da espressioni e domande a lui rivolte. I quesiti che pone, però, riguardano solo sé stesso: chiede al prete se lo trova cambiato, o se rivede in lui il vecchio, navigato stratega politico. Moro si è smarrito, e infatti il suo discorso si colloca all’estremo opposto di quello conciliante e aperto con cui aveva tenuto banco al congresso democristiano all’inizio della serie, proclamando: «stiamo uniti!». Ora Moro è visibilmente avvelenato, e se la prende con i suoi colleghi – tutti: da Cossiga a Andreotti. Il monologo è costruito seguendo la lezione di Sciascia: per Moro la ragione di Stato non giustifica in nessun caso l’uccisione di un uomo, e trova incomprensibile che non si tratti per la sua salvezza. In questo senso, la scena, dominata dalla versatilità di Fabrizio Gifuni, sembra essere un controcanto a un’altra famosa confessione del nostro cinema contemporaneo, il monologo sul potere di Andreotti ne Il divo di Paolo Sorrentino (2008). Alla base di entrambi i discorsi c’è la questione del potere: ma se dal punto di vista del personaggio sorrentiniano il potere si perpetua attraverso il sacrificio (altrui, ça va sans dire, secondo «la mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene»), dal punto di vista di Moro è proprio la salda detenzione del potere che consentirebbe, in teoria, di evitare i sacrifici. In primis, il suo: «che cosa c’è di folle nel non voler morire?». Si può capire, in ogni caso, come sia lo scontrarsi di queste posizioni a innescare la tragedia. Se Andreotti e la Dc tengono il punto, sostenendo l’inevitabilità di quella che è, in fin dei conti, una posizione politica, nello smascherarla Moro (come aveva intuito Sciascia) porta la questione su un piano esistenziale.
In Esterno notte assistiamo allora – sia pure attraverso le vicende degli altri personaggi – al farsi creatura di Moro. Tutti (con la sola eccezione della moglie) agiscono come se in realtà il suo destino – e con il suo, il loro, di destino, e quello dell’Italia – fosse già segnato: è in questa ineluttabilità che Bellocchio scorge il portato tragico della vicenda. Come altri eroi transmediali allora Moro, pur nella varietà delle innumerevoli interpretazioni del suo personaggio, pur nella molteplicità dei punti di vista da cui è raccontato, trova una sua cifra costante, una sua necessaria e cristallina riconoscibilità: e da Sciascia in poi non può non trovarla in questo destino tragico quanto inesorabile che mette in scena nella stessa persona l’irrisolvibile, disperata contraddizione tra essere il potere e chiedere invano al potere di essere salvato.