A Ludovica
Dio non esiste, l’entropia sì, ma a nulla serve ripeterlo a G. che nell’auto mi accompagna attraverso le provinciali crepate dal sole, che tagliano i campi di macchia mediterranea. Non è perché G. sia religiosa, ma perché i meccanismi che governano il moto della mia auto rombano e coprono sia la musica che le nostre parole. La consolazione è che il sole, l’ultimo dell’anno, è forte come in primavera. La tragedia del riscaldamento globale si è travestita da concessione d’inverno.
Attraverso i finestrini abbassati filtrano zaffate di carne bruciata che ci raggiungono dalle abitazioni nascoste nei viottoli che si diramano dalla provinciale. Quasi mezzogiorno, la gente si prepara alla vigilia di Capodanno, mentre io e G. continuiamo ad allontanarci da Galatone in direzione del mare.
Galatone è il paesotto di sedicimila abitanti, in provincia di Lecce, giù verso la parte più acuminata della Puglia, in cui sono nato (la cui etimologia ricorda il latte, ma nessuno lo ha accertato). Da sette anni residente a Milano, ritorno nelle zone di casa come un forestiero. Qui le cose cambiano più lentamente, ma lo fanno e ogni volta un pezzo di ciò che conoscevo si stacca dal corpo principale per prendere la deriva. Il mondo che ho conosciuto, alla fine, arriverà a non riflettere più la mia immagine.
Riguardo le architetture dei paesi limitrofi e le campagne attigue con allucinata sorpresa. Per questo ho chiesto a G. di accompagnarmi a vedere le ville eclettiche delle Cenate, una zona boschiva immersa tra le fronde frastagliate dei pini marittimi su un promontorio dolce a picco sul mare. Le ville si trovano a metà della provinciale che da Nardò (trentatremila abitanti, cinque chilometri distante da Galatone) porta alla località marittima di Santa Caterina. Quest’altro paesotto sul mare è praticamente addossato al perimetro del parco regionale di Porto Selvaggio. Il mare è rivolto ad ovest, ci tramonta il sole dentro.
Parcheggiamo al lato dello stradone, in uno slargo sterrato. C’è un cerchio di sessantenni vestiti bene ad aspettarci che accerchiano una signora giunonica dai capelli rossi imbiancati alle radici.
Ci avviciniamo: con uno spigoloso accento locale racconta che le Cenate erano una zona famosa nel Seicento per le numerose vigne. Una delle ipotesi etimologiche (la più accreditata) fa risalire il nome di questo luogo alla tecnica (l’acenata) vinicola dell’epoca. Tra le vie solitamente curve, oggi queste ville ottocentesche, chiamate eclettiche per la mistura di stilemi che presentano, compaiono nel mezzo della boscaglia torreggiando come giganti timidi. Variopinti, mostrano ora un cornicione ornato, ora un angolo di terrazza, una scala moresca e sbeccata.
Un tempo, dice la guida valchiria, tutto attorno si estendevano colline trapuntate di macchia mediterranea e le ville svettavano monumentali tra la terra rossa. Sono state erette solamente a causa di nuova narrazione: il mare a fine Ottocento veniva raccontato ai nobili come panacea per ogni male e quindi questi signorotti terrieri lasciavano Nardò e Galatone per il promontorio, facendo a gara per la villa più sfarzosa.
Mentre le sue parole fluttuano, di fronte a noi si lascia intravedere una porzione di villa bianca. L’intonaco diafano sbuca attraverso un nugolo smeraldino di pini. La luna è già su, ma velata e appena esistente. Mi chiedo quando ho cominciato a raccontarmi il mare nel modo in cui me lo racconto adesso, fino a scriverne un racconto lungo, a farne una fissazione.
G. mi ha fatto, nel mentre, una foto. Me la mostra: ho un mallet tagliato male, la fronte corrucciata, sembro pensoso e ombrato. Arrabbiato, specifica G.
Qualcuno per questa mia perenne espressione imbronciata, una volta, mi inviò la foto della sua iride verde.
