Ci sono sempre due parti in cui si divide una storia, due prospettive tra loro vincolate, il presente e il passato, l’inizio e la fine, i genitori e i figli. Nel mezzo c’è la distanza, la catastrofe, il vuoto da riempire con le parole, specialmente quando un conflitto fratricida ha devastato in pochi anni un progetto collettivo, nazionale e patriottico che, pur con tutte le difficoltà del caso, era stato portato avanti per più di quattro decenni in maniera condivisa, facendo leva sulla forza unificante della sua stessa irrobustita mitologia. Stiamo parlando della Jugoslavia, della guerra balcanica, di uno scrittore – Aleksandar Hemon – che allora era ancora un giovane ventottenne, giunto negli Stati Uniti nel 1992 per motivi di studio e però impossibilitato a ritornare a casa perché nel frattempo in Bosnia era scoppiata la guerra. Ma, soprattutto, stiamo parlando della famiglia di Hemon, anch’essa costretta a trasferirsi poco dopo in Canada. E se la narrazione ha davvero bisogno di distanza per generarsi, Hemon ha coltivato questa distanza, sia temporale che geografica, per comporre un prezioso memoir – I miei genitori/Tutto questo non ti appartiene (Crocetti Editore) – che si legge come un romanzo, perché, pur essendo non finzionale, sussume in sé, trascrive e rielabora racconti orali, aneddoti, cronache, colloqui, leggende tramandate di generazione in generazione, tutte abitate da una forte impronta nostalgica e da un inesauribile afflato narrativo, elementi caratterizzanti di una tradizione popolare per cui tutto ciò che è verosimile può essere reale, per cui non è importante stabilire i precisi confini tra ciò che è accaduto e ciò che sarebbe potuto accadere.
Il libro è composto da due sub-romanzi che si leggono l’uno in maniera capovolta rispetto all’altro e vanno poi a convergere verso il centro del volume, occupato da una decina di pagine in cui sono inserite foto di famiglia, ritratti, immagini d’archivio che restituiscono visimamente le atmosfere e i volti evocati nel testo. Facendosi forte di questo bagaglio di ricordi pullulanti e costantemente rigenerati, la scrittura di Hemon colma il blank space imposto dalla guerra jugoslava, dall’emigrazione, dal dislocamento esistenziale e, in parte, identitario, congiungendo armoniosamente, in particolar modo nella sezione intitolata I miei genitori – la più riuscita –, memoria personale e memoria collettiva, storia famigliare e documentazione storica. In tal modo, Hemon – conscio del fatto che «bisogna definirsi in relazione alle catastrofi di cui si è fatta esperienza» (p. 56) – non rimane succube del trauma storico, bensì lo integra nella propria struttura di pensiero, lo assorbe facendone materia narrativa limpida e distesa, dolente eppure sempre mitigata da uno spirito che si direbbe in parte affabulatorio, in parte conciliante. Così facendo, la scrittura diventa risorsa in grado di riscattare – nel perimetro salvaguardato dalla narrazione – persino le atrocità più aberranti abbattutesi non solo sulla storia della propria famiglia, ma su quella di interi popoli, rimasti nel giro di pochi anni senza più una casa, senza più un paese, senza più radici. I miei genitori si configura allora come una sorta di “lessico famigliare”, in cui la sovrapposizione tra il personale e il pubblico risulta perfettamente bilanciata, dal momento che la famiglia di Hemon, pur con i suoi problemi specifici e le sue peculiari idiosincrasie, è in fondo una famiglia “tipica”, vale a dire in grado di farsi anche sineddoche di quel particolare segmento socio-economico rappresentato dalla medio-borghesia jugoslava, sviluppatasi sino alla piena affermazione negli anni della ricostruzione postbellica. Pur riavvolgendo il gomitolo della propria memoria individuale, al contempo parte di una memoria condivisa ben più ampia e stratificata storicamente, Hemon riesce a tenere insieme i tasselli dell’infrastruttura e dell’evoluzione famigliare – le svolte decisive, le cesure drammatiche e al contempo le abitudini, i rituali, i costumi – e la biografia di una nazione. L’autore si fa perciò parco testimone del retroterra culturale, dell’immaginario collettivo, così come del sistema di convinzioni che ha informato per decenni la visione del mondo propria dei suoi genitori e della generazione a cui essi appartengono, dischiusa in quel progetto socialista a lungo cullato durante gli anni del governo di Tito, prima di essere totalmente cancellato dalla frattura insanabile causata dalla guerra. La memoria diviene allora un sistema interno di tensioni, dominanze e proporzioni, controllabile unicamente mediante il lavoro di filtraggio insito nella scrittura. Del resto, se la vita è puro arbitrio, la scrittura agisce, invece, con modalità antitetiche, cesellando, rifinendo, astraendo, re-incantando il mondo. In tal modo, i ricordi collaborano a formare un capitale umano ed emotivo che, una volta introiettato all’interno della narrazione, permette di ricomporre, almeno idealmente, le ferite laceranti della Storia.
