“Sono una stella caduta anch’io, Birgitta. | Sono caduto male. Sono caduto sulla terra. | Sono parte del dolore della terra”. È così che Stig Dagerman (1923 – 1954)  chiude la prima strofa della poesia Suite per Birgitta. Lo sguardo lucido e spietato sulla condizione umana, meravigliosa e dolorosa allo stesso tempo, la rassegnazione e la sofferenza collettiva, sono elementi ricorrenti nella poetica dell’autore svedese. Accluso a una lettera inviata all’editore e amico Ragnar Svanström nel 1949 – e pubblicato nella rivista «Prismas» l’anno successivo – Dagerman rivela che il componimento Suite per Birgitta è stato scritto nei momenti di crisi artistica incontrati durante la stesura del suo ultimo romanzo, Bröllopsbesvär (1949, Problemi di matrimonio).[1] Ed è proprio  da questa angolatura che si può comprendere la sua poesia: come espressione del quotidiano, come strumento attraverso cui si osserva il mondo e se ne riordinano le storture, senza risolverle ma, semplicemente, mettendole in fila.

Conosciuto maggiormente per la produzione in prosa, Stig Dagerman è autore di numerose poesie pubblicate su riviste e giornali, e mai raccolte in volumi o antologie (operazione postuma, avvenuta in Svezia solamente tra il 1981 e il 1983 con la pubblicazione delle opere complete, Samlade skrifter). In Italia, una selezione dei suoi versi è stata recentemente pubblicata nella raccolta Breve è la vita di tutto quel che arde, tradotta e curata da Fulvio Ferrari, e pubblicata dalla casa editrice Iperborea che, oltre ad aver pubblicato romanzi e racconti dell’autore, ha reso disponibile, nel 2021, il podcast dal titolo Raccontami Stig Dagerman. Diviso in due sezioni principali, il volume accosta i componimenti scelti tra i dikter, le ‘poesie’ pubblicate nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta in numerose riviste, diverse per stile, temi e atmosfere, ai dagsedlar, i ‘rapporti quotidiani’ (o anche ‘ceffoni’, come osserva il traduttore), brevi componimenti satirici profondamente ancorati alla realtà politica e sociale vissuta da Dagerman, e pubblicati sul quotidiano anarco-sindacalista «Arbetaren», con cui l’autore collabora per diversi anni.

Seppur breve – Dagerman muore suicida a soli trentuno anni – la produzione letteraria dell’autore è piuttosto ricca. Considerato tra i maggiori esponenti del quarantismo, una corrente letteraria che identifica una nuova generazione di autori modernisti attivi negli anni Quaranta in Svezia e che fa i conti con i sentimenti di disperazione, di alienazione e di terrore che seguono agli orrori della Seconda guerra mondiale, Dagerman debutta a  soli ventidue anni con il romanzo Il serpente (1945), un’opera antimilitarista in cui sono palpabili le influenze di Ernest Hemingway e William Faulkner. Negli anni successivi pubblica romanzi, racconti e reportage tra cui L’isola dei condannati (1946), I giochi della notte (1947), Autunno tedesco (1947), Bambino bruciato (1948) e Problemi di matrimonio (1949), e si cimenta inoltre con il teatro.

Fortemente interessato al realismo psicologico, la scrittura in prosa e l’impegno lirico di Dagerman sono accomunati da tematiche quali il terrore, la solitudine e l’angoscia. Quest’ultima, in particolare, emerge come elemento centrale nella concezione esistenzialista della vita da parte dell’autore svedese. A una lettura delle opere dagermaniane, infatti, non sono infrequenti i parallelismi con i grandi pensatori e filosofi esistenzialisti come Kierkegaard, Sartre e Camus. Assieme al poeta Erik Lindegren, Dagerman può essere considerato tra i primi esponenti del pessimismo moderno svedese, quello che il poeta Karl Vennberg definisce “pessimism med samvete”[2], pessimismo con una coscienza. Esasperata dall’esperienza della guerra, l’angoscia per la condizione umana percepita da Dagerman assume la forma dell’alienazione all’interno della società moderna, che intrappola l’individuo nelle sovrastrutture capitaliste e nazionali derubricando la solidarietà e il senso di comunità a elementi secondari:

Credo che il nemico naturale dell’umanità sia la grande organizzazione, che toglie all’individuo della necessaria responsabilità verso il prossimo, lo priva dell’opportunità di dimostrare solidarietà e che invece lo rende compartecipe in un potere che sembra diretto contro gli altri, ma che in realtà è diretto verso sé stessi. Dopotutto, che cos’è il potere se non la sensazione di non dover pagare per le cattive azioni con la propria vita, ma di poterlo fare con quella degli altri?[3]

L’individuo dagermaniano è quindi solo, intrappolato in un macchinario opprimente e de-umanizzante, e l’unico modo per ottenere la libertà risiede nella consapevolezza della propria condizione.

C’è una prigione che tutti conoscono.
Una libertà c’è che tutti intuiscono.
Nel mio carcere io sono rinchiuso.
Io sono la chiave della mia libertà.
Chi sa cos’è la libertà, Birgitta
se non chi ama senza limiti?

si chiede il poeta, per poi riconoscere, in uno slancio esistenzialista, che la libertà si raggiunge abbandonando la vita:

La nostra più grande libertà si chiama solitudine.
La più grande solitudine si chiama morte.
[…]
Solo nella solitudine più grande
potremo finalmente incontrarci.