Villa Saetta
Se ci penso è tutta colpa del mare. Sembra li abbia richiamati a sé, questo gruppo di nobili locali impettiti, fieri dei loro interminabili filari di vigna. Trovo curiosa questa entropica coincidenza: loro ritornano vicino alla costa, rispondendo alla chiamata del mare, come fanno i cittadini di Marina all’interno di “Fantasmagoria”. L’ufficio stampa della mia prima novella mi scrive nel momento in cui la guida racconta la decisione della nobiltà neretina. L’aria del mare faceva bene ai polmoni, dicevano i medici.
Non si trattava solo di una narrazione differente: il mare si liberava dall’alone del pericolo, non arrivavano Saraceni, Turchi, pirati e predoni. Da quelle onde illuminate dal sole — me lo immagino mentre attraversiamo la ciclabile in direzione della prima villa — arrivava la salvezza dell’aria pulita. Una trappola: perché chi si avvicina al mare non torna indietro. Come a Marina.
Ce ne dà conferma il Signor Michele, un anziano borghese con la tuta felpata infilata in un paio di scarpe da barca, che da Roma ha deciso di trasferirsi in questo pezzo di mondo sconosciuto. Per sempre.
Mentre lo racconta, il suo ciuffo cenerino pende a lato e sembra quasi accendersi sulla sua carnagione olivastra e incartapecorita. Il naso uncinato sotto la montatura pitonata è la prima cosa che si nota perché segue la stessa linea del corpo secco e ricurvo.
Ha le mani grandi il Signor Michele e le sventola per salutarci al centro del vialone di Villa Saetta. Tra le fronde di pini pendenti c’è questo edificio a staffa di cavallo, di due piani; il secondo dei quali occupa solo il centro, con una costruzione a cupola. Si tratta di un belvedere, ad arcata trifora, che ricorda le dimore moresche e le città del Medioriente. Le due ali laterali, al piano terra, che si allargano in curva concava, sono ricoperte da strette piastrelle rettangolari, gialle e rosse. Contrastano con il corpo centrale e le finestre bifore, impreziosite da particolari neogotici in pietra grigia, dall’aria cimiteriale.
Non vediamo l’interno, restiamo fuori in questa mezzaluna di terriccio a osservare i particolari dell’eclettismo e a immaginarci i saloni colorati, con le loro volte a stella, dalle parole del Signor Michele. La guida spiega che i nobili che avevano deciso di trasferirsi qui iniziarono presto a fare a gara, costringendo gli architetti dell’epoca a mesciare stilemi provenienti da diverse correnti artistico-culturali: il gotico, il moresco, il neoclassico, il tardo barocco, ma composti quasi sempre dalla stessa roccia calcarenitica (ancora una volta proveniente da ambiente marino). Chimere di carparo contro il tempo, bestie eclettiche.
Circumnavighiamo il complesso, addentrandoci nei due ettari che circondano l’abitazione. Un piccolo pozzo si apre sul limite del perimetro a est. Una tanichetta di plastica è poggiata sul muretto sbeccato: il Signor Michele la alza nell’aria dal manico giallo. Viscidi corpi di metallo che si sfregano l’un l’altro traspaiono nella plastica riscaldata: utilizziamo le anguille per pulire il pozzo, annuncia fiero.
Con G. ci allontaniamo a fumare, mentre i signori romani ammaliati dal padrone di casa restano per un po’ attorno al pozzo, riscaldati da un insolito sole di fine anno. Alle nostre spalle Villa Saetta ci abbraccia come un fantasma arlecchinesco. Controllo il cellulare e c’è una chiamata. «Laura» dico.
«Laura, chi?»
Spiego a G. di questa cara vecchia amica di università. Le racconto di come la nostra amicizia sia basata su un vecchio amore conteso. Ma sono passati dieci anni e non la sento da un po’. G. sfila il mozzicone dalla sigaretta elettronica e candida mi fa una domanda che mi stravolge: «Ti ricordi cosa facevi dieci anni fa come oggi?».
Villa Cristina Personè
Immagino come possano essere i prossimi dieci anni con G. in una villa simile. Faccio uno sforzo enorme, superando i limiti delle mie possibilità economiche, ma mi lascio sognare per un po’, mentre attraversiamo il vialetto d’entrata e andiamo incontro a questo abbraccio fatto di scale bianche, curvate verso l’alto e ricamate da dettagli geometrici. Saremo lì tra dieci anni, alla sommità delle scale, a fumare una sigaretta mentre aspettiamo degli invitati. Guarderemo il bosco, nel quale lasceremo perdere i dubbi di una lunga relazione, ci stringeremo i mignoli sulla pelle porosa del carparo.
