A meno di un anno dalla scomparsa di Vitaliano Trevisan, Einaudi ha dato alle stampe il libro incompiuto dello scrittore veneto, presentandolo come «l’opera postuma di uno dei più grandi autori della sua generazione», «interrotta ma non incompiuta», senza tuttavia fornire alcuna informazione ulteriore sullo stato di avanzamento del progetto, in cantiere almeno dalla metà del decennio scorso. Uno sforzo in più da parte dell’editore nell’inserire il libro in una cornice presentativa più chiara sarebbe stato, se non dovuto, almeno apprezzabile.
Alcune pagine di Black tulips erano state anticipate in una bella antologia di “scritture di luogo”, che forse non ha ricevuto la giusta attenzione, uscita nel 2016 presso l’editore romano Exòrma per le cure di Andrea Cortellessa (Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi). In quel contesto, proprio le pagine di Trevisan incarnavano lo sforzo per una letteratura di viaggio del terzo tipo,che provasse cioè ad andare oltre i filtri del già visto postmoderno e ritornare a guardare al mondo, nel rovescio della citazione tozziana, con gli occhi aperti:
È dunque attraverso il corpo – nella postura e nella propriocezione del corpo, e con la sedimentazione affettiva, nel corpo, del mondo – che si rende possibile andare oltre la superficie sempre uguale dei quadri appesi in un museo. E finalmente accedere a quel «terzo spazio», che, nelle pratiche della scrittura, corrisponde alla letteratura di viaggio del terzo tipo. Gli autori compresi in questo libro si collocano precisamente in questo spazio: quello da guardare con gli occhi spalancati («You must see with your own eyes», non si stanca di ripetere la donna africana all’oyibo italiano Vitaliano Trevisan – il più insofferente nei confronti di ogni preconcetto riguardo all’irriducibilmente altro chiamato Africa» (Cortellessa 2016, p. 23).
Non vorrei scoraggiare chi fosse curioso di avvicinare l’opera di Trevisan per la prima volta enumerando ciò che Black tulips non è (un romanzo, per esempio), dal momento che si tratta di precisazioni di poetica già ampiamente fornite dall’autore fra le pagine del libro. Per gli scopi di una recensione, la generica etichetta di “scrittura di luogo” potrà bastare: a grandi linee, nel suo ultimo libro Trevisan racconta di un viaggio fatto da un suo alter-ego letterario – largamente sovrapponibile all’autore reale – in Nigeria, allo scopo di imbastire un traffico di pezzi di ricambio per automobili usate fra Italia e Africa.
Ad attenderlo in quell’altrove ci saranno alcuni autoctoni, imprendibili e spettrali: su tutti Adesuwa, una prostituta già frequentata dal protagonista nel vicentino e in seguito rimpatriata nel suo paese d’origine. E anche nella volontà di rivedere “Ade” dopo la sua parentesi italiana risiede la giustificazione del viaggio dell’oyibo-Trevisan, che si arrovella di continuo sulla consistenza delle motivazioni che lo hanno condotto in Nigeria.
La spola geografica del libro oscilla quindi fra la Nigeria e il Veneto, ma le coordinate spaziali, temporali e addirittura cromatiche di Black tulips sono manipolate, con una regia a volte fin troppo scoperta, da Trevisan, il quale nella sua collaudata miscela narrativo-ragionativa dà forma a una rappresentazione episodica, cronologicamente discontinua e dominata dal bianco e nero. Nemmeno la componente memoriale della narrazione costituisce un appiglio cui aggrapparsi per collocare in uno sfondo preciso quanto raccontato, dal momento che vichianamente per Trevisan la memoria è fantasia o, meglio ancora, una scienza inesatta.
