Martin McDonagh, il regista noto per Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017), sbarca sulla più grande delle Isole Aran e con Gli spiriti dell’isola (miglior sceneggiatura a Venezia e ai Golden Globe 2022 e in corsa agli Oscar 2023) chiude (o così pare) al cinema la (meta)trilogia ambientata sull’arcipelago irlandese iniziata a teatro nel 1996 con Lo storpio di Inishmaan e proseguita nel 2001 con Il tenente di Inishmore. Un salto (multimediale diremmo) che già di per sé basterebbe a inquadrare il regista inglese: istrionico, volubile, ossessivo. Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin) è forse uno dei suoi lavori più riusciti; un testamento e un amarcord, delle Aran, il locus amoenus dell’autore, della coppia di In Bruges – La coscienza dell’assassino (2008) Colin Farrell e Brendan Gleeson, che duetta a meraviglia, al centro di un girotondo tragicomico: è il 1923, la guerra civile irlandese è ai colpi di coda, e su Inisherin (il nome fittizio della più grande delle Aran, e di Achill Island, l’altra isola su cui è stato girato il film) di punto in bianco Colm (Gleeson) è infastidito dell’amicizia con Pádraic (Farell) e non vuole averci più nulla a che fare. In un giorno come un altro, la latenza gattopardiana dell’isola è sconvolta, l’attrito (presunto, pretestuoso, assente?) tra i protagonisti ingenera una catena dell’assurdo, un climax paranoico, che, qui più che altrove, impone, (ci) chiede un’intuizione: di che parla Gli spiriti dell’isola?
Due
Carver scriveva che due è l’unità di misura di un racconto (nella poesia Il posacenere). In Gli spiriti dell’isola McDonagh ripropone la morfologia esponenziale dei personaggi di Tre manifesti a Ebbing, Missouri: due solisti al servizio dell’orchestra, di spiriti (la maga, il poliziotto), credenze, stereotipi. A dir la verità, rispetto alla pellicola del 2017, l’intercapedine tra protagonisti e comprimari è ridotta all’osso, l’impressione è che l’azione narrativa sia sempre (cechovianamente) corale, l’individualità non è un sottoinsieme, ma, addirittura, una conseguenza – il risultato, forse, dell’assenza del sentimentalismo hollywodiano che Tre manifesti a Ebbing, Missouri in parte conservava. Non solo, in Gli spiriti dell’isola McDonagh ha decostruito/reinterpretato un tema carissimo al suo teatro, ossia la violenza (carnale), l’«orgy of random violence» de Il tenente di Inishmore, che, nel film, è riassunta dall’illogica automutilazione (teatralissima) della mano sinistra – della complementarità -, di Colm, quella con cui preme le corde del suo violino, ipotizza nuova musica, «qualcosa per cui essere ricordato». A fermarlo sarà solo la morte dell’asina di Pádraic: l’uso greco dell’innocenza animale, invalicabile, uccisa di rimbalzo.
Il tema del ricordo è curioso in Gli spiriti dell’isola, sottaciuto, però, appunto, violento – il dito di Colm che sbatte sulla porta di Pádraic -; ne è declinata l’intensione, non l’estensione (non quanto, ma come ricordo). Per Colm la misura del ricordo è il tempo, contrapposto all’immortalità della musica (del finale), per Pádraic è la relazione, un confronto, se così si può dire, tra oggettività e soggettività, il binario interpretativo a doppio senso su cui corre il film – l’isola, allora, è il baluardo sfumato del giudizio sintetico, laddove il desiderio di appartenenza (un modo per essere ricordati), è vago per definizione, come gli spari, lontani, della guerra civile, l’ennesimo rapporto a due (il meno riuscito) del film: la terraferma e l’isola, che è in guerra senza esserlo, il loggione da cui indicare il conflitto, il luogo atemporale che fomenta l’incertezza epistemologica figlia del teatro di McDonagh: conoscere per ricordare, o viceversa?
