Il lettore che, decidendo di leggere per la prima volta un’opera di Bianciardi, cominciasse a ritroso e scegliesse Aprire il fuoco, ultimo romanzo pubblicato in vita dallo scrittore e appena ristampato da minimum fax, si troverebbe di fronte a un incipit piuttosto atipico. Il protagonista narratore si sofferma infatti sulla scelta della pietra con cui è stato lastricato il lungomare di Nesci/Rapallo, luogo in cui si è ritirato segretamente in esilio:
Tutto sommato io darei ragione al povero Ponzani, ingegnere civile e avveduto, quando per questa comunità di Nesci, al posto della pietra di Finale, che diede di sé prove assai grame, scelse la quarzite di Sanfront: non soltanto essa regge meglio allo sfrido, ma anche si presta benissimo a comporre i disegni su cui io leggo i pronostici del mio diverso esilio, e difatti a forza di pronosticare ci ho consumato sopra sette paia di scarpe e lo sa dio quante altre paia ce ne consumerò su. (p. 27)
Per chi invece avesse già frequentato le pagine di Bianciardi, ragionamenti come questo, di cui è affollata la cornice del capitolo introduttivo (come anche di quello finale), non risulteranno del tutto nuovi. E questo non solo perché l’attacco di Aprire il fuoco ricalca la discussione etimologica sul toponimo di Brera che fa da incipit al capolavoro di Bianciardi, La vita agra (1962), ma anche perché tutte le opere dello scrittore grossetano sono intessute di digressioni simili. Tanto che la narrazione viene spesso messa in pausa e, prima di poter tornare alla trama principale, ci si trova di fronte a intrecci di citazioni, elenchi di divertite variazioni e pensieri ossessivi della voce narrante. Già, ma di che parla Aprire il fuoco?
Come detto, ci troviamo sulla costa ligure, dove l’anonimo protagonista-narratore vive in esilio per sfuggire alle persecuzioni della polizia del Lombardo-Veneto e alle querele del suo ex-datore di lavoro, proprietario della casa editrice Filz und Filzelein (versione asburgica della Feltrinelli, dalla quale Bianciardi era stato licenziato per “scarso rendimento”). La vita del protagonista è monotona e spenta, fatta di brevi toccate e fuga a Milano per consegnare le bozze delle sue traduzioni. Unica attività in cui sembra ancora avere interesse è l’osservazione del mare con i suoi binocoli: è da lì che dovrebbero arrivare in nave i suoi compagni a trarlo d’impaccio, o almeno così crede. Il motivo della persecuzione politica e giudiziaria è chiarito poco più avanti: il protagonista ha preso parte alle Cinque Giornate di Milano del 1959, durante le quali Carlo Cattaneo ed Enzo Jannacci, Carlo Bocca e Cesare Correnti hanno capeggiato una (fallita) insurrezione popolare contro il governo austro-ungarico e i soldati di Radetzky.
Di queste immaginarie Cinque Giornate il protagonista si fa fedele cronista, riportando gli episodi a cui assiste in prima persona (“Io mi tenevo sempre al bordo della fontana, marcandomi nella memoria ogni particolare del parapiglia, allo scopo di poterlo poi raccontare a qualcuno, come appunto sto facendo adesso”, p. 110), con l’obiettivo di non far sbiadire la memoria storica dell’insurrezione, come vorrebbero invece i vincitori:
La verità è che gli austriaci preferirono che piano piano le cose si diacciassero da sole, ma soprattutto preferirono che la gente scordasse quello che era capitato durante le cinque giornate. E perdio ci sono riusciti. Altrimenti, perché oggi io dovrei rifarmi alla pubblicistica inglese e americana (e principalmente al bel saggio della Tillander: The Milanese Uprising of the Late Fifties) per ritrovare qualcosa di chiaro sull’insurrezione del cinquantanove? Non un rigo a firma italiana. (pp. 211-212)
Come fanno capire queste poche righe, Aprire il fuoco è un’ucronia, che potremmo però chiamare ‘stravolta’, dato che le incongruenze sono su più livelli. Un romanzo ucronico è di solito la narrazione ipotetica degli sviluppi immaginari di un evento storico, di cui è un famoso esempio il mondo spartito tra Terzo Reich e Impero Giapponese di The Man in the High Castle di Philip K. Dick. Ma nel caso di Aprire il fuoco troviamo lo stesso esito e le stesse conseguenze delle Cinque Giornate, ovvero il fallimento dell’insurrezione, e invece un suo spostamento di 111 anni nel futuro e una confusione dei due piani temporali – con personaggi, eventi, usanze del 1848 mescolati a quelli dell’Italia degli anni Cinquanta. E non va dimenticato che Bianciardi scrisse Aprire il fuoco nel marzo 1968, proprio mentre prendevano sempre più piede i movimenti studenteschi di protesta (terzo elemento di questa ucronia stravolta).
Come è chiaro fin dalle prime pagine del romanzo, quello che emerge dal reportage fittizio delle Cinque Giornate è però un senso di solitudine e di sconfitta: a venire meno è quella spinta utopica che aveva sempre caratterizzato i personaggi dei romanzi di Bianciardi. C’è sicuramente in questo un riflesso della parabola biografica dell’autore: quella di un giovane scrittore arrivato a Milano dalla provincia pieno delle speranze del secondo dopoguerra, che si ritrova nel giro di pochi anni invecchiato troppo rapidamente ed espulso da un sistema che lo avverte come un corpo estraneo. Com’è noto, non passeranno che due anni tra la stampa di Aprire il fuoco e la morte del suo autore, a soli 49 anni.
A mancare nelle pagine di Aprire il fuoco non è solo l’utopia, ma anche quell’idea di provincia a cui Bianciardi, una volta trapiantato a Milano, aveva sempre guardato con un misto di nostalgia e di orgoglio, considerandola il luogo delle possibilità e delle speranze di rinnovamento sociale e culturale dell’Italia del secondo dopoguerra. La Grosseto/Kansas City raccontata nel Lavoro culturale (1957) come un insediamento di frontiera “aperto al vento e ai forestieri” non c’è più. In Aprire il fuoco troviamo Nesci, cittadina grigia e opprimente in cui la vita si ripete sempre uguale, dove si può solo starsene nascosti a scrutare l’orizzonte e attendere il soccorso di una nave che non arriverà mai.
Unico moto di riscatto, in cui si può ritrovare la spinta originaria della scrittura bianciardiana, è il piccolo manuale di insurrezione che chiude il penultimo capitolo del romanzo, in cui il protagonista indica le banche e la televisione come i veri obiettivi di una rivoluzione ben congegnata: “Un rivoluzionario adulto occupa innanzi tutto […] la Handelsbank, la Kreditbank, persino la Volksbank, quella che oggi sorge al posto dell’antico Palazzo del Genio. Così fece Giuseppe Stalin, specialista di attacchi ai convogli zaristi carichi d’oro. Così fece Garibaldi, a Marsala, a Salemi, a Palermo, dappertutto” (p. 215). E per restare, pur nella sconfitta, fedele a sé stesso, Bianciardi chiude il libro ritraendo il protagonista suo alter ego alla finestra della sua camera in affitto con in mano il vecchio Mauser usato durante le Cinque Giornate, “pronto ad aprire il fuoco” (p. 239).
L. Bianciardi, Aprire il fuoco, Roma, minimum fax, 2022, 247 pp., € 16.