In questa vita però Villa Cristina Personè, adesso De Benedittis, è sicuramente l’esempio più ampio di eclettismo applicato all’architettura in queste zone e anche l’abitazione più lontana dalle mie possibilità.
La sua facciata presenta numerosi stilemi rubati a differenti epoche. Candida, brilla nell’ombra del sottobosco. Il tardo barocco allunga meno la sua ombra sulla costruzione e il risultato è una fabbrica strutturale meno piena, ma che non smette di presentare motivi moreschi, specialmente nelle cornici delle finestre bifore e nei merletti sulla sommità della costruzione. Si struttura su due piani: il piano terra presenta un arco appuntito, di chiara derivazione araba.
Ancora una volta non vediamo l’interno ma dobbiamo accontentarci del carapace della villa. L’attuale proprietario ci sorride con i denti sporgenti ma bianchissimi. Ha la testa rasata e un paio di occhiali rettangolari, dalla montatura fine. Il suo giaccone da caccia ben si sposa con il giovane retriever che tiene al guinzaglio. Il suo accento, ancora una volta, non è locale e il contrasto ricorda stereotipi di coloni britannici che spiegano bellezze africane, raccontandole con sincero afflato come se si trattasse di qualcosa veramente di loro proprietà.
G. in silenzio mi ricorda che l’uomo l’ha comprata ed effettivamente gli appartiene. Ma la bellezza candida dell’edificio mi si impone come una ricchezza comunitaria.
Dal lato destro della costruzione c’è una torre abortita che copre l’angolo a est e si innalza trapezoidale per poi bloccarsi all’altezza della terrazza. La guida ci racconta che il progetto è stato ricominciato e modificato diverse volte, un po’ per volubile volontà del mandante, un po’ per estrema cura dei particolari dell’architetto. Verso la fine della Seconda guerra mondiale, la villa aveva avuto un ruolo centrale. Gli alleati erano sbarcati su queste coste rendendo Cenate una zona militare, nella quale accoglievano i profughi, gli ebrei, gli sfollati. Li curavano e cercavano di rimpatriarli. Mentre tutta l’operazione di collocamento procedeva si era creata una comunità all’interno e all’esterno della zona, tra gli ebrei rifugiati e i locali. Villa Cristina Personè fungeva da centro nevralgico di controllo e di contatto della comunità. Più di un matrimonio, dice la guida, è stato festeggiato sulle scale dell’edificio. Non avevo quindi tutti i torti a fantasticare sulle due scalinate.
Mentre il cancello di Villa Personè si chiude alle nostre spalle il cellulare vibra di nuovo. La strada è stretta e le macchine rallentano quando si accorgono di noi ai lati della carreggiata. Con G. procediamo a passo più svelto verso una piazzola riparata, colma di luce.
Rispondo. La voce di Laura mi annuncia la scomparsa di L.
Esattamente dieci anni fa, l’ultimo giorno dell’anno, l’ho passato in queste zone con lei, con L. Avevamo attraversato nel buio aranciato le Cenate, a poche ore dalla mezzanotte e ci eravamo accostati al mare, lasciandoci alle spalle le ville e la pineta come un grosso grumo d’ombra. Sulla costa argentata avevamo brindato al primo dell’anno. G. mi guarda mentre stringo il telefono all’orecchio. I nostri prossimi dieci anni sono lì, vividi nel tempo. Immobile come la lucertola dalle scaglie verdi sul muretto, mi lascio attraversare dai dieci anni passati. È la geometria a confermarmi l’esistenza dell’entropia e queste ville ne sono i sacerdoti.
G. mi abbraccia e una bestia di carparo, appena coperta dalle fronde del bosco, mi offre l’occhio vuoto e il muso digrignato, al di sopra di una finestra trifora. Vorrei essere lei, ruggente e pietrificato, per questo attraversato senza conseguenze dal tempo; ma a pochi passi dal mare.