[immagine di copertina: Cecilia Jacobs]


Voglio un mondo diverso. Non so che forma avrebbe. Voglio un mondo che sia più aperto, più libero. Voglio che ci sia spazio per me e per tutti/e quelli/e che amo.

– Jan Grue, I Live a Life Like Yours

Il libro di Elena e Maria Chiara Paolini si apre col sollievo che hanno provato, crescendo, nello sperimentare una sorellanza tenuta insieme anche dall’esperienza della disabilità. Non solo: un momento ugualmente luminoso per loro è stato aprirsi al lavoro di studiose e studiosi della disabilità, e a persone attiviste, anche provenienti da altri paesi.

Le persone disabili [1], infatti, rischiano di vivere la propria esperienza in solitudine, dato che la stessa presenza (attiva) di altre persone disabili viene recepita in modo frammentario: non vengono rappresentate nella comunicazione, sono escluse dallo spazio pubblico, non possono identificare un dibattito proficuo attorno alla disabilità nel discorso sociale e politico. Inoltre, vengono solitamente “riunite” soltanto in momenti di vulnerabilità e di separazione dal resto della comunità (per esempio negli istituti, negli ospedali, nei centri di riabilitazione), e faticano pertanto a costruirsi una consapevolezza collettiva. La difficoltà a trovare ponti con l’attivismo, e ad approfondire le dinamiche di abilismo e disabilismo dal punto di vista storico, culturale e sociologico, ostacola quindi la presa di coscienza complessiva della propria esperienza di squalificazione e discriminazione.

A livello semantico, spiegano le autrici, la riflessione sulla (propria) esperienza di disabilità prende forma con l’apprensione di una parola: abilismo. Non che non esista, in ogni caso, la consapevolezza delle forme di esclusione subite. Attraverso questo processo di nominazione, tuttavia, si assume consapevolezza che non si tratti affatto di un destino individuale, bensì che tale forma di discriminazione rappresenti una forma di violenza tanto strutturale e stratificata da riguardare tutti gli ambiti dell’agire umano.

La filosofa Miranda Fricker definirebbe questo fenomeno «ingiustizia ermeneutica»: il fatto, cioè, che le persone marginalizzate siano ingiustamente escluse dall’intelligibilità di determinati fenomeni, persino quando riguardano la propria esperienza di oppressione, discriminazione, stigma (Epistemic Injustice, 2007). Ai soggetti che subiscono questi processi, infatti, mancano gli strumenti teorici, concettuali e linguistici per registrarli, comunicarli, ed eventualmente sfidarli. Le persone disabili sono sistematicamente escluse dai contesti in cui circola e si crea il sapere, anche quello che riguarda proprio la disabilità. Come notano le autrici, «l’accademia non si traduce immediatamente nella vita quotidiana» (p. 23). Esiste poi un ulteriore risvolto di questo fenomeno, a cui tenta di supplire questo libro: se anche tali esperienze possono essere riconosciute da chi le vive – in questo caso, sotto l’ombrello del termine “abilismo” –, poi si verifica l’impossibilità di comunicarne il contenuto al gruppo dominante, poiché la cornice concettuale non è diffusa e condivisa a livello comunitario.

Le autrici compiono precisamente questa operazione: rendono l’abilismo intelligibile, specialmente alle persone non disabili, cui manca – oltre ad una cornice concettuale adeguata – anche un’esperienza diretta. Forniscono degli strumenti teorici e ne presentano esempi pratici, in maniera trasversale: dall’ambito medico a quello scolastico, dalla rappresentazione culturale alla narrazione della politica. L’aspetto più significativo del testo è quindi, a mio avviso, la sua capacità di mostrare la natura pervasiva dell’abilismo. Esso struttura infatti ogni modalità in cui il soggetto s’installa e naviga nel mondo. Questo sistema di pratiche, assunti, narrazioni e processi “premia” chiunque paia rientrare in uno standard (soprattutto di funzionalità ma anche estetico) considerato come la soglia della “normalità”.