La natura frammentaria del libro è evidente sin dall’indice, composto di capitoletti sciolti e di altri raggruppati in piccole serie grazie all’utilizzo di alcune sigle abbrevianti (UMC, ad esempio, sta per U must c, la formula imperativa che ossessiona il libro). Ora, se da un lato è giusto rimarcare che Black tulips è un libro incompiuto, immortalato nel suo essere in progress – lo scrivo pensando alla metafisica del frammento ancora praticata da certa critica –, dall’altro è vero che nessun autore della nostra letteratura recente si è trovato più a suo agio di Trevisan nei cantieri aperti, letterari e non. Chi meglio di lui fra i nostri scrittori ha saputo destreggiarsi fra crolli e macerie, facendo della pietra di scarto la pietra d’angolo della sua sperimentazione? Da questo punto di vista, la mancata conclusione di Black tulips pesa il giusto nell’economia della lettura.
L’Italia, peraltro, ha una sua tradizione del romanzo di macerie, basti pensare a Petrolio, la cui architettura seriale ricorda vagamente quello del libro di Trevisan. Come già nel libro postumo di Pasolini, ripubblicato l’anno scorso in una nuova edizione a cura di Maria Careri e Walter Siti, anche in Black tulips agisce una pulsione sterniana alla digressione umoristica: a pagina 161, per esempio, possiamo leggere una Nota sulle note a piè pagina che contrappuntano il testo primario lungo tutto il libro, a volte a mio avviso zavorrandolo. È lo stesso Trevisan a fornire a chi legge una tassonomia di base in questo senso: frantumi di passato (la narrazione) incrociano frammenti figurali di presente (il commentario delle note).
Black tulips, va detto, è un libro duro, nel quale Trevisan si esprime frontalmente su realtà controverse e questioni difficili, su tutte quella della prostituzione sull’asse Italia-Nigeria, senza scendere a compromessi pacificanti con chi legge per ciò che riguarda le sue posizioni estetiche, ideologiche e morali: alla coscienza di ognuno è affidato valutare quanto e cosa condividere (o meno) della visione di Trevisan. Da un punto di vista più tecnico, però, vorrei sottolineare un paio di cose. Già nelle primissime pagine l’autore denuncia lo scacco in cui qualsiasi occidentale incorre nel momento in cui provi a ricondurre agli schemi a lui più familiari una realtà aliena e sfuggente come quella nigeriana: «Orientalismi. Impossibile sfuggirvi» (p. 7).
Nella consapevolezza dell’ineluttabile distorsione percettivo-conoscitiva derivante dal fatto di essere e di essere considerato un oyibo, Trevisan affronta la materia di questo libro assumendo due atteggiamenti, amalgamati fra loro con efficacia alterna: il primo è servirsi di filtri intellettuali e libreschi, che fungono da profilassi retoriche per addentrarsi in un mondo altrimenti impenetrabile, le cui dinamiche sfuggono ai paradigmi occidentali. Questi diaframmi, spesso lasciati a vista da Trevisan, rischiano però di frapporsi alla ricerca di un contatto immediato con l’altro da sé auspicato da Cortellessa nel definire il concetto di letteratura di viaggio di terzo tipo.
Se nel libro chi dice “io” alza le mani e dichiara sul piano delle intenzioni poetiche di aver portato nel suo viaggio nigeriano solamente un taccuino – «che non si sa mai» (p. 123) –, ci resta il sospetto che lo zaino del pur geniale autodidatta Trevisan fosse appesantito da qualche libro di troppo. Il rischio in cui incorre ogni tanto Black tulips è di un didascalismo al negativo, in cui l’ironico annichilimento di ogni mantra sedicente progressista da parte di chi scrive rischia di interessare meno dei suoi sperdimenti visionari. Si tratta di una tendenza già presente in Works, ma forse più diluita nel corpaccione del libro del 2016 rispetto a ciò che accade nel più esile Black tulips. Oltre a ciò, per ovvi motivi, l’ultima prova di Trevisan non può avvalersi della perfetta conoscenza affettiva, ambientale, architettonica, culturale e sociale dei luoghi raccontati, al contrario profondamente incorporata – perché incisa sulla pelle di chi scrive – nel gesto narrativo di Works, uno dei libri in prosa più notevoli di questa prima frazione di secolo.
