Sebbene il titolo sia una domanda, ceci n’est pas… una risposta. E, a dire il vero, questa non è neanche una vera e propria recensione, benché proponga un paio di consigli di lettura ed ascolto. Questa è la traduzione scritta di una lotta interiore, tra passione per il calcio da un lato e attivismo politico dall’altro. È una riflessione che va avanti da anni nella mia testa e che si fa sempre più insistente. Va avanti almeno da quando la mia coscienza politica ha iniziato a formarsi, scontrandosi con una viscerale passione per il calcio, facendomi notare come lo sport popolare per eccellenza si stesse piegando sempre più a logiche di mercato ed interessi commerciali. Ma è anche una discussione che non è più possibile rimandare, che i Mondiali di calcio maschile in Qatar spingono ad affrontare di petto. E allora perché non prendere la palla al balzo e ragionarci tutti insieme? In una sorta di terapia di gruppo, analisi collettiva le cui risposte potranno essere diverse, ma con la speranza di trovare spunti comuni per lotte future. Per tutti i calciofili militanti, alcuni già decisi a boicottare i Mondiali, altri pronti a guardarli, ma più o meno tutti uniti nel sentire il bisogno di tornare a rendere il calcio un po’ più umano, un po’ meno cinico e, fondamentalmente, un po’ più nostro.
Perché boicotta (chi boicotta)
Le problematiche connesse all’edizione 2022 dei Mondiali sono iniziate con l’assegnazione stessa della competizione al Qatar, circondata da accuse di corruzione. Poi è cominciata la tragedia dei morti sul lavoro: The Gurdian ha stimato 6.500 lavoratori migranti morti nella costruzione di stadi e opere connesse all’evento (Amnesty International ne stima molti di più). Tutto questo in un Paese in cui i diritti umani, specialmente quelli di donne e persone LGBTQ+, sono decisamente limitati: con un tempismo e una supponenza significativi, pochi giorni fa un portavoce dei Mondiali ha definito l’omosessualità un «danno psichico». Per non parlare del costo ambientale di un mega evento ospitato in un Paese la cui conformazione geologica costringerà, per fare un esempio, a desalinizzare acqua con immensi impianti dai consumi di gas e petrolio mastodontici – Luca Pisapia su Valori parla di decine di milioni di litri di acqua al giorno per la manutenzione dei campi, desalinizzata attraverso strutture che solo di petrolio consumano giornalmente circa 300mila barili. Tutto ciò nel mezzo di una crisi climatica ed energetica senza precedenti. E questo non è altro che un accenno alle numerose ed intricate questioni connesse a Qatar 2022. Valerio Moggia le affronta con competenza e chiarezza in La coppa del morto, pubblicato a settembre da Ultra, nonché nella puntata “Qatar 2022: morti, sfruttamento e diritti negati” del suo podcast Pallonate in faccia, omonimo dell’ispirata pagina Twitter che da anni copre storie di calcio, società e politica – un must per tutti i calciofili con un occhio alle questioni sociali e politiche. Ma si veda anche la raccolta di articoli e inchieste in costante aggiornamento curata dall’Ultimo Uomo (“Tutti i problemi di Qatar 2022“), che in quanto rivista di sport non può esimersi dal parlare dell’evento, ma sta cercando ciononostante di «costruire una memoria collettiva oggi per essere ancora più critici domani».
Per i motivi appena elencati e per molti altri, i tifosi di diverse squadre nel mondo stanno esponendo striscioni che invitano a boicottare i Mondiali in Qatar. Molti in Germania, a partire da quelli del Bayern Monaco, ma anche in Italia, dalla curva del Bologna in Serie A a quelle di Pisa e Cosenza in B. Le adesioni al movimento di boicottaggio tra le tifoserie del “calcio che conta” sono cresciute nei mesi scorsi, e insieme sono proliferate le iniziative da parte di realtà calcistiche locali e popolari. Tra queste, a chi scrive sta particolarmente a cuore la Borgata Gordiani, realtà romana che unisce lo sport all’attenzione per il sociale, rappresentando molto più di una semplice squadra di calcio e costituendo un luogo d’incontro, nonché un senso di comunità e solidarietà contagiosi. Leggendo il comunicato “Un calcio (popolare) alla FIFA”, da loro firmato insieme ad altre realtà calcistiche italiane, è facile essere assaliti da due sentimenti contrastanti. La gioia nel vedere idee radicali condivise con passione e coraggio, e al contempo il senso di colpa nel non essere ancora sicuri se boicottare o guardare i prossimi Mondiali. La Borgata Gordiani, insieme a molte altre società di calcio popolare presenti in quasi tutte le regioni d’Italia, ha motivato così la decisione:
«I mondiali di calcio in Qatar sono l’apoteosi di ciò che il calcio non dovrebbe mai essere: un enorme business costruito con il sangue e lo sfruttamento degli ultimi e un palcoscenico di intrattenimento per pochi spettatori milionari. […]
Lanciamo questo appello come segnale unitario del panorama del calcio popolare italiano. Convinti che il nostro modello di fare sport sia sempre rivolto alla difesa e alla partecipazione degli ultimi, dei deboli, degli emarginati. […]
Rivendichiamo come principio base che il calcio è da sempre un canale di coesione, integrazione, un linguaggio mondiale che non può e non deve staccarsi neanche di un centimetro dagli occhi e dai piedi del popolo, delle persone comuni, della gente.