Questo sistema determina inoltre quali abilità abbiano un ruolo positivo nella società – per esempio, stare in posizione eretta ce l’ha, mentre riuscire ad adoperare i piedi per le azioni quotidiane, come racconta l’artista e attivista Sunaura Taylor, no (Bestie da soma, 2021). Determina anche in quali condizioni e momenti della vita è legittimo avere determinate necessità: la disabilità, infatti, sfida anche le nostre aspettative socioculturali e mediche sulla progressione lineare di ogni traiettoria biografica, secondo cui certe scelte e certi bisogni insorgono solo in età avanzata (per esempio in merito all’uso di tecnologie assistive, alla cura da parte dei familiari, al sostegno nell’alimentazione):

Essere adulti è associato infatti a uno standard rigido di autonomia e performatività, e se ti discosti da quello standard perdi valore (p. 18).

Il sistema dell’abilità obbligatoria (compulsory able-bodiedness e able-mindedness) motiva di conseguenza la squalificazione dei soggetti i cui corpi e apparati cognitivi risultano inadatti rispetto a questo standard. L’impatto non ricade soltanto sulle persone disabilitate, come evidenziano anche le due autrici: l’abilismo permea piuttosto ambiti che riguardano tutti e tutte (medico, formativo, relazionale, estetico).

Questo permette, senza naturalmente mai oscurare la molteplicità della dimensione individuale e le difficoltà che possono essere sperimentate, di rendere conto della dimensione politica della disabilità, secondo cui – scrive Alison Kafer – «il problema della disabilità è situato negli spazi inaccessibili, negli atteggiamenti discriminatori e nei sistemi ideologici che identificano la normalità e la devianza in determinati menti e corpi». In questa prospettiva, l’interesse collettivo deve focalizzarsi non tanto sulla dimensione medica, quanto piuttosto su «cambiamenti sociali e trasformazioni politiche» (Feminist, Queer, Crip, 2013, p. 6).

Gli assi che attraversano il volume sono: l’analisi dei meccanismi abilisti nelle sue molteplici facce (dentro e fuori la comunità disabile, nel mondo medico, negli spazi sociali…); le questioni identitarie legate alla disabilità; il tema dell’assistenza e della cura; la rappresentazione della disabilità; il ruolo della famiglia; la fatica sperimentata dalle persone disabili nella lotta all’abilismo; la necessità di produrre analisi intersezionali della disabilità; il legame tra esperienza della disabilità e capitalismo.

L’attenzione viene rivolta tanto alle discriminazioni quanto alle forme più brutali di violenza, segregazione e silenziamento delle persone disabili, che arrivano fino alla cancellazione fisica: per esempio le pratiche eugenetiche, gli episodi di abilismo medico che mettono a rischio la salute, gli omicidi da parte di caregivers – raccontate, in maniera intollerabile, come «uccisioni misericordiose» (vedi per esempio il tentativo di presentare queste tragedie come tali su https://disability-memorial.org/).

Le autrici, in questa disamina, non segnalano soltanto fatti storici e di cronaca, ma fanno anche frequenti riferimenti al proprio vissuto personale: non per produrre una narrazione pietistica nei propri riguardi, né per soddisfare quella curiosità morbosa fin troppo tollerata a livello sociale («perché sei così?», «cosa ti è successo?», «ma fai sesso?»,…). Li propongono, piuttosto, perché le esperienze dirette devono avere un peso fondamentale nelle rivendicazioni attorno alla disabilità, e perché personale e politico si intrecciano in nodi faticosi da sbrogliare, che eppure gettano una luce fondamentale sul ricamo multiforme e variegato rappresentato dalla disabilità.

Queste voci, inoltre, permettono la costituzione di una relazione proficua tra attivismo, Disability Studies, società civile e politica: è fondamentale che la comunità disabile smetta di essere prepotentemente esiliata nel ruolo del «ventriloquo» (come direbbe, in altri contesti, Donna Haraway) attraverso cui parlano altri/e, senza conoscerne effettivamente necessità, bisogni, possibili rivendicazioni. L’importanza della propria narrazione emerge in tutto il libro perché, come evidenziano le autrici, alle persone disabili viene costantemente tolta la voce: nelle rappresentazioni, nelle scelte linguistiche, negli scambi medici, nelle interazioni quotidiane, nei prodotti per l’intrattenimento e così via (consiglio, in particolare, l’analisi esemplificativa di diversi film, nel cap. 4, sez. IV). Le stesse forme di appropriazione, inoltre, si verificano nel caso dei loro corpi, gestiti e manipolati come se fossero «pubblici» (p. 32): perché a livello sociale manca, appunto, la consapevolezza che debbano potersi autodeterminare.

