Oh, non c’è niente da fare: ascoltare gli Offlaga Disco Pax gasa. Euforizza che ti senti invincibile. Ti imbevono di rivoluzione con la distanza del New Wave. Ti fanno piangere, gli Offlaga, ti fanno sentire onnipotente. Vabbè che non c’era bisogno di tirare in ballo la provincia emiliana per parlare di distanza narrativa (anche se), dacché non si tratta di un fenomeno IGT, né esclusivo di una denominazione geografica. La si trova, al contrario, nel generalizzato, recente ma prolungato successo del (true) crime in ogni forma mediale: siamo affamati di vita diversa, ma dal posto dello spettatore. The death seat, l’anteriore di destra in automobile, come lo chiamano gli anglosassoni che drink&drive più di noi. E infatti, in quelle storie, va a finire che ci si schianta, risucchiati dal macabro e scabroso. Non fate le angiolette: Dahmer l’avete vista tutte, Demoni urbani è in cima ai vostri Wrapped di Spotify. Avete contezza di ciò di cui parlo. Lo sapete, soprattutto, perché, se le cose non stessero così, Park Chan-wook (appena arrivato con il suo ultimo film, Decision to Leave) e la sua apocrifa trilogia della vendetta non esisterebbero, cioè, intendo, nella nostra testa. Della catarsi nei panni degli altri, che sia il socialismo Offlaga o la violenza del regista sudcoreano, non sappiamo privarci. Ciò che sta scomodo, per essere osservato dalla coscienza dell’innocente, chiama sistematizzazione: ragione di esistenza piuttosto che non, sartrianamente, di inesistenza. Oldboy (2003, vincitore del Grand Prix al Festival di Cannes del 2004), per esempio, esiste perché gasa come gli Offlaga: le peggiori cose del mondo, nella forma migliore. E a buon diritto Park, vendetta (Sympathy for Mr. Vengeance, 2022; Lady Vengeance, 2005) e oltre, è passato alla storia della psiche collettiva come il Maestro del death seat, perché anche Thirst (2009) o The Handmaiden (2016), pescando nella sua prolifica filmografia, per dire, mica scherzano, con la sublimazione dello scomodo, con i giochi di camera al cardiopalma, firma forse più di tutto del regista, la violenza sempre elegante, sempre corteggiante il sottile filo dello splatter. Ma Park è un nerd, si capisce. Uno che smanetta. E se a un certo punto un nerd ti caccia fuori un film in direzione ostinata e contraria, si nota. Decision to Leave (2022), Oscar submission della Corea del Sud ai prossimi Oscar 2023 è, infatti, un film magistralmente ostinato. Iniziamo.
Lo è, innanzitutto, nei suoi personaggi: il detective gentile Jang Hae-joon (Park Hae-il, costruito programmaticamente dal regista per essere antitesi ai machi del noir scandinavo e alle teste calde del romanzo hard-boiled americano), della polizia di Busan, inizia il lavoro sul caso di un incidente avvenuto su una vicina montagna, e nel quale lo scalatore amatoriale Ki Do-soo (Seung-mok Yoo), apparentemente scivolato sulla scarpata rocciosa che stava affrontando, ha perso la vita. L’incontro con la vedova di Ki a stretto giro investigativo cambierà per sempre il corso della vita di Hae-joon. Il nome di lei è Song Seo-rae (Tang Wei): giovane, bellissima, cinese naturalizzata coreana per ragioni dinastiche, lavora come badante per una serie di adorabili vecchine della città (anche lei costruita per essere un’anti-femme fatale, mansueta verso la sua preda più grossa, il co-protagonista maschile, e che la sera pasteggia a gelato). In breve tempo, i due attizzano una complicità che salta la linea del professionalismo. Prima ostinazione. Per dirla con le parole del detective, Hae-joon non avrebbe mai dovuto lasciare che la passione per una donna influenzasse la sua investigazione. Sullo sfondo, la moglie Jeong-ahn (Lee Jung-hyun), tecnico di centrale nucleare nella città di Ipo, dove vive lontana dal marito e crede fermamente a qualsiasi cosa lui le dica. Seconda ostinazione. Nel mezzo, una nuova morte che vedrà coinvolta proprio Seo-rae: si presume un omicidio, del nuovo marito della donna, a circa un anno di distanza dal primo. Terza ostinazione.
