Niente diventa tradizione perché è bello, ma diventa bello perché ormai è tradizione. Un’ottima metafora: buona per il Natale, la poesia, i consigli della balena.
Un po’ come gli esercizi di fiducia che ti fanno fare a teatro alle elementari: serve caderci di schiena, cercare di capire solo poi, allungando una mano per cercare ciascuno la sua dose: poema, filastrocca, inno, cantilena, rantolo, rutto. Perché la poesia? A ogni modo ce n’è per tutti.
Massimiliano Marrani, Al largo nella città: Anche se gli alberi, Idro, Dromi, I Quaderni del Bardo, Lecce 2022 (Roberto Batisti)
A un solo anno dal suo esordio in volume, uno dei più solidi nella poesia recente per profondità di talento e forza visionaria, il bolognese Massimiliano Marrani raddoppia, ripubblicando integralmente la raccolta d’esordio Anche se gli alberi (Lietocolle, 2021) insieme alla nuova silloge Dromi: inoltre Idro, sezione conclusiva del primo libro, riprende qui il proprio ruolo di raccolta autonoma. Ma l’operazione non ha il solo scopo di sottrarre l’ormai irreperibile Anche se gli alberi a un precoce oblio editoriale: come l’autore avverte nelle pagine introduttive, queste sono davvero «tre sezioni di uno stesso libro». La continuità tematica è innegabile, segno di una ricerca protratta nel tempo e di un’alacrità ‘artigianale’ che è scavo paziente nella materia. Marrani, grafico illustratore di professione e valente artista visivo (suo anche il dipinto in copertina), sa usare la lingua per dipingere e scolpire scorci iperrealistici che restituiscono, potenziato, il senso crudo dello stare nel mondo. E se il fondo di queste pitture è nero, improntato a sincero nichilismo (più vicino a quello urbano e hard-boiled di Simone Cattaneo che al pessimismo filosofico di un Leopardi), si tratta di un nichilismo vivificante e tonificante, non fosse altro perché la sua espressione è affidata a una stupefacente varietà di fulminanti soluzioni formali. In Dromi il percorso delle due prime raccolte prosegue coerente, pur nel segno di una maggiore apertura e musicalità. In un mondo dove cose e parole trasfigurano l’une nell’altre («la nuca di nostro figlio ci fissa | come il foglio una matita», «La parola lago si fa profonda | nel vederti nuotare in questa frase»), e «la poesia è un tumore», il compito dell’uomo è di lasciare l’onesto referto del suo transito terrestre, redatto in quella stessa lingua di cose: «Se ti ho scritto | è perché tutto scrive».
Antonio Lillo, Mal di maggio, Samuele Editore, Pordenone 2022 (Massimiliano Cappello)
Il «mal di maggio» che dà titolo a questa raccolta del poeta ed editore pugliese Antonio Lillo (da una decina d’anni è infatti direttore editoriale della casa editrice Pietrevive) è una malattia primaverile non umana. Laddove l’acqua scarseggia, infatti, le api si intossicano trasportando il polline non diluito e, «nel tentativo di liberarsi dall’eccesso, producono escrementi di colore simile a quello delle mie poesie» (p. 39). Ma non si creda a una poesia di sfogo. Se pure l’enfasi sul mezzo non potrebbe essere più evidente, come dimostra peraltro la spaventosa mole di «poesie sulla poesia» che compone il libro, a Lillo va riconosciuto più di un merito per questa operazione. Non solo quello di trattare la materia con la levità e la sprezzatura dell’epigrammista, ma anche di aver scelto il proprio interlocutore ancor prima che questo gli venisse imposto. In altre parole: gettato o gettatosi nel famigerato pubblico della poesia, Lillo sceglie di rendere questa permanenza un gesto comico ma anche eroico. «In questo mio libro pescato (che avrai) | fra gli usati al mercato» (Se ora mi leggi anche tu, p. 76): la trascrescenza delle posizioni passatiste in avanguardia. È gran tempo oramai che le poesie che si scrivono non sembrano comunicare altro che il proprio brevetto formale. Ma uno spettro si aggira per Locorotondo: è lo spettro di Marziale.
Beppe Salvia, Cuore, Interno Poesia Editore, Milano 2021 (Giulia Sarli)
Interno Poesia ha pubblicato nel 2021, a cura di Sabrina Stroppa, la raccolta postuma Cuore di Beppe Salvia, già uscita nel 1988 con il sottotitolo Cieli celesti per volere del fratello Rocco.
In Cuore sono riunite liriche fortemente legate all’esperienza di due riviste di cui Salvia è stato animatore: “Braci”, guidata da Carlo Damiani, e “Prato Pagano”, di Gabriella Sica. I poeti che vi scrivevano erano uniti dal comune intento di superare il «totalitarismo ideologico e desertificante della poesia del secondo Novecento» (Claudio Damiani, La difficile facilità, Lantana 2016, p. 10), per tornare a una lingua dei “padri”, in grado di raccontare la vita.
