La rappresentazione delle persone nere come entità altre rispetto alla norma è costante nelle produzioni culturali europee e viene espressa anche tramite discorsi e motivi letterari ricorrenti. In Sbiancare un etiope: La costruzione di un immaginario razzista (UTET, 2022), Federico Faloppa, professore di linguistica presso l’università di Reading, nel Regno Unito, analizza uno di questi motivi esprimendo una sensibilità alle implicazioni discriminatorie dell’oggetto in analisi ancora purtroppo rara nel contesto italiano. Il topos al centro del saggio è l’espressione “sbiancare un etiope”, utilizzata per definire un’azione inutile per la sua impossibilità, capace però di evocare un immaginario marcatamente razzista, contestualmente approfondito e decostruito nel testo. Faloppa propone uno studio multidisciplinare, capace di coinvolgere aspetti storici, linguistici e filologici che vanno dall’analisi della storia dell’emblema – in quanto figura letteraria funzionale alla trasmissione del motivo in oggetto – all’uso di un ampio numero di fonti primarie per ricostruire la circolazione di quest’ultimo sin dall’età risorgimentale.

Il testo è il risultato di un lavoro di ricerca pubblicato nel 2013 e diventato, in questa edizione, accessibile a un pubblico non specialista. Nonostante in questo formato non venga trattato direttamente, il lavoro metodologico alla base del volume non va dimenticato ed è necessario evidenziarne alcuni aspetti. Il rapporto tra topos e sviluppo storico, centrale nel testo, viene approcciato con una prospettiva braudeliana. L’autore compie una ricostruzione del motivo sottolineandone i punti di inserimento all’interno di processi storici strutturali, riuscendo a proiettare l’analisi in una logica di lunga durata. Logica che, per esempio, rende possibile notare come un episodio tratto da Atti degli Apostoli 8,26, nel quale si racconta il battesimo di un etiope, risulti particolarmente funzionale a giustificare iconograficamente il colonialismo olandese del ’600. Per quanto riguarda l’analisi letteraria, l’autore guarda a come le fonti interagiscono tra loro aumentando la potenzialità referenziale dell’immagine in sé, trovando un riferimento metodologico nella formazione strategica utilizzata da Edward Said. A questo proposito, il lavoro di Faloppa è notevole nel riuscire a rendere un sistema di interazioni, complesso e di lunga durata, fruibile nei suoi elementi singoli e intelligibile come sistema coerente nel suo insieme. Altro elemento da menzionare è l’influenza del nuovo storicismo su questo lavoro. Nel testo le circostanze sociali, storiche ed economiche nelle quali il topos viene reiterato vengono prese in considerazione nei loro legami con la semantica del topos stesso. L’autore evidenzia come i significati acquisiti dal motivo dipendano dal contesto spazio-temporale nel quale viene utilizzato e siano, al contempo, una fonte sullo stesso contesto. Queste metodologie, e relative domande alle fonti, portano il testo ad essere un continuo intersecarsi di percezioni, discorsi di potere e discorsi culturali che ad uno sguardo d’insieme si presentano come un groviglio di significati e narrazioni capaci di mantenere la propria nitidezza all’interno del volume.

Nel testo Faloppa scompone le connessioni di questo groviglio affrontandole in modo tematicamente coerente. Partendo dalla nascita del motivo, individuata nel mondo romano del II secolo d.C., l’autore elabora un percorso storico e letterario che, iniziando dalla patristica, passa attraverso il ruolo di Erasmo nel reiterare il luogo comune, arrivando ad analizzare tendenze dei primi anni 2000.  I significati assunti dall’immagine nell’arco di questo percorso sono eterogenei. Una prima connotazione razziale si afferma grazie al significato allegorico che la figura dell’etiope assume negli scritti dei padri della chiesa: allegoria caratterizzata dall’associazione binaria tra colore nero e male. In un secondo momento, tra III e IV secolo, il significato metaforico viene ampliato e il lavaggio dell’etiope arriva a significare un percorso di redenzione dal peccato. La purificazione dell’etiope diventa un percorso verso la purificazione dell’anima, rappresentata dal battesimo, percepita come un processo da intraprendere.

