Dal 18 al 26 marzo scorsi si è svolta la 32esima edizione del FESCAAAL, il Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, una produzione dell’Associazione COE – Centro Orientamento Educativo, realizzato sotto l’egida del Milano Film Network e con il patrocinio del Comune di Milano. Nato nel 1991, il festival vuole portare, per una settimana, il meglio della produzione cinematografica delle zone “periferiche” del mondo nel cuore del capoluogo lombardo, ma non solo. Oltre al concorso ufficiale, infatti, il FESCAAAL è talk, incontri, opportunità di apprendimento e confronto con culture lontane, diversissime, attraverso un programma ricco e sfaccettato. Il tutto sotto la direzione artistica di Annamaria Gallone e Alessandra Speciale e in nuova formula ibrida, con parte della programmazione disponibile per lo streaming su MyMovies.
Il tema conduttore di quest’anno: Flower Power, inno al nuovo e alla rinascita, tanto dalle ceneri della vita a distanza sotto pandemia, che delle nuove strade che generazioni vecchie e nuove stanno aprendo sui grandi temi del nostro tempo: cambiamento climatico, inclusione sociale, diritti civili, futuro sostenibile. Le declinazioni sono avvenute attraverso quattro sezioni principali: il Concorso Lungometraggi “Finestre sul Mondo” (comprendente sia prodotti di fiction che documentari), il Concorso Cortometraggi Africani (dedicato alla sperimentazione e al racconto della diaspora africana), il Concorso Extr’A (per il racconto dell’Italia contemporanea e multietnica dal punto di vista dei registi italiani), e la Sezione Flash, casa dei film-evento del festival. E poi gli Africa Talks, format di approfondimento sull’Africa contemporanea che appaia la proiezione di un film a una tavola rotonda tematica.
Tra i partecipanti al concorso principale, ne abbiamo scelti due: Harvest Moon (2022), di Amarsaikhan Baljinnyam, di provenienza Mongolia; e Joyland (2022), di Saim Sadiq, girato tra Pakistan e Stati Uniti.
Vincitore del Premio della Giuria e della Queer Palm al Festival di Cannes del 2022, Joyland segue la maturazione di Haider Rana (Ali Junejo), ultimo erede maschio del suo cognome e casalingo, durante la gravidanza della moglie Mumtaz (Rasti Farooq), che, al contrario, lavora in uno studio di estetiste e non ha intenzione di relegarsi al ruolo casa-e-casa che la maternità comporterebbe in una famiglia pakistana tradizionale. Ma il lieto evento imminente spinge la giovane coppia a conformarsi agli ideali patriarcali dell’anziano padre di Haider, “Abba” (Salmaan Peerzada), invertendo i ruoli: ora sarà Haider a dover foraggiare vitto per la nuova famiglia, tanto più che Mumtaz aspetta un maschio. Tramite un amico, Haider trova effettivamente, e in breve tempo, un primo impiego: come membro del corpo di ballo di Biba (Alina Khan), performer transgender al “teatro erotico” della città, dove danza del ventre e vestiti succinti sono d’ordinanza. La famiglia, ovviamente, non deve sapere. Soprattutto perché, presto, tra Haider e Biba scatta qualcosa. Una scintilla che porterà a conseguenze irreparabili per le vite di tutti i personaggi coinvolti.
In varie interviste, il regista ha parlato di Joyland come di un film animato da un attento bilanciamento tra la componente tragica di una storia che, si capisce, non andrà a finire bene, e il suo lato ludico e leggero, sia in termini di personaggi che situazioni. D’altronde, il titolo potrebbe trarre in inganno. Ma Joyland altro non è che un parco giochi di Lahore, e con il divertimento, per i protagonisti, avrà poco a che fare. Nel dramma, però, il messaggio di Sadiq si ritaglia il respiro di piccole gioie, tra risate, affetti che fioriscono e spaesamenti impacciati e dolcissimi. Non è un caso che, alle battute iniziali, il film citi Romeo e Giulietta: la più triste delle storie finite male; l’unico sacrificio accettabile – la perdita della cosa più cara – per generare armonia laddove regnava il caos, con spadini-doppi-sensi e battutacce da gregari a inframmezzare il fattaccio (mi immagino ridessero una cifra, al Globe, durante le prime repliche). Star-crossed lovers, li chiamavano, amanti a cui le stelle furono avverse. Dunque, anche se la fine chiama tragedia, la base rimane l’amore, da cui ripartire per costruire il futuro con quello che si è appreso durante il viaggio.
Di viaggi, e opposizioni di mondi con le rispettive regole, parla anche Harvest Moon. Diretto, interpretato e co-scritto dalla star del cinema mongolo Amarsaikhan Baljinnyam, Harvest Moon si presenta nelle vesti dei più classici Daddy Movies: film in cui un padre decisamente mascolino (pensate Vin Diesel) salva la famiglia, o un/a figlio/a, da una situazione di pericolo o difficoltà. In questo caso, però, le cose si fanno più complicate. Perché il protagonista Tulga, interpretato dal regista, ha contezza di avere un figlio “segreto” e illegittimo. E la sua controparte infantile, il piccolo Tuntuulei (Tenuun-Erdene Garamkhand), sa di avere un padre sconosciuto. Luogo di provenienza di entrambi: la città, dove la madre del bambino vive e lavora. Luogo di incontro: la steppa della Mongolia, coltivata a grano ed ecosistema di valori e rituali paralleli, dove per far prendere campo al telefono bisogna salire in piedi sulla sella di un cavallo (tra l’altro, principale mezzo di locomozione di chi lavora quella terra e abita in maneggevoli yurte). Attraverso un percorso di formazione che tiene in sordina la detonazione potenziale, Tulga e Tuntuulei faranno fiorire lati dei loro caratteri che giacevano sopiti, concedendosi il lusso – e il dolore, in certa misura – di accettare l’altro per come il presente lo propone, senza affidarsi al futuro né rimestare nel passato. Harvest Moon è ben formulato, ben recitato, e la steppa sconfinata fa venire 1) voglia di ascoltare quella famosa canzone sui cosacchi dello zar imperialista dello Zecchino d’Oro, 2) tirare giù dall’armadio la maschera da Hemingway che indossavamo in gioventù e viverla, una buona volta, questa vita naturale. Insomma, funziona egregiamente. Non per nulla il film ha ricevuto il plauso del FESCAAAL, ricevendo il Premio del Pubblico Città di Milano.
Sul podio dei vincitori, per questa 32esima edizione, salgono anche: Tengo sueños eléctricos (Valentina Maurel, 2022), Premio Comune di Milano al Miglior Lungometraggio FINESTRE SUL MONDO; Mistida (Falcão Nhaga, 2022), Premio al Miglior film Concorso CORTOMETRAGGI AFRICANI; Go, Friend, Go (Gabriele Licchelli, Andrea Settembrini, Francesco Lorusso, 2022), Premio della critica SNCCI al Miglior film Concorso EXTR’A; A.O.C. (Sami Sidali, 2022), Premio Multimedia San Paolo / Telenova; Sur la tombe de mon père (Jawahine Zentar, 2022), Premio CINIT; Battima (Federico Demattè, 2022), Premio John Cabot University; Abdelinho(Hicham Ayouch, 2022), Premio ACEC – Diocesi di Milano.
L’invito, dunque, è di tenere sempre il passo con il trotto della zebra, simbolo del FESCAAAL, e di prepararsi a una nuova stagione piena di scoperte, emozioni, e amori a prima vista. Alla fine, questa è l’anima della scoperta. E scoprire, senza confini, è da sempre l’anima del FESCAAAL.