Questa linea morale è netta nella “grana della voce” di Salvia. Le sue poesie fanno subito pensare a un autore classico. A Petrarca, a Sandro Penna. Immagini limpide, parole semplici, il gusto per la liberazione o la caduta in fulminee scene di dolore si scontrano con la scelta di termini antichi e poco usati e una rabbia giovane che risulta leggendo le sue liriche a voce alta, rincorrendo l’uso insistito dell’enjambement e della tmesi.
La morte precoce per suicidio, nel 1985, ha creato attorno a Salvia un mito, da cui Emanuele Trevi mette in guardia (Un solitario amore, Fandango, 2006), pur cadendovi lui stesso nel confronto con Andrea Pazienza.
Chi è stato Beppe Salvia? La sua passione per gli eteronimi femminili (come Elena Sansovino, nome che accompagna la pubblicazione della sua prima raccolta, Estate, o Silvia Isola, con cui firma altri suoi testi su rivista) fa pensare che lui non tenesse tanto a che si sapesse. Io l’ho incontrato sul treno, nelle mani di una ragazza sconosciuta e triste, che qui ringrazio. Si dice che la poesia sia per pochissimi. Beppe Salvia allora forse è questo. Una felice eccezione.
Paola Silvia Dolci, Dinosauri Psicopompi, Anterem Edizioni, Verona 2022 (Marilina Ciaco)
Le creature semi-mitologiche che danno il titolo al libro di Paola Silvia Dolci, Dinosauri Psicopompi (Anterem, 2022), sono per loro stessa natura liminari, transitorie, ibride: gli psicopompi, né terreni né divini, erano infatti coloro che accompagnavano le anime dei defunti nel passaggio all’aldilà. Ebbene, nel libro di Dolci, che potremmo leggere come una sorta di spin-off enigmatico-onirico del libro precedente (Diario del sonno, Le Lettere, 2021), l’ibridazione è tratto distintivo, al tempo stesso, degli spunti tematici così come dell’impianto formale e della collocazione mediale del testo: diversi blocchi testuali si presentano in una doppia forma, da una parte quella verbale – con dei versi liberi che spesso si estendono fino a una misura prosastica – e dall’altra quella iconica, vale a dire che il testo assume materialmente la configurazione del disegno di un dinosauro la cui sagoma è attraversata dalle stesse parole che si leggono in forma “lineare” nella pagina accanto.
Se rispetto al Diario del sonno qui Dolci opta per un più elevato tasso di figuralità, e per una più pregnante tensione simbolica, nondimeno ci troviamo ancora una volta di fronte ai resti, in continua metamorfosi, di un’autobiografia impossibile. Nonostante il frequente uso della prima persona, l’«io» è, di fatto, annichilito dal movimento testuale stesso: fantasma di un processo di soggettivazione sempre precario, appare freudianamente schiacciato fra i due poli dell’Es (i contenuti inconsci, i sogni, l’immaginazione, il rimosso) e del Super-Io (il potere nelle sue varie declinazioni, la coercizione del vivere “diurno”, la norma). Così Dolci ci consegna un iconotesto volutamente sospeso dove a essere messa in questione è l’imprescindibilità ontologica della forma di vita umana tout court, perché, se l’io mangia sé stesso, non resta che un puro «corpo», «un animale | che mi sento gettato addosso».
Michele Zaffarano, Poesie per giovani adulti, Scalpendi, Milano 2022 (Gian Luca Picconi)
A partire dalla copertina a specchio della pregevole edizione Scalpendi, che riprende la copertina di un vecchio libro di Zaffarano, Todestrieb (Novara, Arcipelago, 2015), Poesie per giovani adulti (Milano, Scalpendi, 2022) appare come un titolo irrinunciabile per quelli che seguono il percorso di questo poeta e più in generale per i lettori interessati a un’idea di poesia comica. In questo caso, il comico è figlio di una sorta di coazione a vandalizzare in mille modi la testualità, con il fine di decostruire tutti quei topoi e quelle movenze retrive che caratterizzano una certa parte, ingenua e spontaneistica, della poesia contemporanea, e insieme restituire un ritratto indiretto dell’autore che in qualche modo risulti sincero e autentico. Insomma, Petrarca + Mao, uguale Zaffarano. La domanda quindi potrebbe anche essere se Zaffarano abbia davvero amato la donna di cui si parla in questo libro. La risposta che dà Zaffarano attraverso il comico è che lo sguardo del lettore può solo graffiare la prima superficie della testualità e pertanto qualsiasi risposta venga data si riferisce unicamente a una proiezione dell’autore implicito formulata dal lettore. Ecco allora che, di fronte alla disperazione di carta di tanta parte della poesia oggidiana, Zaffarano risponde con un teppistico sberleffo; finendo per proporre, con le sgrammaticature di questo libro geniale, una nuova etologia della lettura e della scrittura di cui forse tutti abbiamo bisogno.