Il calcio moderno raggiunge quindi il suo attuale apice nei mondiali in Qatar: gioiranno compiaciuti i ricchi proprietari di sponsor, le pay tv e i vertici della FIFA. Ma noi non staremo a guardare, saremo una spina nel fianco, che da una parte attacca e colpisce, dall’altra pone un’alternativa.
Sempre contro questo dannato calcio moderno: il calcio è del popolo, o non è».
Perché non boicotta (chi non boicotta)
Nonostante la mia adesione alle motivazioni di chi sta attivamente boicottando i Mondiali di calcio maschile, capisco bene anche le ragioni di chi non riuscirà a tenere spenta la tv nel bel mezzo della competizione di calcio più affascinante in assoluto. Occasione che, tra l’altro, si presenta solamente ogni quattro anni. Capisco i dubbi che sorgono quando si parla di boicottaggio, una pratica il cui impatto è difficile da quantificare e calcolare, la cui efficacia rimane pressoché imponderabile. Ma mi chiedo, facendo un parallelo: avrebbe forse senso ignorare l’importanza che boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) hanno oggi nei confronti dello stato di Israele, o hanno avuto in passato contro l’apartheid in Sud Africa?
Alcuni parlano dell’importanza di partecipare alla manifestazione e al contempo far sentire la propria voce. Tra i giocatori più rappresentativi, Harry Kane, capitano dell’Inghilterra, vestirà una fascia da capitano arcobaleno, mentre Bruno Fernandes, del Portogallo, ha detto espressamente che lui e i suoi compagni non sono felici di come i lavoratori migranti siano stati trattati. Ma quanto è opportuno che sia demandata alla sensibilità dei giocatori o degli allenatori una critica che né stampa né politica (con rare eccezioni) hanno fatto propria, nonostante il loro potere sarebbe potuto essere in questi anni ben più concreto di singoli gesti simbolici? E fino a che punto sarà consentito a questi singoli di esprimere dissenso, viste le politiche repressive del Paese in questione? È di pochi giorni fa la notizia del gruppo di informazione belga NOS secondo il quale il Qatar starebbe finanziando viaggio e biglietti a tifosi prezzolati, a cui verrebbe chiesto in cambio una rappresentazione positiva dell’evento sui social media (debitamente monitorati) e la segnalazione di non meglio identificati «comportamenti offensivi» da parte di terzi.
Ancora, la Danimarca aveva chiesto approvazione alla FIFA per indossare una maglia d’allenamento con su scritto “Human Rights for All”, ma la risposta è arrivata con un no secco. La FIFA ha anzi rincarato la dose, chiedendo a tutte le squadre di concentrarsi solo sul calcio e lasciare fuori la politica. Un principio che non suona nuovo agli appassionati di sport, visto che anche la regola 50 della Carta Olimpica vieta qualsiasi tipo di dimostrazione politica (finanche anti-razzista) alle Olimpiadi. Principio a cui, dall’altro lato del dibattito rispetto a Kane, si è appellato il capitano francese, Hugo Lloris, parlando anche di come sia importante secondo lui rispettare la cultura e le regole del Paese ospitante.
Quindi… boicottare o non boicottare?
Può dunque il calcio essere terreno di protesta e di conquiste sociali, o è destinato a rimanere solamente uno degli ingranaggi del sistema, non mettendolo mai sostanzialmente in discussione? A guardarsi intorno oggi verrebbe da propendere verso la seconda di queste ipotesi, con rare eccezioni. I recenti accadimenti sembrano dar ragione ai più scettici e disillusi che affermano che ormai è così che va il mondo e che il calcio non può fare eccezione. Si dice spesso che, in cerca di una coerenza etica, se boicottassimo questi Mondiali in Qatar dovremmo fare ostruzionismo anche contro le squadre i cui proprietari e sponsor utilizzano miliardi provenienti dal Qatar stesso e da altri Paesi del Golfo Persico. Ma ciò porterebbe ad un’impasse, visto quanto radicati sono gli interessi di questi Paesi nel calcio di oggi. Basti pensare a Paris Saint-Germain e Manchester City, ma non solo. La mia stessa Roma ha vestito maglie con “Qatar Airways” scritto a caratteri cubitali, fatto che – ammetto onestamente, ma con un pizzico di vergogna – non ha influenzato il mio comportamento di tifoso giallorosso. Per non parlare del prossimo derby Milan-Inter che varrà la Supercoppa Italiana e si giocherà a gennaio 2023 in Arabia Saudita. Lo stesso Paese che, più o meno indirettamente, ha di recente partecipato all’acquisizione del Newcastle in Premier League.