In I miei genitori Aleksandar Hemon, sebbene mosso dalle ragioni di una “distanza” creatrice, lavora formalmente sul pathos della vicinanza, quella vicinanza – al proprio materiale narrativo, alla propria storia – emergente per mezzo di una prosa calzante e colorita, perché ispirata da argomenti che, pur intrisi di dolore, tristezza e malinconia, sulla pagina acquisiscono una patina di vivacità e di tenerezza. Ne è un chiaro esempio l’episodio in cui Hemon racconta del progetto di un CD autoprodotto dai suoi parenti esuli in Canada, contenente un repertorio di canzoni folkloristiche ucraine (la ramificazione paterna della famiglia Hemon ha infatti origine ucraine):
Per molta parte della mia vita mi sono sforzato di capire che cosa significhi essere Hemon…o un Hemon, come vorrebbe la grammatica. È forse significativo che il libretto [del CD] accenni soltanto alla partenza originaria, senza far parola non di uno, bensì di due arrivi in una “loro nuova patria”. La fonte primaria e non accreditata di ispirazione per la musica dev’essere legata al fatto che nessuno nella mia famiglia muore nel paese in cui è nato. Come i mitologici cosacchi con i loro cavalli, noi cantiamo passando da un luogo all’altro (p. 139).
Riattivando l’eredità della memoria famigliare, facendosene portavoce – il suo è un racconto non solo sui genitori, ma anche dei genitori –, Hemon costruisce un’epopea storica a doppio livello che non possiede però la durezza marmorea del monumento, bensì la spugnosità dell’argilla nel momento della sua modellazione. Questo perché il discorso è continuamente innervato da storielle spesso ironiche e rievocazioni che, seppure all’apparenza banali e secondarie, fungono da accensioni improvvise, da riattivazioni del flusso linfatico che scorre nel sostrato del testo, garantendo al dettato di non raffreddarsi e restringersi in un blocco monolitico. Proprio la ciclicità con cui questi aneddoti vengono proposti sulla pagina, scandendo ritmicamente l’andamento della narrazione, esprime in forma compiuta quello che Peter Handke ha definito il “sentimento della durata”, ovverosia l’insieme di quelle piccole azioni, di quei gesti a cui non si presta mai la giusta attenzione, che però, strutturando ripetitivamente il nostro quotidiano, fungono da imprescindibile ossatura semantica per la vita di ciascuno di noi, come disvelamento minuto del particolare sentimento del tempo che ci accompagna. In questo senso, si potrebbe dire che Hemon agisce come un accumulatore avvertito e minuzioso, come un collezionista di cianfrusaglie, ninnoli, marginalia, estratti da una memoria in costante sobbollimento e poi rifunzionalizzati all’interno di una narrazione che diviene un abile surrogato, o, meglio ancora, un necessario tramite con un patrimonio culturale, linguistico, mitologemico che ha rischiato di sbrindellarsi in maniera irreversibile.