Silvia Bre, Le campane, Einaudi, Torino 2022 (Pier Franco Brandimarte)
L’ambiente di questa silloge poetica è rarefatto e luminoso come nell’approssimarsi dell’ultima cantica dantesca, le coordinate sono minime, i fenomeni forti, da richiamo radiante e celeste (come quello della campana che torna e ritorna come fondamenta simbolica) e altrettanto sfuggenti. L’invisibile combatte contro la stessa possibilità di dire, il mistero racchiuso nei versi sfoga in un sentore d’incensi. L’attimo del suono è la rivelazione, l’unico evento possibile, che vibra e viene poi riassorbito nel tempo, come un rintocco. Partecipare al cielo per mezzo di uno slancio acustico, sondare questa verità di connessione, è l’acrobazia compiuta nel libro di Silvia Bre.
Fiammetta Cirilli, Disordini, diaforia, Pisa 2022 (Stella Poli)
È un libro fatto di dettagli minuscoli, Disordini, il secondo di Fiammetta Cirilli dopo [assemblatz] (Zona, 2020, vincitore del Premio Pagliarani), ma non è affatto un libro lieve, esile o delicato.
C’è una ferocia precisamente narrativa nell’accumulo di questi dettagli icastici, «sbalzati» e nella costruzione in sezioni che intrecciano, con una reticenza studiata che innesca ambiguità perturbanti, più fili, più soggetti. Si pensi, ad esempio, alla prima sezione, PMA, Procreazione Medica Assistita, in cui una coppia prende possesso di una casa immaginata «con culla», scegliendo il gres chiaro, combattendo larve e infestazioni. È un tempo lungo, quello che scandisce la lotta contro i ragni nei davanzali, i cicli degli ormoni. Ma la casa-corpo resta nido solo per gli insetti: «Volevano un maschietto, dicono – la casa invece è femmina. || Accendono candele contro le zanzare, le allineano meticolosi stando attenti che la cera fusa non coli giù lungo i vasi, non si impasti alle cose, alle uova degli insetti».
Gli scioglimenti sono sempre antiretorici, denotativi. I due vanno in crociera nel Mediterraneo, è già autunno, si godono il caldo, «[c]i vuol coraggio, del resto, anche nei frangenti minimi». Poi: «[s]i dicono contenti. Si assopiscono». D’altronde, come scrive molto bene Cecilia Bello Minciacchi nella preziosa postfazione al volume, Cirilli «crea evidenze che non hanno bisogno di commento». Evidenze che sembrano costruirsi tutte attorno a uno, più vuoti, ma che «[s]ono disturbanti […] anche per il vuoto (i vuoti) che fanno affiorare».
Max Porter, The Death of Francis Bacon, Faber & Faber, London 2021 (Marcello Sessa)
Significativamente, l’ultimo libro di Max Porter non precisa, nel titolo, che si tratta di «a novel». Si stacca infatti dal primo, The Grief Is the Thing with Feathers, nella misura in cui non vuole più “raccontare” il dolore (che lì registrava con un prosimetro letteralmente straniato: reinquadrandolo dal punto di vista animale), ma “dipingerlo” in versi. Qui si tratta di un’agonia celebre, quella di Francis Bacon morto a Madrid nel 1992, che si verifica – usando termini kantorowicziani – in “doppio corpo”: a morire non è solo l’uomo, bensì pure il pittore. Anzi «the least green painter in the history of marks»; l’ultimo colorista – «childish» come l’artista della vita moderna per Charles Baudelaire: dall’efferata percezione anticlassica – si spegne disperdendosi in confusi sembianti. È paragonato a un vecchio uomo, a Edoardo il Confessore, a Caravaggio; a tutti quei modelli che il Bacon vero è proprio mai ha rigettato e che ha considerato «as he treats a scientific magazine or a porno»: come materia grezza qualsiasi da soppesare e da cui asportare brani, per poi allontanarsene distorcendoli in quadri che non sono più illusioni della realtà: solo «lies» dismorfiche. Per scandire le tappe della morte del pittore, Porter adotta le specifiche della pittura baconiana stessa (divide il suo poema in tableaux: in sette “oli su tela” e uno “schizzo preparatorio”) e della sua interpretazione forse più famosa (quella della deleuziana “logica della sensazione” per cui, con icastica riformulazione d’autore, «flesh could be flat»: consegna al lettore una lingua sensibile, aptica, persino tattile). Il suo scopo non è biografico e nemmeno ecfrastico – è estetologico: «It’s an attempt to get art history out of the way | and let the paintings speak». Il suo non è un testo scritto a partire dalle immagini; è uno riuscitissimo esercizio linguistico vòlto a rendere il pittorico palpabile a parole.
[Ringrazio Claudia Dellacasa, senza cui mai avrei conosciuto Max Porter, e che ne ha scritto più estesamente qui]