Il secondo atteggiamento, che dona al libro i suoi momenti migliori, si ha quando l’oyibo-Trevisan riesce a liberarsi delle sue corazze logiche, affidando i suoi vacillamenti a un genius loci capriccioso e lasciandosi guidare al termine della notte nigeriana, in cui ogni cosa sembra posticcia e provvisoria. Questo abbandono regala a chi legge squarci di un’esperienza immersiva e spaesante, analoga a quella provata dal soggetto di fronte a una realtà alla quale è possibile accostarsi solamente se privi di progetti, sospinti cioè da una fisiologia tutta inerzie, condizionata dallo sterminato ecosistema “alieno” cui è chiamata giocoforza ad adattarsi:
«Le modalità con le quali il soggetto si è mosso, nel tempo e nello spazio, nel suo ambiente e fuori di esso, o meglio nei suoi vari ambienti, o fuori di essi, sono sempre state dettate dalle contingenze, le quali, dovendo moltissimo al caso, non permettono di rendere il suo percorso in metafora prospettica» (p. 23).
Se dovessi indicare una e una sola dote per cui rimpiangere il cospicuo talento di Trevisan, questa sarebbe senza dubbio il suo orecchio assoluto, la capacità cioè di fondare la sua ricerca prosastica in un impasto parlato-scritto la cui marcata trazione vocale è tutt’uno con l’ambiziosità rappresentativa: «Del resto scrivo, parlo, e parlo come scrivo, o scrivo come parlo – cosa venga prima non mi è chiaro» (p. 160). Anche Black tulips, con il suo sampling sintatticamente scattoso fra italiano, pidgin nigeriano e argot dialettale vicentino offre un nuovo e interessante referto di questo lavoro: i tulipani neri di Trevisan sono anche fiori del parlare.
Nella generale atmosfera di sfaldamento rappresentativo del libro, spiccano fra le ghost notes ragionative di Trevisan quelle dedicate al concetto di ritmo e di tempo, che evidenziano come la fuoriuscita dai luoghi consueti implichi al contempo la ridiscussione di quel tirannico metronomo che è la nozione occidentale di tempo:
«Il giorno seguente, da quando l’oyibo apre gli occhi all’arrivo di Amen, abluzioni a parte, è tempo d’attesa. A che ora sia arrivato non saprei dire. Mai portato l’orologio nemmeno a casa. Sempre regolato a orecchio, per così dire, con più che buona approssimazione, mio senso del tempo essendo qualcosa di innato. Ma poi molto studio e ancor più pratica. Nel particolare, studi di batteria jazz che si prolungano in una specializzazione in tamburo rullante; […] Spaesato anche temporalmente. Saperlo non aiuta. Del resto, non si può certo sfilare l’abitudine come fosse un abito». (p. 51).
La scommessa per un’odeporica di terzo tipo è vinta solo in parte, diciamo pure a frammenti, in Black tulips, anche se alcuni squarci visionari fanno rimpiangere una versione rifinita di questo libro e future prove di questo scrittore sensibile e tecnicamente dotatissimo. Per quanto a mio avviso il libro non raggiunga la pienezza e le vette rappresentative di Works, Black tulips è sicuramente una lettura che vale la pena intraprendere, fosse anche solo per avvicinare per la prima volta il lavoro di Trevisan, di certo meritevole di un pubblico più ampio, che esuli la cerchia dei suoi affezionatissimi cultori. Speriamo che l’indocile eredità dell’autore non venga tradita dall’idoleggiamento romantico (o anti-romantico, è uguale) con il quale spesso si deturpa il lascito degli artisti scomparsi anzitempo, soprattutto di quelli che in vita non si sarebbero lasciati idoleggiare facilmente.
V. Trevisan, Black tulips, Torino, Einaudi, 2022, 226 pp., € 17.