Dati i miei auspici dal punto di vista socio-politico e i miei interessi di ricerca, mi hanno colpita in particolare tre aspetti del volume, che possono apparire disgiunti ma convergono, invece, in modi complessi, fertili e inaspettati: l’enfasi sulle competenze delle persone disabili, l’analisi del rapporto tra abilismo e capitalismo, e la riflessione sull’amore.

Elena e Maria Chiara Paolini sottolineano, in vari passi del volume, quanto siano basse le aspettative nei confronti delle persone disabili, di cui vengono pertanto lodati anche i traguardi più semplici («che brava che sei ad uscire con le amiche!»). Senza voler oscurare la marginalizzazione strutturale che subiscono – attraverso barriere non soltanto architettoniche, ma anche sociali, economiche, culturali –, per cui effettivamente alcune attività ed azioni sono poco accessibili, le autrici ricordano quanto sia urgente riconoscere alle persone disabili competenze anche proprie. Possono infatti produrre forme alternative di sapere e comporre specifici apporti a livello culturale. Un esempio proposto è quello delle relazioni di assistenza: in più passi evidenziano le modalità con cui hanno imparato a gestire il personale assistente, che loro stesse selezionano, e che poi istruiscono sulla base dei loro bisogni e delle loro preferenze.

Si pensa poi comunemente che gli assistenti personali delle persone disabili siano operatori sanitari, quando invece spesso per questa professione non serve nessuna formazione medica specifica, se non eventualmente quella fornita dalla persona disabile stessa (p. 87).

Non è forse un’expertise, questa? Perché allenare il proprio muscolo dell’interdipendenza dovrebbe avere meno valore, poniamo, rispetto al sapere sostituire la ruota di una macchina? Per di più in un mondo in cui l’aspettativa di vita si è alzata e dobbiamo aspettarci quasi tutti e tutte di dover usufruire prima o poi di forme di cura e assistenza? Viene pertanto messa in discussione la narrazione che situa le persone disabili in una posizione di esclusiva passività in questi processi: esse partecipano attivamente alla propria assistenza, in modalità diversificate e anche non necessariamente verbali.

Questa enfasi sulle competenze, d’altro canto, rischia di sostenere una prospettiva, estrattivo-capitalistica, secondo cui ha senso valorizzare soltanto ciò (in questo caso, una categoria, per quanto parzialmente artificiosa, di persone) che si dimostra utile, reiterando ancora una volta una dimensione performativa, iperproduttiva e mercificante. Ciò non ci solleva, a mio avviso, dalla necessità di identificare delle forme di sapere che attualmente non vengono considerate risorse – tanto più che una di tali competenze ha precisamente un ruolo in un’ottica anticapitalistica: come sottolineano le autrici resistere all’abilismo, anche quello interiorizzato, è una forma di resistenza a questo tipo di struttura sociale ed economica.

Per molte persone disabili, quelle la cui disabilità rende più affaticabili, il fatto che il riposo è essenziale si manifesta in modo più chiaro e netto rispetto alle altre persone. Molto semplicemente, quando il riposo è qualcosa di cui proprio non puoi fare a meno, senza il quale il tuo corpomente non può procedere, allora non si tratta più di qualcosa che può essere scambiato per un lusso e che bisogna vivere con senso di colpa. Riposarsi vuol dire rallentare, staccarsi dall’obbligo di produttività a tutti i costi, quindi potenzialmente affrancarsi dall’idea di lavoro come ciò che definisce la misura del proprio valore, e riuscire a rimanere più connessi con se stessi e con i propri bisogni. […] Ecco perché il contrasto all’abilismo è così importante anche come pratica anticapitalista. Riconoscere che le persone disabili hanno valore, in una società che glielo nega continuamente, significa sovvertire parecchi degli ideali che stanno alla base del sistema capitalista (pp. 201-202).

La diffusione di questo specifico sapere, infatti, può imprimere una deviazione rispetto agli ideali culturali che riguardano il corpo, specialmente riguardo ai tentativi di irreggimentarlo e di delinearne contorni di perfettibilità. Ciò avrebbe conseguenze profonde sulle narrazioni culturali, riguardanti la produttività dei corpi, aspettative riguardanti le nostre risorse mentali, sul rapporto tra “lavoro” e “tempo libero” (e sulla rigidità di questa biforcazione e sulle emozioni che la accompagnano, penso in particolare al senso di colpa).

