Andare a Parigi è sempre un’esperienza che esula dalle motivazioni specifiche; mai solo un viaggio, sempre una qualche forma di pellegrinaggio, di movimento personale più interno: un desiderio, una passione, una determinata visione della vita, una delusione, una paura, una speranza. Camminando lungo la Senna, o sostando per lenti e lunghi caffè nelle viuzze che si dipanano da Place de la République si viene catturati dal suo fantasma e si viene accarezzati dalla tentazione di viverci per sempre.

Al di là dei problemi sociali di una città sempre più brutalmente classista, in quegli istanti Parigi diventa un mondo possibile. Anzi: il nostro mondo, una personale dimensione letteraria in cui ci siamo imbattuti una volta e in cui abbiamo fondato un frammento identitario. La città è stata colonizzata da un tale sterminato repertorio di libri e film da renderla, ancora oggi, qualcosa di spirituale, di religioso. Come ha scritto Hemingway in Festa mobile: «Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna». 

«Arrivai a Parigi a metà ottobre, in piena été indien. In valigia avevo una scorta di parmigiano e i volumi della Recherche avvolti a uno a uno nei maglioni», scrive Eleonora Marangoni in Paris, s’il vous plaît, la sua personalissima guida alla città – e allo stesso tempo il memoir di una formazione – uscita quest’anno per Einaudi. Tracciando fin da subito un nesso profondo, una chiave di lettura della sua esperienza: perché in fondo per una certa categoria di persone – a cui io stessa appartengo – Parigi non è separabile da Proust, e non c’è nulla che la renda più allettante che l’essere la città dove il Marcel reale e quello immaginario hanno vissuto. È infatti proprio la Recherche che porta Marangoni a Parigi, e dunque il motore primario di questo viaggio intimo e spirituale: l’autrice elegge l’opera a suo argomento di laurea.

Arrivata nella capitale francese giusto per trascorrerci il tempo di ultimare la tesi, la città la travolge, il demone urbano la seduce, e ci resta per otto anni. Anni decisivi per la sua formazione, se si pensa a quanto l’identità autoriale di Marangoni – da Lux E siccome lei – sia legata a modalità “francesi” di rappresentazione: un asse Balzac-Proust che è mancato nella tradizione italiana e che tuttora tanti autori sentono il bisogno di cercare in Francia.

Ancora molto tempo dopo, quando l’avrà ormai lasciata, confesserà di riuscire a vivere lontano da Parigi solo perché Parigi è sempre lì ad aspettarla. «Fu l’inizio di una nuova vita, anzi forse della vita stessa» – scrive ripensando a quei primi giorni – «Svegliarsi in un piccolo studio col rumore dei passi dei vicini sulle scale, scendere al caffè all’angolo a bere un double allongè, passare al mercato, al Monoprix, alla boulangerie, tornare a casa a scrivere salendo i gradini due per volta; sfamarsi con il pane, burro, acciughe e ravanelli; lavorare fino a metà pomeriggio affacciandosi ogni tanto a controllare il cielo, poi uscire con un libro in borsa, camminare fino al Petit Château d’Eau e sedersi ad aspettare in amico» (p. 20). 

Il fascino di una città – soprattutto una città grande come Parigi, dove orientarsi all’inizio può sembrare impossibile – è quello di riuscire a circoscrivere una propria geografia privata, un cerchio in cui realizzare una propria routine di innamoramenti, conforti, riconoscimenti in cui pian piano identificare la nostra città. Marangoni esplica le sue intenzioni già con l’epigrafe di un altro grande adoratore di Parigi, Walter Benjamin: «Da tempo, in effetti da anni, gioco con l’idea di articolare lo spazio della vita – bios – in una mappa».

Proprio su questo assunto si sviluppa il libro, articolando l’esperienza parigina in una mappa: ogni capitolo è contraddistinto da un titolo e da un sottotitolo, dove il sottotitolo indica quasi sempre una zona o alcune zone di Parigi, e i titoli invece riportano gli elementi emotivi che l’autrice ha legato a quegli specifici luoghi (L’orologio senza lancette. Impasse Chartière. Rue du Temple. Bureau des objets trouvésFluctuat nec mergitur. Tour Effeil. La Senna, solo per fare alcuni esempi).  

Alla narrazione s’intervallano piccole foto che ritraggono i luoghi o gli oggetti che li abitano, sullo stile del racconto sebaldiano. La narrazione ruota così intorno a piccole impressioni, ricordi in cui viene permesso solo di affacciarsi per coglierne dei lampi:

«L’amore per una strada, in fondo, è simile a quello per una casa: un miscuglio irrazionale e inestricabile di fattori oggettivi, soggettivi, perfino atmosferici, memorie letterarie, spunti aneddotici, ricordi personali» (p. 49).