Tutto questo non ti appartiene rappresenta il controcanto teoretico de I miei genitori, una sorta di compendio maggiormente aperto ad istanze autoriflessive, che, se da un lato si impernia sui ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza dell’autore, dall’altro prova a elaborare tutti quegli interrogativi che si sono affacciati nella mente di Hemon mentre procedeva con la stesura del volume. Come diventiamo quello che siamo? C’è un momento esatto in cui il percorso da noi intrapreso diviene irreversibile? Qual è la vera natura della memoria, quale la sua reale funzione? Sono le domande ossessive che informano questa continuazione, questa ramificazione spontanea del tronco principale che presenta però una tessitura meno organica e ariosa, incapace di portare a superiore unità i singoli, slegati, frammenti. Nel passaggio da eterobiografia – famigliare, collettiva – ad autobiografia scomposta per momenti di normale abitudinarietà – tracce del sé passato apparentemente non correlate tra loro, ma sempre immerse nel medesimo liquido amniotico –, Hemon sembra volersi spingere sino a corteggiare il segreto del ricordo, ben consapevole che solo vista retrospettivamente, mediante una visione d’insieme che però è destinata a restare incompleta, la vita può acquistare un minimo significato, disvelando le convergenze, le connessioni, i risvolti del caso, insomma le tessere di un mosaico più vasto e articolato. Siamo fatti solamente di ciò che ci ricordiamo, ossia di una somma improvvisata di selezioni effettuate a monte in maniera completamente inconsapevole:
Forse è soltanto paura: se io ricordo solo perché la mente muore prima del corpo, allora il rimemorare, come lo scrivere, allontana la morte, è l’ultima muraglia difensiva contro l’avanzare della morte. Se io ricordo, non solo so di aver vissuto, ma anche di essere vivo. La morte si verifica quando non si è in grado di ricordare il momento che precede il momento presente (p. 30).
Ricordare è mettersi tra i vivi e i morti, occupare lo spazio intermedio, passeggiare a stento nel vuoto calco degli anni rimasti indietro, velocemente dissoltisi all’orizzonte. Croce e delizia del nostro stare al mondo, la memoria è un armadio privato, lo apriamo alla bisogna per tentare di mettere assieme i pezzi di un’auto-narrazione, per costruire un repertorio di senso che ordini e strutturi la nostra storia personale, augurandoci di trovarvi al fondo una progressione logica, un filo unitario. Lo spiegava benissimo già Ulrich, il protagonista de L’uomo senza qualità, attraverso una lucidissima diagnosi antropologica:
Nella relazione fondamentale con sé stessi, quasi tutti gli uomini sono dei narratori. […] A loro piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all’impressione che la vita abbia un “corso” si sentono in qualche modo protetti in mezzo al caos.[1]
Tuttavia, il ricordo, ingrossato dalla nostalgia, non aderisce mai perfettamente all’evento dato e poi rimembrato, lo eccede o lo stilizza, lo camuffa o lo trasfigura, lo illumina o lo opacizza. La vita ricordata allora non è mai una sola, univoca e definita, ma una serie ipotetica di scelte fatte e non fatte, di bivi, di ripensamenti, di traiettorie alternative, che contiene in sé tutte le storie ascoltate, raccontate, immaginate, appuntate, non importa se vere, false, fedeli o abbellite, che si sono poi agglutinate sino a diventare un conglomerato unico di gesti, voci, case, volti, strade, lacrime, baci. Vale la pena di vivere solamente perché alcuni dei frammenti della nostra vita – fatta di tutte le esistenze delle persone che ci sono vicine e condividono un pezzo di strada con noi – diventeranno ricordi, e poi racconti, fonte di narrazione perpetua; vale la pena di sopravvivere per continuare a ricordare questi ricordi, per non doverli abbandonare, per non ritrovarsi soli, coi ponti crollati alle spalle e il buio di fronte.
I mie genitori/Tutto questo non ti appartiene è sì la storia di una perdita, di un abbandono forzato, di un autoesilio doloroso, di un ritorno in fin dei conti impossibile, ma è anche la storia di quelle parti di amore – donato o ricevuto – che sopravvivono in qualche profondo interstizio del corpo, nonostante la sofferenza accumulata, le tragedie immani, lo sradicamento originario –, di quei brandelli di memoria che vincono l’oblio e ci permettono di mantenere i piedi ancorati a terra, tra il reale e il possibile, e gli occhi aperti verso il futuro, verso il passato.
[1] R. Musil, L’uomo senza qualità, trad. it. Anita Rho, Einaudi, Torino 1957, p. 756.
Aleksandar Hemon, I miei genitori – Tutto questo non ti appartiene, Crocetti, Milano 2022, 400 pp. 20€