In Mezze persone le autrici hanno «messo un sacco di amore dentro»: «speriamo si senta», scrivono (p. 9). Che rapporto ha l’amore con la resistenza ad aspettative distruttive e pericolose, e rispetto alla squalificazione di alcune soggettività che ne consegue? L’amore, io credo, è parte integrante di questo percorso in cui lo smantellamento dell’abilismo si interseca inevitabilmente con la lotta verso la struttura capitalistica. Non si tratta dell’amore un po’ lacrimevole e “devoto” che, riprendono più volte le autrici, caratterizza la narrazione attorno alle persone disabili: quella forma di infantilizzazione, paternalismo e autogratificazione travestita da amore con cui ci si relaziona a loro.

I presupposti emozionali alla base dell’agire etico sono stati spesso messi in discussione all’interno dell’attivismo disabile, in particolare riguardo alle rappresentazioni della disabilità basate su sentimenti quali pietà e compassione: il superamento delle attitudini abiliste – si insiste – ha piuttosto a che fare con la giustizia. Cionondimeno, la dimensione affettiva, componente comunque ineludibile sul piano etico, è un motore: stimola l’affermazione di piani di esistenza in cui chiunque può dispiegare le proprie possibilità. La disabilità, nonostante la fatica e lo sfinimento che derivano dall’avere a che fare con l’abilismo strutturale, ispira anche amore, cura, orgoglio per ciò che si è e per ciò che rappresenta la propria comunità. Significa, per tutti/e, non lasciare nessuno/a indietro, anche chi pare non raggiungere quegli standard di “normalità” che ci assediano. Significa resistere ad ogni narrazione che spinge le persone disabili ad odiarsi, perché non sufficientemente produttive e decisamente troppo bisognose.

Questo mio corpo, mi dicono, è la causa di tutti i miei mali, perché è disabile. E siccome essere disabile è un’eccezione, un difetto di fabbrica, qualcos’altro rispetto a ciò che dovrei essere, non posso “pretendere” che la società si conformi alle mie necessità. Come dite? la società è un consorzio umano che ha scelto di organizzarsi intorno ai bisogni dei suoi componenti? Non importa, se sei disabile non fai davvero parte di tale consorzio, e i tuoi bisogni sono qualcosa di extra. Questa idea che dovrei incolpare il mio corpo mi fa ridere. Proprio il mio corpo, che è sopravvissuto e mi ha traghettato su sponde sicure dopo innumerevoli episodi di ignoranza e malpratica medica. Che mi sostiene tutti i giorni in una società che non prevede la mia esistenza. Che fa tutto ciò che mi serve, e che quando lo sforzo troppo protesta e mi avvisa che mi devo fermare, diventando uno scudo tra me e le aspettative capitaliste di performance a tutti i costi. Che provo a considerare in modo neutrale, come un contenitore per la mia mente; ma che è troppo formidabile perché possa non amarlo (p. 185).

In conclusione, questo libro parla di lotta, di resistenza, di competenze, di fatica. Le autrici espongono in maniera lucida e chiara le dinamiche abiliste che informano il mondo medico, la società e il tessuto culturale. Che si parli, finalmente, di disabilità, e che le persone disabili siano al centro di una fioritura di opere d’arte, memoir, libri specialistici, rappresentazioni veicolate dai media, azioni politiche… Regalatelo, regalatevelo: e che sia un fondamentale tassello in una rete molto più vasta.


[1] Io parlo solitamente di “persone disabili” (impiegando il cosiddetto identity-first language e traducendo l’inglese disabled people), a segnalare la matrice sociale della concezione di disabilità sottintesa.  Il senso di questo processo – in cui per l’appunto le persone disabili vengono marcate come tali – viene parzialmente a perdersi nella traduzione italiana (che permane, invece, in ‘disabilitate’). Questa terminologia sottolinea inoltre l’impossibilità di disgiungere la persona dalla propria esperienza di disabilità, da un punto di vista individuale e collettivo. La privilegio anche in conformità con la maggior parte degli autori e delle autrici su cui lavoro. In ogni interazione, tuttavia, è fondamentale attenersi alle preferenze personali per garantire l’autodeterminazione linguistica.


Elena e Maria Chiara Paolini, Mezze Persone. Riconoscere e comprendere l’abilismo, Aut Aut, Palermo 2022, pp. 214, € 16,00.