L’eternità ha la forma di un cane inviato dall’inferno. L’immortalità, per dirne una, quella di Lamberto Bava. Lo incontro per finta, purtroppo di viso non ci conosciamo. Quando ci sentiamo per telefono, Bava sta preparando la valigia Roma-Ravenna, è ospite alla serata di chiusura della ventesima edizione del Ravenna Nightmare Film Festival, l’appuntamento ideato da Start Cinema per svelare “the dark side of movies” e che si è tenuto tra gli scorsi 11 e 19 novembre in collaborazione con Comune di Ravenna Assessorato alla Cultura e sotto il patrocinio del MiBACT. Per le informazioni di servizio. La questione per Bava, invece, è che il Nightmare ha deciso, quest’anno, di conferirgli la sua massima onorificenza: l’Anello d’oro Special Edition, assegnato in quanto “Lamberto Bava è un Maestro indiscusso del cinema di genere e non solo, e con questo riconoscimento vogliamo celebrare il suo genio visionario e poliedrico e la capacità di creare una grammatica filmica in cui si incastrano, dialogando tra loro, linguaggi, archetipi e icone popolari di un mondo crepuscolare”. Qui, la prima gaffe. Perché mi congratulo con il Maestro in apertura di chiacchiera, ma lui, di questa motivazione, mica l’avevano informato. Per fortuna, per il padre Mario prima, ma sospetto anche per Bava poi, tra ironia e horror intercorre niente più che un sottile filo di separazione. La prende sul ridere, e così decido di proseguire la chiamata piuttosto che rintanarmi in depressione sotto al letto. Che poi, chissà che mostri si celano, in quel buio schiacciato. Quelli che popolano il cinema di Bava sono le ipertrofie di una fantasia che ha molto a che fare con il fantastico. «Anche se, per me, il fantastico è una cosa molto precisa, cioè, molto ampia a dire la verità. Ci metto dentro le favole, i mostri, gli horror. Tutto quello che è fantastico, lo è perché non è la realtà.»
Mi piace pensare che anche un biopic su Lamberto Bava assurgerebbe al suo olimpo di fantastico. Comincerebbe dai sogni in pellicola del nonno Eugenio Bava, artista poliedrico, scultore ma, soprattutto, misconosciuto Méliès d’Italia per il cinema delle origini. Transiterebbe per il padre Mario, che, tra regia e direzione della fotografia, firmò alcuni tra i capisaldi del cinema B e a basso budget, precorrendo e influenzando i maestri contemporanei tanto del cinema di genere quanto di quello d’autore (qualche titolo: La maschera del demonio, I tre volti della paura, Reazione a catena, …). Infine Lamberto, 1944. Prime esperienze sul set a fianco del padre ma pure con altri, perché «essere figlio d’arte è un’arma a doppio taglio: se sei bravo ti odiano, se sei imbranato diventi pure uno stronzo.» E per Lamberto, che virgulta da una genía di artigiani del cinema (celebri gli aneddoti di Mario come tuttofare delle produzioni, e degli ingegnosi trucchi per gli effetti di luce e speciali, come spiattellare gelatina colorata sulla lente della cinepresa…), il cinema non poteva essere che, anglismo concesso, craft, disciplina di arte e mestiere. «Questo si ricollega anche al discorso dell’essere o meno figli d’arte. Perché se non lo sei non vuol dire che non puoi fare cinema. Forse però dovrai sgomitare di più, e qui entra in gioco la fame. La fame ti fa essere puntuale, ti fa lavorare bene sul set. Questo tanto se hai il papà regista che se non ce l’hai. Ecco perché poi, quando è toccato a me, ho sempre fatto in modo di dare l’esempio alla squadra. Otto di mattina sul set, preparare l’inquadratura, anzi, magari l’avevo già data la sera prima. E grande puntualità, sempre. Naturalmente questo aiuta anche a lavorare bene con i produttori».
