Uno dei ricordi che ho della Berlinale dello scorso anno sono gli autobus collocati sul viale che porta al Berlinale Palast, dove ogni mattina una coda ordinata di giornalisti si sottoponeva al test covid prima di correre alle proiezioni della giornata. La Berlino che ci accoglie quest’anno è decisamente diversa, inaspettatamente soleggiata e tranquilla, con una Potsdamer Platz ancora poco affollata nella sua prima giornata ufficiale della kermesse. L’atmosfera rilassata non deve però ingannare: anche quest’anno la Berlinale si preannuncia rassegna di cinema politico e poco accomodante. Basti pensare a titoli come Superpower di Sean Penn sulla figura di Volodymyr Zelensky – che di certo farà discutere – Kiss the Future, documentario sulla ferita ancora aperta della guerra in Bosnia ed Erzegovina, e Femme, ritratto della drag artist Aphrodite Banks, che la scheda del Festival descrive come “Un avvincente ritratto psicologico dell’omofobia interiorizzata e un potente e coraggioso calcio pro-LGBTIQ+ contro una società che, in fondo, è totalitaria, anti-gay e anti-trans”. Amen.
Ma tradizione degli ultimi anni della Berlinale vuole che il film di apertura sia un’opera dai toni ben più concilianti e rassicuranti, come a voler ricordare l’esistenza, nonostante tutto, di una speranza per tutti e che nel buio della sala cinematografia si può ritrovare un caldo rifugio, dove immaginare il bene. Così dopo film pieni di buoni sentimenti, come The Kindness of strangers e My Salinger Days per citare alcune pellicole di apertura delle scorse edizioni, è il turno di She came to me, commedia americana dal cast pieno di stelle luminose, tra cui il divo di Game of Thrones, Peter Dinklage, nel ruolo di Steven Lauddem, un compositore d’opera di New York afflitto da un blocco creativo. A gestire questa crisi è soprattutto l’irreprensibile moglie Patricia – una perfetta Anne Hathaway – psicanalista ossessionata dalla pulizia e vera e propria manager della famiglia. Intanto due giovani scoprono l’amore iperbolico tipico degli adolescenti: si tratta di Julian, figlio di Steven e Patricia, e Tereza, sua compagna di classe e figlia di una famiglia della middle classe americana tradizionale: villetta con giardino, madre frustrata e padre pseudo-razzista. In questo quadretto di malcelate apparenze sarà l’improvvisa irruzione di nuove passioni – e in particolare una Marisa Tomei in versione nostromo – a distruggere il castello di carte e a liberare i protagonisti dalle loro nevrosi. La regista Rebecca Miller confeziona un’opera gradevole che esplora l’influenza al contempo nefasta e salvifica dello story-telling sulle nostre vite: il personaggio di Katrina – Marisa Tomei – è ossessionata a tal punto dai film romantici da trasformare l’attrazione per un partner in stalking (una sorta di Bovarismo 2.0?), il compositore d’opera Steven compie invece un’operazione inversa: per uscire dal suo blocco creativo riversa sulla scena episodi realmente vissuti. C’è poi chi si rifugia in una propria narrazione alternativa, come Trey, il padre di Tereza, stenografo al tribunale con sogni da giurista, che ogni settimana gioca a fare il generale nelle ricostruzioni della Guerra civile. Il film possiede un buon ritmo, anche grazie alla capacità degli attori di alternare toni comici e drammatici con una certa disinvoltura. Il suo limite resta forse quello di una commedia che tenta di incastrare ogni tassello per un lieto fine inverosimile, che getta via diverse interessanti premesse viste nella prima parte. Ma in fondo al cinema si va anche per illuderci, sospendere il giudizio e lasciarsi trasportare dalla più strampalata delle storie. Il film si chiude su un brano inedito di Bruce Springsteen intitolato “Addicted to romance”. Non lo siamo forse un po’ tutti?