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#PremioBg2023 – “Il Duca” di Matteo Melchiorre

Prosegue la presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2023. Gli incontri con gli autori si tengono alle 18.00 alla Biblioteca Tiraboschi di Bergamo; dopo Alberto RavasioGiorgio Vasta e Silvia Cassioli, oggi tocca a Matteo Melchiorre.


Nessuna guerra comincia per caso, ma tutte cominciano a partire da un caso. Alle origini di quella narrata da Matteo Melchiorre nel suo romanzo Il Duca (Einaudi, 2022), finalista al Premio Bergamo 2023 e recentemente proposto per lo Strega da Marco Balzano, ci sono circa tre ettari di bosco, espropriati al protagonista (Il Duca, appunto) dal suo avversario, Mario Fastréda

Perfettamente speculari, il Duca e Fastrèda, abitanti di Vallorgàna, paesino a piedi della Montagna, in un’indeterminata attualità. In termini di età e di classe, il primo è il più giovane e ultimo membro di una famiglia nobiliare, i Cimamonte, trasferitosi da una decina d’anni dalla città di Berua alla Villa avita per ritornare alla terra. Il secondo, anziano membro della comunità montana, è una sorta di esito ultimo dell’Anguilla della Luna e i falò: oscuro paesano senza un passato, partito giovanissimo per le Americhe e tornato ricco e impaziente, all’epoca dei fatti un arzillissimo ottantenne con le mani in pasta ovunque.

In termini politico-esistenziali, il Duca è avvinto a un tradizionalismo forse più insicuro sul da farsi che non veramente conservatore. Il secondo, in ogni caso, è la voce senescente del progresso. Il progetto per il loro mondo che l’usucapione boschivo sottende è, per Fastrèda, la cementificazione della cresta, la strada della Montagna. Col sospetto, più che fondato, che si tratti di un’operazione quasi consolare, volta a cancellare permanentemente il lascito dei Cimamonte.

Il Duca invece, possidente e solo al mondo, desidererebbe solo contemplare dalle estremità del proprio tempo la sua lunga fine:

Mi era comunque indifferente quel che di me si poteva dire o pensare giù in paese. Io ero certo di trovarmi nella sorte migliore che potessi desiderare. Nulla di importante avveniva nelle mie giornate. Nulla di complesso ingarbugliava il mio sguardo. Nessuno strappo nella quotidianità. Nessuna decisione a intralciare il passo. Vivevo nella condizione migliore cui un uomo della mia natura potesse ambire: la condizione perfetta, la condizione ideale (p. 15).

A scatenare la discordia, in effetti, non è nemmeno l’esproprio in sé, ma la scoperta della sua interpretazione collettiva. Ereditare sardonicamente il titolo di Duca, dato dai paesani al principesco e strambo nonno Ausilio, è un conto. Non saper neanche “difendere” (p. 43) o “comandare nel proprio” (p. 83), un altro. La liberalità dell’animo sublima il senso di una colpa centenaria; ma, di fronte ai suoi terreni disboscati, in un’aria di neve, ecco nuovamente riaffiorare lo “spirto guerrier” del suo casato, quel “pessimo istinto da padrone” (p. 63). Ed è in questo inverno dello scontento che il Duca matura le sue scelte di belligeranza.

La torre di presidio del feudo dei Cimamonte, divenuta poi casino di caccia e quindi Villa (con lavori finanziati dalla “provvida sventura” della peste) è la stratificazione di epoche, sopraffazioni ed agi entro cui il protagonista va cercando (secondo l’ormai celebre metafora junghiana) un senso per il suo presente. Secondo Walter Benjamin, Maximilien Robespierre vedeva nell’antica Roma un passato carico di adesso; motivo per il quale andava estratta a forza dal continuum della storia. È quanto porta il Duca, sempre riluttante e come parzialmente inconsapevole del suo operato, a ritornare al suo passato per citarlo nell’agone con Fastréda. Tuttavia, in questa partita a scacchi l’avversario non è solo degno, ma (parrebbe) anche veggente

Notevole, da una prospettiva stilistica, l’appaiamento quasi arcadico (anche se spesso horror) di ciclo naturale, narrativo e storico. Per ogni filo conduttore della trama c’è un residuo stagionale, un clima, un’aria: ciò che poté chiamarsi neo-realismo, e adesso sembra un’utopia. È dentro questo ambiente che Melchiorre filtra nella trama la sua topica montana

Sul solco del politico, ecco le spaccature in seno alla comunità di fronte al ritorno in Montagna del lupo; ecco l’utilizzo a fini di spionaggio delle relazioni, degli amori; le “maschere della discordia” (come recita il quarto capitolo), antico e periglioso gioco societario fatto di parole, gesti, calcoli che intervengono a modificare, col presente, anche il passato. O il catalogo delle ombre dei paesani (pun intended), le loro storie inenarrabili, su una linea che almeno da François Villon è insieme canto e pianto. Infine, l’aspetto claustrofobico della vallata, tanto prossima e così distante dalla Piana, e insieme l’apertura all’infinito sul mistero delle “dimensioni” spazio-temporali (in un ambiente che non faticherà a rammemorare intramontabili come Twin Peaks).