(Suite per Birgitta)

Il terrore dell’esistenza pervade ogni cosa e ogni creatura: con una serie di accostamenti figurativi dall’alto valore simbolico, Dagerman ci dice che la paura risiede nella nostra stessa natura, come le “navi che temono l’acqua”, sull’“immensa sputacchiera di dio” i viaggiatori temono il viaggio, il bacio teme le labbra, l’acqua teme l’onda e le nubi temono il vento. Sfuggire all’angoscia è quindi impossibile, ed ogni tentativo appare temporaneo, un insignificante diversivo, come quando, durante le vacanze in riviera “[…] in uno dei torridi bar c’è chi | prende un altro drink invece di morire” (Riviera).

Il linguaggio poetico dei dikter si costruisce quindi su associazioni immaginifiche dinamiche e dissonanti nella loro compresenza. Una dissonanza che assume le caratteristiche dell’assurdismo, elemento che, esplicitamente o implicitamente, percorre tutta l’opera di Dagerman. E così, stipata tra le quattro mura del componimento Dentro casa troviamo l’umanità intera,

[T]utti siamo nella casa di tutti
e tutti illumina la stessa lampada nel buio
e tutti abbraccia lo stesso buio nel sonno
e tutti sentiamo la stessa ombra la notte
aggirarsi inquieta nel lungo corridoio
e tutti nello stesso sonno rabbrividiamo per la stessa
corrente fredda alla finestra del mondo.

Il sentimento di fratellanza e comunità nel dolore rappresenta l’unico orizzonte di speranza tra le coordinate della terra devastata attraverso cui si muove l’umanità di Stig Dagerman. Una terra fatta di illusioni, di temporanee vie di fuga, di confortante rassegnazione:

tu che vai per il mondo cammini dentro casa
tu che sei sul  monte sei nella tua stanza
tu che guardi una stella guardi il soffitto
tu che ami la vita ami il legno della casa
tu che muori in mare ti addormenti dentro casa.

Mentre i dikter si presentano come un blocco non uniforme né compatto per temi, atmosfere, scelte stilistiche e metriche – come osserva Fulvio Ferrari nella postfazione a Breve è la vita di tutto quel che arde – i dagsedlar appaiono più omogenei. Il prevalente uso della rima dona il carattere infantile della filastrocca a componimenti brevi, caratterizzati da una satira feroce in cui il poeta affronta tematiche sociali e politiche. Anche in questo caso, il linguaggio per immagini di Dagerman assume un forte potere icastico, e in una critica alla pena di morte del sistema penale americano, la Giustizia diventa una “tigre dalla dentiera dorata” che,

accovacciata alla destra del potere
sussurra all’orecchio del condannato:
abbi un po’ di pazienza,
ancora non ho fame.
Forse domani – chissà? (La tigre)

mentre l’impiccagione di un diciannovenne inglese – erroneamente accusato dell’omicidio di un poliziotto – fa della giustizia un lupo:

Miei signori, avete torto! 
Il delitto perfetto
non è privilegio
del criminale.
Ma del boia.
[…] 
La giustizia è un lupo
con la sola differenza
che i lupi son meno feroci.
Certo, anche i lupi spezzano
bianchi colli,
ma non ululano mai sui cadaveri:
siamo servitori della legge.

(Il delitto perfetto)  

Un perfetto esempio dell’uso della struttura in rima combinato alla pungente ironia lo troviamo nel componimento che chiude la raccolta, Attenti al cane!, che affronta un dibattito molto caro al poeta e quanto mai attuale: la criminalizzazione della povertà. Dagerman critica le parole di un responsabile della previdenza sociale svedese, secondo cui chi percepisce un sussidio statale dovrebbe vergognarsi di possedere un cane. In questo caso, per mantenere la rima, la sapiente traduzione di Fulvio Ferrari sostituisce alcune variabili senza però compromettere il risultato dell’equazione.

Imperfetta è la legge, difatti
anche i poveri si tengono dei cuccioli.
Perché invece non tenersi dei ratti?
Non paghi le tasse e te li coccoli.
Stanno in stanzette strette e fosche
con i loro bastardi costosi.
Perché non giocar con le mosche?
Non sono anch’esse animali graziosi?
Ed il Comune poi deve pagare.
No, così davvero non va bene,
ci possiamo adesso anche aspettare
che si tengano in casa delle balene.
Ora è il momento di esser risoluti:
Abbattere i cani! Non è buona cosa?
E siano poi anche i poveri abbattuti,
così il Comune risparmia qualcosa.

Grazie a un oculato lavoro di selezione e traduzione dei testi, Breve è la vita di tutto quel che arde offre un’ottima panoramica sulla produzione poetica di Stig Dagerman, a cui la critica ha sempre riservato una minore attenzione. Nei componimenti in versi troviamo, in forma concentrata, moltissimi temi, figure e immagini che ricorrono in tutta la produzione letteraria dell’autore svedese. La lettura del corpus poetico, quindi, diviene ancora più rilevante se condotta a ridosso della produzione in prosa. In questo modo ci sarà possibile ampliare l’orizzonte dello sguardo critico sul Dagerman modernista, portando in superficie quella rete linfatica che, muovendosi nel sottosuolo, collega tutte le espressioni più verdi e visibili della sua letteratura.

Stig Dagerman, Breve è la vita di tutto quel che arde, tradotto e curato da Fulvio Ferrari, Iperborea, Milano 2022.


[1] Ahlund C., Stig Dagerman som lyriker i ‘Birgitta svit’, «Samlaren» 117 (1996), 28 – 50, p. 29.

[2] Vennberg K., “Den moderna pessimismen och dess vedersakare», Kritiskt 40-tal, a cura di K Vennberg e W. Aspenström, (Albert Bonnier Förlag: Stoccolma, 1948), p. 238.

[3] Dagerman S., “Tror vi på människan?”, in Samlade skrifter 11. Essäer och journalistik (A. Norstedt & Söners Förlag: Stoccolma, 1983), p. 248.