Confessione e Storytelling
I personaggi di Siobhán (Kerry Condon), la sorella di Colm, e Dominic (Barry Keoghan), il figlio del poliziotto dell’isola, riflettono una vecchia ossessione di McDonagh, sovversiva, anti-irlandese, sabotatrice della famiglia nucleare, delle categorie di genere preordinate, del cattolico. Siobhán, la famiglia di Colm, una donna senza figli, dalla sessualità imprecisata, che ha ambizioni sulla terraferma, e parte, lasciando solo il fratello, egoisticamente (?); Dominic, invece, figlio abusato dal rappresentante della legge, dalla personalità schizofrenica, impulsiva ma passiva. La scena in cui Dominic dichiara (meglio, offre) il proprio amore a Siobhán è la più potente della pellicola: lo sradicamento conosce il desiderio di appartenenza. Uno scontro, una guerra interiore che, in parte, affronta ogni personaggio de Gli spiriti dell’isola; evocati da McDonagh, senza passato ne futuro, senza “chiedere il permesso” – una manipolazione pervasiva e aggressiva dell’aspettativa del pubblico, lasciato a sé stesso, in balia di un sistema di orientamento in continua trasformazione (l’isola).
Siobhán e Dominic sono la bussola emotiva del film, sussumono, cioè, un leitmotiv fondante del teatro di McDonagh, iper-irlandese/cattolico, ossia la confessione. Se, però, quella di Colm e Pádraic è perlocutiva, è dipendente, è interessata dalla/alla parola altrui, quella di Siobhán e Dominic è a tutti gli effetti performativa, sfuma nello storytelling (un classico tropo irlandese), alimenta il discorso del ricordo, si conclude in tragedia (per Dominic).
McDonagh mette in discussione lo statuto ontologico del concetto di personaggio tramite lo strumento irlandese, joyciano per eccellenza, l’epifania. È, infatti, l’apparizione l’evento epistemico che governa la storia: le profezie della vecchia maga, l’opportunità lavorativa per Siobhán, e, soprattutto, il dissidio tra Colm e Pádraic, caduto dal cielo delle Aran. La metadiscussione narrattiva pare abbia preso il posto dell’irriverente critica nazionalistica dei lavori teatrali di McDonagh. In questo senso, dinamicamente, Gli spiriti dell’isola è un film opposto a In Bruges – La coscienza dell’assassino, lo status quo è stravolto dall’ambiente, non dai personaggi: le ragioni della rottura tra Colm e Pádraic sono dipendenti dalla terra che abitano. Il cronotopo delle Aran è il contesto necessario affinché la ricerca di ciò «per cui essere ricordati» inizi, la circostanza che lo permette e al contempo lo castra, il paradosso perfetto: essere ricordati in un posto dimenticato da Dio. D’altronde McDonagh l’ha dichiarato più volte riguardo le sue pièce, «non mi interessa risolvere niente».
«Some things, there’s no moving on from»
In Gli spiriti dell’isola la sensazione è che McDonagh abbia, come detto, stemperato i temi che hanno ispirato la produzione teatrale (la violenza, la satira tagliente, il ribaltamento degli stereotipi irlandesi) a favore di un discorso (più) emotivamente connotato, intimista per molti aspetti, midollare. Non a caso, l’oggetto della narrazione è la rottura di un’amicizia, di un equilibrio precario. Se pensiamo alla letteratura contemporanea, ricorda, vagamente, l’interruzione immotivata di molti legami nei romanzi di Murakami per esempio. L’isola, però, a differenza della città, nega la fuga, impone il confronto, reiterato, è dove va in scena il processo kafkiano de Gli spiriti dell’isola: Pádraic non ha fatto niente di male. Eppure, Colm è stufo della sua banalità: sia un grido d’aiuto – chi può salvare chi viene da chiedersi, come tra Pietro e Bruno nel recente Le otto montagne -; sia la spia dell’inquietudine leopardiana, la nostalgia del non-avuto (più che un monologo sulla noia), la corrente che alimenta la storia e, lentamente, l’assorbe, infine evapora.
Al di là che il parallelismo tra la guerra e l’amicizia (perduta) tra Colm e Pádraic sia riuscito, la sineddoche non è la cifra della storia. La dicotomia guerra interiore-esteriore c’è, la banalità, l’insensatezza del male fa capolino, ma forse il film fa il salto di qualità proprio depotenziando l’idea che tutto è metafora, che il salto, tra l’isola e la terraferma non è sempre possibile, perché «alcune cose non si superano mai».
Insomma, se proprio dovessimo raccontare di che parla Gli spirti dell’isola, l’idea di Del Giudice (in In questa luce (Einaudi, 2013)), secondo il quale l’atto del narrare è irriducibile a ogni teoresi, a ogni interesse applicativo, forse potrebbe andare. A pensarci, è pure il fondamento di un ipotetico ideale di amicizia. Ormai è chiaro: non si tratta di spiriti del luogo, ma di spiriti nel luogo.