Tutto questo allude a uno strano concetto di storia, minacciato da tre spinte contrapposte. Quella dello storicismo, coi suoi fini, le sue cause, le motivazioni; della cronaca, appiattita su una temporalità uniforme ma infinitamente presentificata; e, infine, della mitologia, circolare e ineludibile. Tre diverse concezioni del passato, a corollario: ciò che non è più, l’essente stato, ciò che sarà sempre.

Il rinvenimento di una Chronica Cimamontium è, a questo riguardo, una vera e propria svolta del romanzo. È questa, infatti, a interrompere il continuum ipnotico di storia e mito. A volte solo l’accatastamento degli eventi svolto come per l’onere di un inventario, rinunciando per forza o per disamore a ogni forma di interpretazione, può dare adito a un riscatto nel futuro. Ed è a questo riscatto, per motivi diversi e complementari, che tendono sia il Duca che Fastréda.

Anche l’enfasi sulla storia ha, ovviamente, le sue cause. Melchiorre, infatti, arriva al Duca forte di un percorso che è di storico e di archivista, da un lato, di narratore dell’ambiente montano dall’altro. Insistendo, in entrambi i casi, sull’area delle Prealpi orientali e in particolare sulla Vallata Feltrina. Vocazioni che ha saputo e voluto orientare all’intelligenza di quell’oggetto misterioso che sono le interazioni, sedimentate nel tempo, con un ambiente. Ciò che fa di un aggregato umano una comunità, e del passato delle radici. Basta rifarsi, per averne contezza, anche solo ai suoi due ultimi lavori, La via di Schenèr (Marsilio 2016) e Storia di alberi e della loro terra (Marsilio 2017).

Refertati questi luoghi con indagini condotte tra lo storico e il geografico, la sfida consisteva nel trovarne il passaggio verso i territori finzionali. E dunque la narrazione della montagna, su una linea che è, tra gli altri, di Cognetti: ma non eternante o encomiastica, bensì eco-critica del quotidiano. Oppure il metodo dell’indagine storiografica, con la sua divulgazione (Ginzburg, Barbero): lì a mostrare che il passato è più una lingua morta di cui sollecitare le capacità di traduzione che non un tempo o un paesaggio.

Si staglia l’ombra di quella memorialistica trasfigurata nella fiction che, nella nostra letteratura, ha dato forse l’esito più doloroso con La casa in collina di Cesare Pavese. Una simile immobilità, scandita dal mutare impercettibile delle stagioni e dei rapporti, si respira tra le pagine del Duca. Ma, e qui sta la differenza sostanziale, questa immobilità è di tipo storico, laddove in Pavese è metafisica. Qualcosa di più simile, per intenderci, al bellunese di Dino Buzzati – tutto ombre, spiriti, persistenze, illuminato a intermittenza dalla luce ambigua della temporalità.

Di fatto, è sulla linea che attraversa luoghi, tempi e narrazioni che Melchiorre trova la sua formula linguistica: filtrata dal protagonista della storia, la realtà del Duca è insieme rustica e affettata, lucida e ossessiva, un monolinguismo che è in realtà il controcanto ininterrotto dell’anima sprezzante e epigrammatica dei “suoi” paesani, dietro cui si scorge la finzione di un idioma volto in lingua “nazionale” per (è il caso di dirlo) cause di forza maggiore.

La cosa migliore che possa accadere a chi si è fatto da parte e non vuole più contare per nessuno è mettersi di traverso sulla strada degli altri e costringerli alla resa dei conti. Questo è lo sgambetto (storico ma anche metastorico) che il Duca e Fastréda tenteranno di farsi vicendevolmente; ed è l’allegoria del modo in cui la provincia estrema si raffronta al centro. È quanto è accaduto nel 2018 con l’uragano Vaia, di cui Il Duca reca traccia in pagine straordinarie e dolorose, sospese tra ecfrasi storiografia. Ovvero con il prorompere di quanto per quest’ultima è un evento improvviso, e per la prima è l’esplosione dell’irrazionale puro, della violenza mitica.

Eppure, alla tragedia deve sempre accompagnarsi un tanto di farsa, di insensato o di apparentemente futile che sveli quanto poco occorra per passare dai pretesti ai luoghi estremi degli eventi e delle scelte inesorabili. E dunque c’è da dire che la musa di Melchiorre (clio, o calliope) è ancora quella che si fa viva in tempi di guerra intestina, quando ciò che è occulto finalmente appare.

All’uscita di Requiem per un albero (2004), «resoconto dal nord-est» dedicato alla caduta dell’olmo centenario di Tomo (BL), Wu Ming 1 aveva evidenziato la capacità di Matteo Melchiorre, allora oscuro ventitreenne feltrino, di “passare dalle storielle alle storie, poi alla Storia e infine al mito, e carica del mito tornare alle storielle”. Quasi vent’anni (e quattro libri) dopo, Il Duca sembrerebbe confermare l’intuizione critica. A patto, però, di volerne capovolgere la metafora montuosa che tratteggia. Qui il mito olimpico è insidiato da quello ctonio, le vette dalle viscere della terra; ma è, in ambedue i casi, una verità nera, senza via di scampo. Come quel Bùs del Caorón («Buco del caprone», ovvero del demonio, p. 242) che, tra demonologia paesana, storiografia erudita e tragico quotidiano, contiene in sé la metafora della sconfitta e del disvelamento. Per continuare a vivere, il faut faire avec.


Matteo Melchiorre, Il Duca, Einaudi Torino 2022, pp. 464, €21.