All’interno della cultura europea post-medievale – con la riscoperta cinquecentesca di una fiaba di Aptonio in cui si racconta di un uomo che cerca di lavare un suo schiavo con la pelle nera, credendolo sporco, fino a farlo ammalare – l’accezione che questo topos assume è quasi opposta alla precedente. Arricchendo la fiaba di significati moraleggianti, gli intellettuali europei del ‘700 la utilizzarono come parabola sulla necessità di mantenere l’ordine sociale come limite naturale degli esseri umani. Un esempio è Samuel Croxall, che in una fiaba del 1722, The Blackmoor, utilizza il tropo per affermare come la natura degli individui sia immutabile e «chiunque tenti di cambiare […] il proprio status personale e sociale […] è destinato non solo a fallire, ma anche a essere esposto al ridicolo» (p. 70). La circolazione del motivo si trova anche nelle produzioni culturali pensate per le persone comuni, per esempio in una favola intitolata Washing the Blackmoor White, pubblicata in un’edizione di favole per bambini curata da William Godwin ad inizio ‘800.La raffigurazione della persona nera che vuole essere sbiancata diventa una metafora del paradosso di grande successo nel teatro inglese tra XVII e XVIII secolo. In una società nella quale la bianchezza assurgeva a valore, le persone nere, e il loro relativo sbiancamento, diventavano un motore narrativo capace di rinforzare la normatività di una bianchezza che, ad alcuni intellettuali dell’epoca come Edward Long, pareva messa in discussione dalla presenza delle (poche) persone nere non schiave in Inghilterra.

L’ambivalenza semantica del motivo – elemento capace di rappresentare sia la redenzione delle persone nere, sia il necessario mantenimento dello status quo – si ripropone nella narrazione coloniale europea tra XIX e XX secolo. Faloppa fa propria la lezione di Hobsbawm sull’imperialismo esponendo, tramite il caso della Pears Soap, il connubio indissolubile e strutturale di interessi economici e politici che ha generato l’età dell’imperialismo. Allo stesso tempo, dato il tema dell’analisi, Faloppa evidenzia come la produzione culturale abbia strutturalmente contribuito alla stabilizzazione del sistema di sfruttamento imperialista. Tramite l’analisi delle campagne pubblicitarie della Pears Soap, alcune delle quali riportate nella sezione iconografica del testo, Faloppa guarda a come l’industria del sapone si sia espansa anche tramite il dominio coloniale. La “civiltà del sapone”, che vede nella pulizia una forma di identità di classe, nel contesto coloniale associa la pulizia alla civilizzazione dei soggetti colonizzati. Lo sbiancamento delle persone nere, nelle campagne pubblicitarie della Pears e non solo, va a rappresentare una forma suprema di civilizzazione. La possibilità per i colonizzati di avere saponi che, anche solo in forma pubblicitaria, riescono a sbiancare le persone nere giustifica la colonizzazione. I colonizzati entrano in contatto con una civiltà (quella colonizzante) più progredita, che tramite lo sbiancamento permette ai colonizzati di far parte allegoricamente di essa.

Questi sono solo alcuni dei temi dell’indagine di Faloppa, utili però per trarre delle conclusioni sul testo. Il lavoro di ricostruzione di questo luogo comune può superare i confini della ricerca accademica assumendo i contorni di una riflessione attuale su un motivo culturale che è parte del nostro sentire collettivo. L’immaginario europeo risulta così dettato anche dalla necessità di raffigurare l’alterità. Il motivo dello sbiancare un etiope, tanto duttile nella sua semantica potenziale da configurarsi come un elemento storicamente costante attraverso reti di significato dominanti in Europa, è anche caratterizzato da un significato costante: il rappresentare la bianchezza come norma. Il testo svela un motivo capace di riproporre il suo significato intrinsecamente razzista in modo trasversale. Significato che non rimane narrazione ma diventa pratica fisica ed emotiva per le persone nere ad esso esposte. L’influenza dell’immagine nella quotidianità concreta delle persone nere viene descritta in una delle sezioni più interessanti e al contempo emotivamente disturbanti del testo, in cui vengono accennate le varie pratiche di sbiancamento messe in atto dalle persone nere nel corso del ‘900. La stabilizzazione della bianchezza come norma equivale alla negazione delle differenze cutanee in ciò che viene considerato norma; allo stesso modo, come dimostra la storia di questo motivo, la bianchezza necessita di raffigurare la differenza per rappresentarsi come norma. Il testo, sostenendo indirettamente il concetto di ibrido elaborato da Homi K. Bhabha, mostra la contraddittorietà semantica che il topos va ad assumere nell’Europa moderna e contemporanea, necessitando dell’alterità nera per rappresentare la normatività bianca, con le conseguenze psicologiche che ne derivano per le persone nere in un contesto globale dove, per molti aspetti, la narrazione della normatività bianca è ancora egemone.

In conclusione, il testo trova la sua ragion d’essere per la sua metodologia, per l’utilizzo preciso e coerente di un ampio numero di fonti e per il suo essere completo pur aprendo la strada, come evidenziato dall’autore, ad ulteriori studi nel medesimo ambito. Inoltre, l’accessibilità rende il testo efficace nel fornire al dibattito pubblico una prospettiva su quanto la nostra società e il nostro immaginario siano storicamente influenzati da topoi e discorsi strutturalmente discriminatori. Prospettiva utile nel collocare alcune derive del discorso pubblico italiano contemporaneo e nel contestualizzare elementi della nostra identità collettiva europea.


Federico Faloppa, Sbiancare un etiope: La costruzione di un immaginario razzista, Milano, UTET 2022, pp. 248, 18€.