Di Reggio Film Festival si dovrebbe parlare di più. Me lo dice Nicola, decano dell’organizzazione, e io non posso che trovarmi d’accordo con lui. Un po’ perché negli anni, a Reggio Emilia, sono transitati anche dei corti candidati all’Oscar (l’anno scorso l’ottimo Ice Merchants di João Gonzalez, per dirne una). Un po’ perché, nella provincia, è difficile trovare sale piene come quelle che ho visto in occasione dell’ultima edizione del festival, tra fine ottobre e inizio novembre scorsi, a fronte di un programma con film provenienti da tutto il mondo. Ora, Reggio Film Festival sta tornando per la 22^ edizione. Ma perché nessuno, fuori dalla provincia, lo sa?
Partiamo dai fatti. Reggio Film Festival è una kermesse di cortometraggi internazionali, organizzata da FEDIC – Federazione Italiana dei Cineclub / Cine Club Reggio con il contributo, tra gli altri, della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Reggio Emilia (la direzione artistica è di Alessandro Scillitani), articolato in un concorso principale a guida tematica, oltre a tante sezioni minori. «L’anno scorso, il tema centrale era quello dell’identità», continua Nicola. «Poi abbiamo uno spazio libero, una categoria riservata ai corti emiliani, e anche un programma family, che svolgiamo però qualche giorno dopo il festival principale. Per quest’anno abbiamo scelto il tema del Futuro. Cerchiamo, sempre e comunque, di fare in modo che il festival sia sogni, amori, riflessi, relazioni». Come quelle attivate dagli eventi collaterali alle proiezioni, ricchi e inclusivi. Per esempio con una tavola rotonda con al centro i libri di Diletta Crudeli (Human. Corpi ibridi, mutanti e fluidi nell’universo del possibile, Moscabianca, 2021), Simone Marcelli Pitzalis (Questo è il corpo, effequ, 2022), Gianluca Sturman & Barbara Orlandini (Ovunque. Esplorazioni cromatiche del mondo Queer, Becco Giallo, 2022); poi, con la proiezione del corto-documentario Divieto di transito (2020) di Roberto Cannavò, accompagnata dalla presenza in sala di Porpora Marcasciano, protagonista del corto e attivista di lungo corso per la comunità trans, e Marilisa Murgia, produttrice e organizzatrice del festival Divergenti; e ancora, parlando di guerra russa in Ucraina, di cinema e pari opportunità. E tutto, sempre, puntualmente gremito.
Chi è di Reggio Emilia, e spero che non lo siate, conoscerà le relazioni pericolose tra cittadini e sale cinematografiche. Ricorderà i cinema polverosi del centro, le patatine comprate ancora in sacchetto al bar, l’evaporare nella bolgia multisala, il resistere magari solo in provincia perché tanto, al capitalismo, della campagna non gli frega. Ma allora per chi li hanno chiusi, i cinema della città? Per chi li hanno chiusi, i bi-sala con le poltroncine rosse sgualcitine (rubo da Martina Riccò, Gazzetta di Reggio, 01.11.2016), Boiardo, Alexander, D’Alberto (1, e 2, per giunta), Ambra, che spadroneggiavano in centro storico? Non lo so. Ne resistevano due, il Corso e il Cristallo, ma ora anche il Cristallo ha chiuso, notizia fresca. Però gli spettatori del Reggio Film Festival la riempivano tutta, la sala del Teatro San Prospero, sede storica del festival, e, per la prima volta, la paura di non riuscire a sedermi per quelle due orette mi ha ringalluzzito di gioia.
Continuo la chiacchiera con Nicola, che è una miniera di segreti sul festival. Scuotiamo la testa, sfiancati, a pensare a queste cose. Eh, sì. Fossimo meno modesti, nella provincia. Sapessimo esaltare i folli che la terra tira su. Perché tenere in piedi un piccolo festival indipendente, e farlo così ricco, di questi tempi, è follia, e delle più sconsiderate.