Oltre ai suoi ricordi, Marangoni collega i luoghi della Ville Lumière alle esperienze degli artisti che l’hanno abitata prima di lei: da Charles Baudelaire a Victor Hugo, da Charles Marville (il fotografo incaricato dal barone Haussmann di immortalare la Parigi che sta per scomparire) a Jacques Prévert. Come se volesse sempre ricordare che ogni luogo ha una vicenda privata e, spesso in osmosi con essa, una vicenda pubblica: pur esistendo per noi per la prima volta, c’è una storia che lo attraversa e che lo depone ai piedi del pellegrino di turno.

Ma, oltre ad avere un passato, i luoghi in cui ci muoviamo hanno anche un presente che brulica intorno a noi, che interferisce con noi e con cui noi instauriamo un dialogo fervido e ininterrotto. È qui una delle maggiori qualità di un libro che, per molti aspetti, rimane un fedele, colto e scrupoloso diario di una città: la capacità di restituire il presente sempre vivo di una crescita.

Marangoni ha vissuto a Parigi l’esperienza di una maturazione: questo testo è, in realtà, un Bildungsroman a distanza, un gesto – proustiano come nessun altro – di recupero del sé in un passato perduto. Un passaggio del libro è dedicato a quegli oggetti che si trovano in strada, «un po’ come orologi senza lancette» (p. 30). Amuleti capaci di far lampeggiare il tempo perduto. Lo scrive anche Calvino: a Parigi si può ritrovare il passato, è una città nel tempo e senza tempo.

«Non sappiamo nulla della loro storia quando ce li troviamo davanti: sono lì, sfuggiti ai riti del mercato, ai robivecchi, ai saldi, ai mercatini della domenica, ai cassonetti, e questo li rende un po’ indifesi, un po’ immortali» (p. 30).

Sono oggetti apparentemente insignificanti. L’autrice li incontra nei suoi peregrinaggi, li osserva, decide di adottarne alcuni: libri, quadretti o posaceneri, ma anche un manichino – lo chiamerà Stockman, e la accompagnerà per anni, di casa in casa, di città in città. Così questi pezzi di Parigi raccolti dalla strada entrano a far parte della sua vita, come se, in un progressivo appropriamento della città, anche la città si appropriasse lentamente di lei.

Il libro procede, e i piani temporali s’intersecano: tutto ciò che la lega a Parigi sembra coesistere in un unico grande momento – come nell’epifania proustiana, la memoria si svela e si realizza in un’unica grande esperienza di cui la scrittura è lo srotolamento, l’accurata e scrupolosa declinazione. I ricordi vengono collocati solo vagamente nel tempo: come le lunghe ore passate dall’autrice presso il cafè Chez Jennette – ore confuse, piene, coesistenti.

Anche a Parigi infatti è possibile vedersi sempre allo stesso posto: nonostante le infinite possibilità di scelta si ha sempre il bisogno di eleggere i propri luoghi dell’anima. A Parigi però è bene anche dedicarsi alla flânerie, concetto a cui l’autrice dedica diverse pagine del suo libro:

«La vera flânerie non è un’attività oziosa, e nemmeno un passatempo per turisti, ma una ricerca strenua, a tratti quasi febbrile. In ogni caso, ancora oggi, girare senza meta resta una delle cose più belle che si possano fare a Parigi» (p. 131).

Il percorso di Marangoni a Parigi si configura come il viaggio di un’autrice verso la propria voce e la propria storia. Un’educazione sentimentale e letteraria che procede per conferme e esclusioni:

«scrivere in fondo non è forse anche rispondere al mondo in silenzio, ritagliarsi un tempo giusto rispetto alla fretta e all’intempestività della vita, sottrarsi alla tirannia della performance e alle frecciatine da salotto?» (p. 95). 

Cioran scriveva che Parigi è il posto ideale per fallire la propria vita: irresistibile tentazione. Marangoni usa Parigi per vivere la propria vita, per definirla. Compone così un’opera evocativa e delicata, che può entusiasmare soprattutto coloro che, avendola vissuta o soltanto sognata, subiscono quel fascino irresistibile della Ville Lumière, da cui ha preso vita un vero e proprio filone narrativo-letterario in cui questo libro s’inserisce. Con uno stile affinato e un ritmo delle parole che diviene tutt’uno con il pensiero, Marangoni traccia la sagoma di una giovinezza e allo stesso tempo un percorso amoroso e letterario, dal suo inizio al culmine. La fine arriva infatti, nella città più letteraria al mondo, nel modo più romanzesco: con un’improvvisa illuminazione. Marangoni a un certo punto decide di partire. 

Se Hemingway in Festa Mobile scrive «Non c’è mai fine per Parigi», Marangoni ripensando a quel momento afferma che è vero – quasi simmetricamente – anche il contrario: «Parigi a un certo punto finisce, e il momento in cui si decide di andar via non si dimentica. Io ricordo il tempo, l’ora e il punto: ero in rue de Rivoli» (p. 61).


Eleonora Marangoni, Paris, s’il vous plaît, Einaudi, Torino 2022, 208 pp. 18,50€