E capisco molto bene il dilemma, poiché abito vicino Newcastle e ricordo la gioia che ha portato i tifosi delle Magpies a riversarsi nelle strade quando è stata annunciata la cessione della società. E l’ho compresa. Dopo tanti anni di risultati miseri e retrocessioni, la prospettiva di tornare a primeggiare in Inghilterra ed in Europa è stata di certo emozionante. Ricordo anche i dibattiti avuti con amici appassionati di calcio, e concordo con loro nel dire che la maggior parte dei miliardi circolanti nel calcio sono di provenienza discutibile, per chi è critico del modello economico capitalista. Ma ho apprezzato e apprezzo tutt’ora il gruppo di tifosi del Newcastle “NUFC Fans Against Sportwashing”, che ha iniziato ad opporsi alla proprietà Saudita e, più in generale, alla commercializzazione e finanziarizzazione del calcio tutto. Li apprezzo perché rappresentano la forza morale che temo non avrei qualora la Roma venisse comprata da un gruppo simile. Così come apprezzo la Borgata Gordiani e le altre squadre popolari che rappresentano la saldezza che temo non avrò quando Qatar ed Ecuador daranno il calcio d’inizio ai Mondiali questa domenica. Forza morale che, però, assumo ad ispirazione e con cui critico me stesso e la mia pigrizia. Perché, è vero, non è facile criticare o allontanarsi da una passione che regala gioia e svago, in un mondo già arduo da navigare. Ma dovremmo dunque capitolare ed accettare che questo è il calcio di oggi e che non c’è nulla da fare? Secondo me no, a prescindere che si decida di boicottare o meno.
La commercializzazione del calcio sembra un affare troppo grande e complesso da poter cambiare con una campagna o una protesta. Ma lo stesso potrebbe valere per la crisi climatica, per le disuguaglianze socio-economiche, e così via per tutte le ingiustizie che si nutrono del nostro fatalismo. E se è vero che il rispetto dei diritti umani in alcuni Paesi, tra cui il Qatar, è davvero allarmante, non si possono ignorare molte altre ingiustizie che i Paesi occidentali commettono da secoli: a danno delle proprie classi lavoratrici, delle fasce di popolazione più deboli, dei migranti e dei Paesi che hanno impoverito con colonizzazioni e imperialismo e che oggi lasciano a pagare le dirette conseguenze dei cambiamenti climatici. E, sebbene da questo punto di vista il fatalismo potrebbe prendere il sopravvento e si potrebbe iniziare a pensare che o si boicotta tutto o ci si rassegna, è proprio qui che penso sia importante provare a trovare un punto d’incontro tra le due tesi. Per segnare una linea di demarcazione tra i rospi che si possono ingoiare e ciò che non si può più accettare passivamente. Perché se è troppo tardi per fermare questi Mondiali, non è mai troppo tardi per iniziare ad organizzarsi per i cambiamenti a venire.
Una coppa del mondo di calcio forse è nulla di fronte ai problemi che affrontiamo in questo momento storico, ma può rappresentare uno dei tanti terreni di lotta attorno a cui unirsi nel chiedere attivamente cambiamenti sostanziali. Per iniziare a discutere e possibilmente costruire, in quanto tifosi e cittadini, le fondamenta di una società differente. In cui ogni vita umana abbia lo stesso valore. In cui nessuno sia “carico residuale” e i migranti non debbano essere schiavizzati per organizzare una manifestazione sportiva. In cui donne e uomini godano degli stessi diritti e in cui amare qualcuno non sia mai visto come un “danno psichico”. Ma anche una società in cui si possa amare uno sport senza doversi sentire complici di crimini e ingiustizie. Dunque se alcuni non avranno la forza di rinunciare a vedere l’ultimo Mondiale con Messi e Ronaldo, è comprensibile. Purché nel mentre si inizi a riflettere davvero sulle alternative, a parlare, ad agire, prima che l’ultimo residuo d’anima del calcio venga venduto al miglior offerente.
Perché «il calcio è del popolo, o non è».
Valerio Moggia, La coppa del morto: Storia di un mondiale che non dovrebbe esistere, Roma, Ultra, 2022, 112 pp., € 13.