Lo spettacolo italiano è tutt’altro che alieno alle dinastie. È una questione di convenienza, logiche di bottega. Bava comunque, queste viti, nozione di eredità, le forza, le allarga dall’interno. «A me, più che un padre, piace dire di avere avuto tre padrini: Mario Bava, Pupi Avati, e Dario Argento». Ordine, peraltro, non casuale. Instradato dal padre sulla via dello schermo, il suo film di debutto dietro la macchina da presa arriva nel 1980, tre mesi prima della morte di Mario. È Macabro, thriller tra disgrazia famigliare e ributtante necrofilia; co-autore, proprio Pupi Avati. Infine Argento, di pochi anni maggiore di Bava e produttore del suo film tutt’oggi più noto, Demoni (1985). E poi Demoni 2… L’incubo ritorna (1986), A cena col vampiro (1989), le cinque stagioni dello sceneggiato televisivo icona degli Anni Novanta, Fantaghirò (1991 – ’96), e molto altro, tra Italia e collaborazioni internazionali di calibro, per esempio quelle con Christopher Lee e Max Von Sydow. Bava è nella storia, è la storia del cinema. E inevitabilmente. Perché nel cinema ci si resta invischiati. «In Demoni ho voluto inserire un’immagine per me molto cara e inquietante allo stesso tempo. Il provare a uscire, o eventualmente entrare, dalla sala di un cinema, e rimanere intrappolati in quelle tende rosse e pesanti che si usavano una volta. Quando insomma cerchi in tutti i modi di non farti notare e invece sei costretto a metterci tempo, e fare rumore. Ci sono poi tanti altri ricordi che ho del cinema come luogo fisico, stupendi, ma che allo stesso tempo mi fanno notare che sono vissuto in un’epoca passata». È un’affermazione inquietante, molto più di qualsiasi film dell’orrore. «Massì» mi rassicura invece Bava, «La cosa è che il cinema è proprio di un’altra epoca. Ti faccio questo esempio. Quando ero più giovane e andavo al cinema, avevo comunque l’impressione di stare seduto in mezzo quasi a dei fantasmi, delle persone dell’Ottocento, per dire. Ma non per il tipo di spettacolo, quello è sempre attuale ed è per questo che sono nate così tante piattaforme diverse per vedere le cose online. È la modalità di fruizione a essere cambiata. Lo vedi proprio fisicamente, nelle città. Già quando stavamo girando Demoni le sale cominciavano a diventare centri commerciali. Anche quella che abbiamo usato noi per le riprese era disponibile solo perché era in disuso. Sempre a Roma poi c’era questo cinema, il mio preferito, si chiamava Metropolitan. L’hanno chiuso anni fa, poi hanno ripulito un po’ il palazzo, insegna sparita e tutto. Capisci, non c’è proprio più nulla che faccia pensare al cinema, lì. Sono queste piccole cose che, ormai, mi mettono tristezza. C’è una cosa che è importante sottolineare però. Se si contano come film anche le cose che vediamo in TV o sul computer, allora di sicuro si guardano molti più film di prima. Io guardo molti più film di prima».
Le parole di Bava sono una macchina del tempo. Racconta con piacere, la stoffa delle storie tracima, e ormai ho capito che le mie domande sono solo lo spunto per aprire la diga, immerso flusso di meraviglia. Mi viene il gusto di parlare di libri, e favole. Perché, come Lamberto racconta nella sua autobiografia Il Maestro del Terrore (Nocturno Libri, 2022), il titolo per Demoni fu recupero Dostoevskijano di fortuna, Fantaghirò, la crasi di spunti provenienti dalla lettura delle favole di Italo Calvino e il lore popolare ligure di “Giovannin senza paura”, La maschera del demonio (sempre di Mario, ma di cui è presente anche un remake di Lamberto) tratta da un racconto di Gogol’, I tre volti della paura, almeno due dei tre episodi tratti da forme brevi di Tolstoj e Čechov. D’altronde, Mario Bava era un grande lettore della collana Mondadori Urania (in “I progetti perduti”, Manlio Gomarasca, Kill Baby Kill! Il cinema di Mario Bava, a cura di Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni, Edizioni Bietti, 2021), e, a me, Lamberto confessa che anche i fumetti, al padre, non dispiacevano. «Anche per me, naturalmente, la letteratura è una fonte di dialogo importante. Oserei in realtà dire tutte le arti in generale. La pittura per esempio, ma anche la musica. Alla fine, soprattutto riguardando i miei film, mi viene sempre da pensare che il cinema sia un’arte minore. Ma magari è solo perché sono il primo critico del mio lavoro. Una volta chiusa la lavorazione, vedo solo i difetti». Mi chiedo allora quale sia il film ideale che Lamberto Bava avrebbe voluto girare. «Così su due piedi è difficile. Il cinema è diventato complicato anche per quelli come me, che hanno lavorato tantissimo negli anni scorsi. Una volta bastava portare a un produttore dieci righe di sinossi e ti trovavano i fondi, il film si faceva. Ora lo vogliono vedere finito, prima di darti i soldi. Ma comunque ci sono un paio di lavori che mi sono rimasti alla gola, che non sono riuscito a far entrare in produzione. Penso ancora siano delle belle idee. Ma ti racconto anche questa cosa. Durante la stesura della mia autobiografia con Nocturno, Davide Pulici [co-fondatore di Nocturno, ndr] e Manlio Gomarasca [giornalista cinematografico di lungo corso, co-fondatore di Nocturno e grande studioso del cinema di Bava, ndr] mi hanno chiesto se potevano dare un’occhiata a delle mie vecchie cose. Hanno tirato fuori dei tesori. Appunti che non mi ricordavo nemmeno di avere preso, sceneggiature rimaste a metà. Per scherzo, dicevano che avrebbero voluto fare un film sui film che non ho fatto. E chissà».
Già, chissà. Per ora, anche se Lamberto Bava si scherma dietro una splendida umanità quando gli propongo l’idea della sua immortalità – attraverso un parallelo con il vampiro-regista di A cena con il vampiro: la sua anima è protetta dalla pellicola di uno dei suoi film – a me pare che, i Bava, al nostro presente abbiano contribuito a dare un po’ forma. Occhi aperti per Roy, ora, figlio di Lamberto.