In un’intervista rilasciata sul numero 95 del magazine inglese Little White Lies – il quale, piuttosto parkianamente, si propone di indagare le zone grigie tra cinema e verità – il regista ha parlato di Decision to Leave nei termini di un’ispirazione auditiva. Un derivato di Mist, popolare canzone sudcoreana con la voce di Jung Hoon-hee, usata diegeticamente all’interno del film e riconosciuta da tutti i personaggi come “bellissima”: I walk alone on this foggy street / One shadow of you, who was affectionate that day / When I think of something, it’s a past memory / Still, a heart that yearns for it / duru dru ruru dru ddu / duru dru ruru dru ddu / Where did that person go? / Lonely in the fog, I go endlessly / A low voice that blocks you when you turn around / Wind, lift the fog / duru dru ruru dru ddu / duru dru ruru dru ddu / Where did that person go? / Wake up in the fog / Hide your tears. Non è un caso che la seconda parte del film si svolga a Ipo, “città della nebbia”, dove il detective raggiunge la moglie dopo il primo omicidio. Non è che proprio Hae-joon si porti sempre dietro un flaconcino di lacrime finte con cui inumidirsi gli occhi sulla scena del delitto. Nemmeno che chiunque ascolti il brano ne rimanga ipnotizzato, senza comunque riuscire a scrutare oltre il velo di nebbia che ne ricopre gli occhi. Forse, solo la decisione di una partenza può salvare chi vive avvolto nella condensa. La soluzione attende colei che, in primis, saprà aprire gli occhi, osservare se stessa. Facile, no?
Vabbè no, per niente, domanda retorica. E infatti, uno dei maggiori pregi di Decision to Leave – e probabile componente della motivazione alla base del conferimento a Park del premio per la Miglior Regia al Festival di Cannes 2022 – è quello di essere un’opera aggraziatamente complessa, e delicatamente citazionista. Questo a partire dalla scelta di “concludere” la vicenda alla fine del primo atto, mossa hitchcockiana sempre piaciuta negli annales e a partire da Psycho (1960); il buon Alfred torna pure negli appostamenti di Hae-joon fuori dalla casa di Seo-rae, nella vita vissuta vicariamente attraverso lo sguardo (La finestra sul cortile, 1954); e nella reprise di momenti oldboyiani per la ricostruzione del già-avvenuto-non-ancora-detto – si legga: piccoli flashback di verità integrati nella narrazione. Deliziose le scene girate con la presenza spiritica di personaggi che sarebbero altrimenti finiti in pesanti split screen. Astuto, per quanto parzialmente contingente (Park afferma che sia stata l’attrice, Tang Wei, a precedere il personaggio, e non viceversa), l’uso dei traduttori e delle note vocali, fungenti sia da mezzo di comunicazione tra una madrelingua cinese e uno coreano, ma anche, nello svolgersi della narrazione, da efficienti nodi di trama. E poi la sinusoide del camera work, risacca di moto ondoso e precisa fissità a cui il regista coreano ci ha abituati – di cui ci ha, forse, viziati. Proprio come Busan, città di mare e montagna. Proprio come le polarizzazioni irrisolvibili dei due protagonisti, la cui attrazione è magnetica, precorre il razionale della parola.
Vabbè che je vuoi dire. Non ci si può girare intorno: Decision to Leave è un film bello-bello. Lo è come lo era Parasite (Bong Joon-ho, 2019): quella cosa un po’ esotica che pure amici e famigliari non cinefili apprezzerebbero. Perché non sono mica Oldboy, mica gli Offlaga: questa è roba che parla la lingua del pubblico. Si accettano scommesse per il ballot degli Oscar: qui si dice, shortlisted sì, vincitore, no (il trionfo del succitato Bong nel 2020 pare troppo recente per essere bissato, e poi chissà mai che non ce ne siano di più belli e scollati dalla realtà). Ma staremo a vedere. Questa volta la taglio corta perché, a parlare delle cose che mi sono piaciute e mi dà fastidio che lo siano, non sono mica buona. E poi non mi ha ingainato. C’è questa cosa che ha detto Francesco Bianconi nella puntata che il podcast Venticinque. 1997-2022: gli anni che hanno rivoluzionato la musica italiana di LifeGate Radio dedica ai Baustelle (“2000: Baustelle”), cito suppergiù: l’arte, quella fatta sul serio, non deve parlare la lingua del mondo, ma creare la propria. Decision to Leave, sotto questo aspetto, pecca, persino a lasciar perdere le morbose idiosincrasie per il sangue, non sangue, poco sangue, troppo sangue. La sua eleganza si inchina al mondo, alla fascinazione per le opposizioni polari da consumato paesaggista (e infatti Park viene dal mondo dell’arte figurativa) e al mix di generi thriller cop mystery romance etc etc che lo domina à la mode di una soap opera d’alto bordo. Un po’ borghese, in sottofondo. Perché, per quanto raccontata su una bella impalcatura, la storia è piccina, abbastanza contenta di se stessa. Non salta la staccionata della memorabilità. Ecco, a vedere oltre la nebbia, la verità è questa: Decision to Leave è un film bellissimo perché Park Chan-wook è sopraffino tra i liffi della storia del cinema. Ma questo pare esercizio, raffinato divertissement, per i begli amici di un tempo. Un cadeau che, fossimo nel Regno Unito (e qualche altro fazzoletto di mondo), si sarebbe potuto avere sotto l’albero. Invece siamo in Italia, da noi arriva a febbraio. Come dicevamo, chissà se ‘sto film esiste o inesiste. Chiedo perché mi ha ammosciato l’onnipotenza. Torno a spararmi gli Offlaga, va’.
(Oppure qui il senso perde, insomma, vedetela voi.)