Nell’offerta dell’anno scorso, ad esempio, Alicja Jasina, che al festival ha portato il suo Turbo Love, in cui una love influencer dispensa consigli ai follower su come utilizzare un innovativo software di gestione relazioni, così da avere il pieno controllo sulla propria vita di coppia, in puro spirito #girlboss. Il corto è animato, lo stile minimalista e perfettamente in linea con la nostalgia che investe l’internet da qualche tempo. È pop, veloce e divertente. «Mi ispiro soprattutto allo stile di Saul Steinberg, Geoff McFertridge e Christoph Niemann», mi dice Jasina. «In particolare, Steinberg si vedeva come uno “scrittore che disegna”, e puntava a imprimere il maggior significato possibile in immagini-lampo, e molto semplici». Faccio notare alla regista che mettere una protagonista femminile nel corto mi è sembrata una scelta azzeccata, una “eterobasica”, per dirla con termini riconoscibili. Questo micro-management sociale sembra uscito da un romanzo di Jane Austen, ma forse l’impressione è sbagliata. Infatti, «a volte mi sembra che il discorso sull’indipendenza femminile sia un semplice affrancarsi dal maschio in generale. “Non ne abbiamo bisogno”. Ma si muta poi in un chiedere troppo a se stesse e al compagno, se maschio. Alcune mie conoscenze femminili ucciderebbero pur di avere il controllo totale di una relazione, o situazione in generale. Qui si apre il tema delle aspettative che la società mette sulle spalle delle donne. Ma qui servirebbe un altro film». La protagonista di Turbo Love è però un’influencer. Chiedo a Jasina se la scelta sia stata dettata da come i social colonizzano la nostra quotidianità, da come, magari, la influenzino. Sembra esserci un po’ di FOMO, nella vita della protagonista. «Una cosa che i social ci hanno disabituato a fare è vedere le persone nella loro interezza, pregi e difetti. Tutto deve essere sempre perfetto, vogliamo tutto e subito. La realtà però non ragiona così. Staccare gli occhi dallo schermo e godersi di più il qui-e-ora farebbe bene. Non amo molto i social. Li uso solamente come vetrina per il mio lavoro creativo. Mi sono messa da poco su Instagram, chissà».
Marcel Barelli, invece, ha portato Dans La Nature, strumento didattico di cui, a mio parere, ogni scuola dovrebbe servirsi. Anche questo animato, Dans La Nature parla di come, in natura, le differenze tra maschi e femmine siano spesso labili, e di come l’amore scavalchi ostinatamente le categorie. «Era da un po’ che volevo parlare di omofobia, ma non avevo ancora trovato la chiave giusta. Un giorno però ho letto un libro sull’omosessualità tra animali, ho contattato l’autrice e abbiamo iniziato a collaborare sul progetto. Volevo che avesse un tono ludico, giocoso, che fosse adatto a tutti ma comunque scientificamente corretto. Pensa che la voce narrante è quella di mia figlia. Per fortuna sì, stiamo riuscendo a portarlo anche nelle scuole, ed è molto apprezzato». Gli chiedo di più sul tipo di reazioni raccolte dal corto. «Di sicuro è stata una scommessa. Non ero sicuro potesse davvero piacere. Poi, tra tono appunto giocoso, e il fatto che tocca temi importanti come l’identità e il rapporto che abbiamo con la natura, ciò che la natura ha da insegnarci, ecco, credo di aver trovato un mix convincente. Poter raccontare storie di mestiere è un grande privilegio, e anche una responsabilità. Per questo voglio parlare il più possibile di cose concrete, che tutti possano trovare nelle loro vite. Questo, per me, vuol dire comunicare. C’è una citazione bellissima di André Malraux: “L’art, c’est le plus court chemin de l’homme à l’homme”».
E su questo, più non aggiungerei. Però ricordatevi che il Reggio Film Festival vi aspetta anche, più avanti, quest’anno. Il consiglio, naturalmente, è di non perderselo, come di andare al cinema, sempre.